sabato 28 settembre 2024

Ngaio Marsh : Giochiamo all’assassino (A Man Lay Dead, 1934) – trad. Giulia Betocchi – I Gialli del Secolo N. 211 del 1956.

 

 

 

 

 Quando ero giovane, ho letto (si può dire) tutta l’opera di Agatha Christie.
La scelta fu indotta principalmente da due fattori: il primo fu la sponsorizzazione diretta della mia indimenticata docente (del Ginnasio) di Lettere, Latino e Greco, che non faceva altro che parlare di Agatha Christie, di Poirot sul Nilo, di Corpi al Sole etc.. E già questo sarebbe un tassello non di poco conto, visto che in Italia, la letteratura di genere è ritenuta poco più che niente al confronto di altri generi di letteratura “più nobili”e pochissimi sono i docenti che la difendono. Ma per di più non si deve dimenticare che Agatha Christie ha goduto di un trattamento più che di favore presso la Mondadori, in quanto la sua opera completa di romanzi e racconti polizieschi è stata messa a disposizione dei lettori, in maniera integrale, in libreria. Fenomeno più unico che raro. Per uno come me, che era curioso di leggere cose che non fossero quelle di Nancy Drew, dei Tre Investigatori, e degli Hardy Boys, che già avevo letto, la scelta quindi era più che obbligata.
Devo dire in tutta sincerità che la Christie mi è piaciuta molto, non del tutto però. Col tempo, ho cominciato a leggere dell’altro, e ho scoperto come vi fossero degli scrittori di pari livello forse, ma non pubblicati in Italia, in libreria, come lei.
I miei lettori sapranno che io amo molto Ngaio Marsh e Christianna Brand, al pari di Agatha Chistie. Negli ultimi anni, le prediligo alla più nota scrittrice. Oggi parlerò di un romanzo di Ngaio Marsh, non trovabile in libreria, e neanche pubblicato da Mondadori, ma da..nei Gialli del Secolo. Quindi ad oggi virtualmente introvabile o reperibile solo difficilmente. Perché ne parlo allora? Perché questo blog non è rivolto a cose che si possano trovare, ma anche e soprattutto a cose introvabili, eppure straordinarie, così da costituire l’input a che qualcuno le cerchi (e magari qualcun altro le ripubblichi).
Straordinario romanzo? Sì, proprio così. Purtroppo, per una scrittrice come Ngaio Marsh, famosa anche e soprattutto per le sue meravigliose descrizioni, un testo tradotto all’osso, senza orpelli, ma neanche senza quelle raffinatezze che solo una traduzione integrale e fatta bene, avrebbe saputo valorizzare, un romanzo come questo, presentato nella Collana dei Gialli del Secolo, perde molto del proprio fascino. Eppure è ancora un eccezionale saggio di scrittura e genialità. Non dirò nulla su Ngaio Marsh, perché ne ho parlato altre volte; dirò solo qualcosa su questo romanzo. 

A Man Lied Dead, è la sua opera prima. 

Fu pubblicata nel 1934. E’ un coacervo di idee, ognuna di per sé interessante: armi antiche e maledette, società segrete, tre russi che complottano, e un delitto inspiegabile. Idee che non è detto che in altre mani avrebbero, tutte insieme, prodotto un risultato soddisfacente. Il fatto è però che in questo caso ci troviamo dinanzi ad una delle scrittrici maggiori del ‘900, famosa non solo per i suoi romanzi polizieschi ma anche per i suoi lavori teatrali. Anzi, posso dire, senza timore di essere contraddetto, che questo primo suo romanzo è assieme un’opera teatrale ed un romanzo poliziesco: ha un così alto livello di spettacolarizzazione, di orchestrazione e di cura dei particolari, da lasciare interdetti.
Sir Hubert Handesley è famoso per le sue feste, indimenticabili. Ha invitato questa volta sua nipote Angela North, Charles Rankin un uomo di 46-47 anni, inveterato playboy, Nigel Bathgate, cugino di Rankin e giornalista di cronaca, Rosamund Grant, una gran bella donna, e infine i signori Wilde, Arthur archeologo, e sua moglie Marjorie. Scopo della festa è organizzare un Cluedo Party: il gioco dell’assassino. Bisognerà prima scegliere un assassino, che dovrà scegliersi la vittima. Una volta comunicata la sua decisione, la vittima dovrà fare il morto e gli altri dovranno – entro un tempo limite – scoprirne l’assassino. Il fatto è che non tutto va dove dovrebbe andare: in altre parole, dopo che l’assassino ha colpito, il morto..rimane morto sul serio: Charles Rankin, che aveva avuto il torto di cercare a tutti i costi di rendersi antipatico ( deridendo in pubblico Arthur Wilde, mettendolo letteralmente in mutande; prendendo in giro le due donne Marjorie e Rosamund, entrambe di lui innamorate, ed una delle due, Marjorie fedifraga, avendo con lui una relazione extramatrimoniale; inimicandosi il dottor Tokareff, medico russo, facