Fra tutti i romanzi di Ellery Queen, Il Mistero delle Croci Egizie non è certo una lettura riposante e scevra da scene forti (com’era vezzo della Detection all’inglese), ma invece un assordante fragore di morte, di sangue e di malvagità.
La prima volta che lo lessi avevo 13 anni, e
leggevo ancora i Gialli per ragazzi della Mondadori: le serie dei 3
Investigatori e gli Hardy Boys. Perciò quando lo trovai in un vecchio
mobile che stava nello stanzino a casa di mia zia, lo guardai con
sufficienza: non sapevo che di lì a poco sarebbe iniziata la mia più
grande scoperta: I Gialli, genere bistrattato, ora rivalutato, ma sempre
etichettato come Letteratura di genere.
Mi attrasse la copertina, con quelle figure egizie,
del grande Roger Barcilon, un disegnatore Mondadori oggi dimenticato,
le cui copertine hanno tutte lo stesso stile : i volti e le situazioni
sono indice di una forte drammaticità. E un alone come questo era più
che ovvio che attraesse un ragazzo di tredici anni. Mi ricordo
l’espressione che si disegnò sul volto di mio cugino: era sorpresa? O era forse
compiacimento?Certo che passare da I 3 Investigatori a
Ellery Queen, fu un salto epocale. E anche mio cugino apprezzò quella mia
scoperta.
Mi ricordo che lo divorai in un giorno. E se non
l’avessi trovato, se non fossi entrato mai in quello stanzino, che libri
avrei letto poi? Non lo so, questa è fantascienza ucronica, ma quello
che posso dire è che questo romanzo, proprio questo, è il solo che ho
letto e riletto almeno 4 volte assieme a Il caso dei Fratelli Siamesi (seguito nel numero da Il Mostro del Plenilunio, L’Automa, Il terrore che mormora e Piazza Pulita di Carr, Il pericolo senza Nome e Due mesi dopo della Christie, Morte dal Cappello a cilindro di Rawson e Il mistero della Camera Gialla di Leroux). E ogni volta mi provoca sensazioni uniche.
Va detto però che a distanza di parecchi anni, sono
pervenuto in possesso di altra copia dello stesso romanzo tradotto: il
Classico del Giallo n.31 del 1968 non portava riferimento al traduttore,
mentre altra pubblicazione nell’ambito della serie “ELLERY QUEEN :
Sfida al lettore” del marzo 1985 era firmata da Gianni Montanari, ed era
finalmente una traduzione integrale. Successivamente sono venuto in
possesso del Classico del Giallo n.768 del 1996 e quindi l’anno scorso
mi è stato regalato l’Oscar omonimo, tutte ripubblicazioni di tale
ritraduzione integrale. Che, è bene dirlo, finalmente ha reso giustizia a
questo autentico capolavoro: rispetto a questa seconda traduzione, la
prima aveva più di quarantacinque pagine in meno, anche se è bene dirlo
l’edizione del 1985 aveva le lettere più piccole e il testo più serrato:
quindi, a rigor di logica, se l’impaginazione fosse stata quella dei
Classici del Giallo, le pagine sarebbero potute essere certamente di
più.
Molto spesso nella prima rispetto alla seconda si
procedeva per salti con riassunti del tutto arbitrari di quanto saltato;
e poi mancava l’introduzione firmata dall’ ignoto J.J. McC. (ho supposto nel
mio articolo su Il Caso dei Fratelli Siamesi sul Blog Mondadori :
che si trattasse di riferimento alla casa editrice
McClure, uno dei due soggetti alla base dell’avventura dei due cugini
Queen nel mondo del Giallo, con The Roman Hat Mystery) che, nella prima traduzione,era stata del tutto ignorata.
Il romanzo è uno dei più sanguinari di tutta la produzione, con tre omicidi efferati : le decapitazioni di tre fratelli. Ed è il primo che vede Ellery Queen operare senza la partecipazione del padre Richard Queen, Ispettore di Polizia Metropolitana.
Comincia tutto con “la crocefissione di un maestro
di scuola”, Andrew Van, privo però di testa, a simboleggiare una
mostruosa Tau egizia, su un palo indicatore ad un crocevia stradale
della città di Arroyo: è la mattina di Natale.
Prosegue con la “crocefissione di un milionario”:
Thomas Brad, proprietario di Bradwood, “famoso importatore di tappeti”,
decapitato, legato ad un totem, dalla figura tristemente ricordante una
Tau egizia.
E si conclude con la morte di Stephen Megara , all’albero maestro del suo battello, ancora senza testa.
Una storia in cui il sangue scorre a fiumi: non
solo il sangue dei tre corpi oltraggiati, ma quello di vendette lontane.
Infatti sembrerebbe ad un certo punto che l’omicidio efferato dei tre
uomini, tre fratelli, rifugiati in America per scomparire dalla faccia
della terra, non si riducesse ad altro se non ad una vendetta tribale,
una faida tra due clan, quello dei Krosac e quello dei Tvar, nel
Montenegro: in realtà, lo si scoprirà alla fine, è molto più di ciò. E
in un certo senso, l’orrore della situazione drammatica, è superiore a
quello derivante dal compimento di una vendetta lontana geograficamente e
temporalmente. Tre uomini che per fuggire e cambiare la propria
identità avevano scelto di attribuirsi una nazionalità fittizia
originaria: Andrew Van l’Armeno, Thomas Brad il Rumeno, Stephen Megara
il Greco, cambiando il proprio originario nome in quello di tre
rispettive e diverse città: Van in Armenia, Brad in Romania, Megara in
Grecia. Erano tre fratelli disperati che volevano lasciarsi alle spalle
un triste passato e cercare nell’America delle speranze immutabili,
nuovi stimoli di vita: troveranno un triste destino, perseguitati da un
assassino che viene da lontano, Velja Krosac. Ma, poi, è tutto davvero così?
E quella T mostruosa, formata dalle braccia distese
legate o crocefisse, di un corpo umano mancante di testa, suggerirà nel
corso del romanzo più interpretazioni: innanzitutto la Tau egizia, cui
si ricollegheranno altre suggestive teorie. Va detto che lo stesso
motivo egiziano è una caratteristica molto precisa che collega tra loro
parecchi scrittori aventi in S.S. Van Dine il loro vate, anche se prima di tutti c'era stato The Eye of Osiris, di Freeman, del 1911. Infatti da The Scarab Murder Case
di Van Dine (1930), altri romanzi derivano la loro trama, rifacendosi
in vario modo alla civiltà egizia: il romanzo in questione di Ellery
Queen (1932); Death On The Nile, The Adventure of the Egyptian Tomb, Death Comes as the End di Agatha Christie; The Mummy Case di Dermot Morrah; Arrogant Alibi (1938) di Charles Daly King; persino The Man from Tibet
(1938) di Clyde B. Clason che ambienta in Tibet una storia che pari
pari deriva dal romanzo di Van Dine. Non dimentichiamoci che proprio
agli inizi del secolo scorso si ascrivono importantissime scoperte
archeologiche in Egitto (per es. la scoperta della Tomba di
Tut-Ank-Amon), di immediata diffusione mediatica sia in Europa che in
America; e che proprio archeologi sia europei che americani erano
impegnati in quegli anni sia in Egitto che in Medio-Oriente. E non
scordiamoci neanche, che prima che ambientasse Van Dine una delle
avventure di Philo Vance in un museo di egittologia, ci aveva pensato
già Richard Austin Freeman a concepire un romanzo in cui a vario titolo
si parlasse di Egitto: The Eye of Osiris (1911). E del resto il
modo come Ellery tratta la materia, fa sì che la sua cultura
enciclopedica si rifaccia direttamente al suo archetipo, ossia il Philo
Vance di S.S. Van Dine.
Ma poi si arriverà all’epilogo e allora verrà
rivelato l’arcano, dopo un terrificante avvicendarsi di colpi di scena
che partendo da faide e vendette consumate sui monti del Montenegro,
attraverso un susseguirsi di indizi incongruenti, da un Tarzan senza
perizoma, a pezzi di dama, a pipe, a crux ansate, a foglietti nascosti
in posti inaccessibili, rivelerà il piano perfetto di una mente malata,
un omicida implacabile, che non sarebbe stato mai acciuffato se non
avesse commesso un insignificante errore: perché mai per disinfettare
una ferita, avrebbe dovuto prendere una boccetta di tintura di jodio
priva dell’etichetta, quando ce n’era un’altra disponibile e con tanto
di indicazioni?
Alla base di questo indizio sta il come Ellery
prova che l’assassino sia davvero quello da lui indicato. Un particolare
che solo la sua mente analitica riesce a inquadrare in tutta la sua
luce, inserendola perfettamente nel puzzle in modo che dia un senso al
resto.
E’ da dire che comunque nel periodo in cui viene
creato questo notevole romanzo, non è la prima volta che si parli di
Montenegro nei Gialli: anche Rex Stout, anche lui seguace di Van Dine
nei primissimi suoi romanzi, crea il suo personaggio principale e più
fortunato, Nero Wolfe, attribuendogli, dopo una natalità a Trenton del
New Jersey, delle origini montenegrine.
La purezza della razza aveva sempre attirato più di
uno scrittore: e che si trattasse di montenegrini, come nel caso in
questione, o di corsi, come in Colomba di Prosper Merimée, quello
che attirava era anche la pulsione del sentimento, non mediata da alcun
elemento civilizzato, odio e amore forti, elementi interessanti per
degli scrittori che vivevano esperienze di vita in stati già allora
multirazziali, come la Francia di fine secolo o l’America di inzio
novecento, patria di tutti coloro che volevano lì rifarsi una vita.
Del resto l’aver scelto un soggetto come questo, e
aver sguazzato il romanzo nel sangue, è solo il riferimento lontano a
tutto quello sparso nelle guerre della penisola balcanica, che
evidentemente ad una coscienza civilizzata doveva sembrare un tributo
troppo alto e troppo irragionevole per non amplificarlo anche e solo in
un giallo.
Se parliamo di tecnica, dobbiamo fare un discorso a parte.
Il ns. romanzo è il quinto della prima decade, ma nella successione dei primi dieci va detto che i romanzi pur avendo tutti (con l'eccezione di The Twin Syamese Mystery) la cosiddetta "Challenge to Reader", la Sfida al lettore cioè, si commetterebbe un errore se si pensasse che fossero tutti uguali nella concezione : infatti potremmo dire per sommi capi che i primi tre romanzi sono decisamente derivati da Van Dine (soprattutto il primo): The Roman Hat Mystery, The French Powder Mystery, The Dutch Shoe Mystery; il quarto, The Greek Coffin Mystery, già si distacca dai tre portando all'estremo la cosiddetta Concezione Deduttiva Formale postulata da Nevins e quindi affermandosi in virtù delle deduzioni sempre più stringenti e una diversa dall'altra, come il romanzo più deduttivo in assoluto, un vero spaccacervelli; il quinto, questo, se fossimo portati a pensare che potrebbe essere sulla stessa scia del quarto, falliremmo miseramente, perchè The Egyptian Cross Mystery, in cui per la prima volta Queen cerca una via propria, prendendo le distanze da Van Dine, di tutti i romanzi è il meno deduttivo, o meglio è quello in cui di deduzioni ce ne sono poche, perchè abbondano le false piste introdotte da falsi indizi, che sviano dall'indagine principale. Questa abbondanza di indizi, la maggior parte di cui è falsa (pipe, foglietti nascosti tra i tasti del pianoforte, pezzi di dama, croci ansate), che Nevins chiama The Hollow Centre ha lo scopo di nascondere anche l'unico indizio vero, che ovviamente passa inosservato. Dopo The Egyptian Cross Mystery, The American Gun Mystery per quanto abbia un mistero molto intrigante (una pistola fatta sparire) e deduzioni stringenti, è uno dei meno appetitosi, forse anche per come i capitoli finali sono concepiti, meno sfolgoranti di quelli precedenti, e con una concezione stilistico formale che talvolta sembra eccessiva, nella ricerca a tutti i costi di una credibilità che non sempre il lettore medio accetta. Il settimo, The Twin Syamese Mystery, è un nuovo straordinario romanzo, dominato dal tema del doppio, e da deduzioni che contraddicono altre, in cui false piste e falsi indizi, distolgono dalla ineccepibile definitiva soluzione, mentre l'ottavo, The Chinese Orange Mystery, è uno dei più celebrati, per gli elementi bizzarri inseriti nella scena del delitto, per di più una falsa Camera Chiusa: due lance inserite tra abiti e corpo della vittima, perfettamente sconosciuta, e un insieme di arredi e suppellettili rivoltate al contrario: la soluzione finale lascia senza parole (anche troppo!!!). Questo ottavo romanzo, si collega al nono, The Spanish Cape Mystery, per il particolare abbigliamento indossato: laddove nel precedente, la vittima dopo essere stata uccisa, era stata rivestita con gli abiti al contrario e due lance africane conficcate tra abiti e corpo quasi fosse uno spaventapasseri, nel successivo, la vittima viene trovata denudata completamente, con addosso un mantello e un bastone. Questo nono romanzo pur avendo una soluzione logica è il meno appetibile (come il sesto) in virtù di una trama troppo esorbitante in rapporto alla quantità degli indizi. E infine il decimo, pur avendo una delle trame migliori, e ripetendo di nuovo il tema del doppio, attua lo stacco dal gruppone dei romanzi basati sulla deduzione formale (che Nevins comprende nel Primo Periodo Queeniano), avvicinandosi maggiormente ai romanzi della maturità, e lo si vede nel fatto che il titolo scelto (pur essendo stato in un primo tempo uguale agli altri: The Swedish Match Mystery) fu diverso, Halfway House: da Halfway House, la spettacolarizzazione della trama si attenua, e di converso vengono sviluppate sempre più tematiche che hanno ad oggetto le donne, universo prima quasi escluso nelle trame, e soprattutto a tappe il personaggio Ellery da dandy intellettuale si umanizza sempre più. It's convenient to date the beginning of Queen's second period from Halfway House (1936) since this is the first of Ellery's cases not to contain an adjective of nationality in the title. But the new title format is merely symptomatic of changes in substance. The main influences on Dannay and Lee in this period were the women's slick magazines, to which they began to sell around the middle of the decade, and Hollywood, where they worked as script writers for Columbia, Paramount and
M-G-M in the late Thirties. Compared with the early masterworks, the novels of Period Two suffer from intellectual thinness, an overabundance of feminine emotion, and characters cut out of cardboard with the hope that they would be brought to life by movie performers. On the other hand, with the broader perspective that accompanies the passage of time we can see the entire second
period as a series of steps in the progressive humanization of Ellery and the Queenian universe and as the necessary preparation for the great synthesis of Period Three (Francis M. Nevins, Jr.: Royal Bloodline: Ellery Queen, Author and Detective, 1974).
M-G-M in the late Thirties. Compared with the early masterworks, the novels of Period Two suffer from intellectual thinness, an overabundance of feminine emotion, and characters cut out of cardboard with the hope that they would be brought to life by movie performers. On the other hand, with the broader perspective that accompanies the passage of time we can see the entire second
period as a series of steps in the progressive humanization of Ellery and the Queenian universe and as the necessary preparation for the great synthesis of Period Three (Francis M. Nevins, Jr.: Royal Bloodline: Ellery Queen, Author and Detective, 1974).
In particolare The Egyptian Cross Mystery è nel novero dei dieci romanzi, il primo che anticipa un po' le soluzioni stilistiche del decimo: i due cugini infatti, abbandonano per un momento lo stile dei primi quattro, molto ricco in scrittura e ne adottano uno più essenziale, badando di più a creare un'atmosfera, dei personaggi a tutto tondo, e badando soprattutto a concatenare maggiormente le varie sezioni, collegandole ai vari indizi riscontrati. Inoltre anche in questo, anzi in questo più che in altri romanzi, il Gambitto Birlstone è usato ripetutamente.
GAMBITTO BIRLSTONE
Nevins usa questa accezione per indicare un particolare espediente, una sorta di micro-struttura all'interno della macro-struttura dei tanti romanzi queeniani in cui fu usata. In sostanza in tutti i grandi romanzi della prima decade, e in generale nei romanzi degli anni trenta, questo Gambitto (= stratagemma) viene utilizzato. Trae il nome da locus dove per la prima volta fu utilizzato, Birlstone Manor House, sede dell'azione in The Valley of Fear (1915), quarto dei quattro romanzi di Conan Doyle. In sostanza il Gambitto Birlstone è un particolare congegno narrativo in cui l'Assassino è legato alla sua vittima da una particolare condizione, che non posso rivelare qui, senza necessariamente rovinare il piacere di leggere i romanzi in cui è applicato. E non è applicato solo dai Queen nei loro romanzi, ma da molti altri scrittori tra cui Agatha Christie, Patricia Wentworth, Christianna Brand, Nicholas Blake, John Dickson Carr, E.C.R. Lorac e altri.
Proprio applicando ripetutamente questo Gambitto, Ellery Queen crea un'atmosfera estremamente plumbea, gravida di minaccia, che sviluppa una tensione altissima per tutta la durata del romanzo. Tensione che per raggiungere picchi ancora maggiori, viene opportunamente allentata, e poi di nuovo sollecitata in maniera più pressante, fino ad arrivare alla chiusa finale, l'ultimo capitolo in cui si risolve il tutto, e viene data spiegazione del Gambitto, e si capisce anche come un determinato indizio, interpretato giustamente, avrebbe potuto in ogni lettore di capacità introspettive pari agli autori, dare la capacità di individuare l'assassino.
E' curioso come il capolavoro assoluto di Carr, The Three Coffins, scritto dopo questo di Queen, presenti una trama simile, ossia tre fratelli minacciati di morte, e una vendetta che arriva da lontano e si sviluppa nell'Europa Orientale (il Montenegro per Queen, la Romania per Carr).
Tuttavia qualche neo questo romanzo ce l'ha: nel finale (dopo aver letto Nevins, e quindi aver posto ancor più acume in certe situazioni), non si capisce come Kling non sia morto di inedia, tanto più che era solo, e gli era impossibile procurarsi il cibo; e per di più , e non si può proprio non esser d'accordo con Nevins, il soggetto pur essendo morto di stenti, non li presenta sul corpo. Questa è sicuramente una falla, un passo non sufficientemente limato. Inoltre presenta una caratteristica, che poi verrà esplicitata in modo ancor più netto in The Chinese Orage Mystery, ossia la presenza di elementi nel corpo centrale del romanzo, che molto poco hanno a che fare con il finale: sembrerebbe che fossero stati messi per allungare il brodo, ma invece hanno altro scopo. E' quello che Nevins definisce the "Hollow Center", il Centro Vuoto.
Inoltre, la mattanza di corpi decapitati, la profusione di sangue, al di là della somiglianza con croci egizie, sono funzionali alla storia, in quanto applicano Il gambitto Birlstone e insieme suggeriscono come in una prima stesura del romanzo, il tema del sangue e della morte dovesse fare da sfondo ad un romanzo sulla guerra. Infatti, come suggeriscono altri, in primis lo stesso Nevins, questi elementi - ognuno dei tre fratelli Tvar porta un nome che richiama una città dell'Europa orientale (Megara, Dan, Brad) e il fatto che il misterioso vendicatore Krosac sia Velja, altro nome riconducibile ad una città, indica come la guerra di Krosac ai tre fratelli potesse essere vista anche come la guerra a diverse città, quindi in sostanza un romanzo non sulla morte dei tre fratelli, ma sulla morte di varie città, in seguito alla guerra. E che quindi Dannay avesse pensato di fare una metafora sulla guerra con questo romanzo, metafora poi abbandonata.
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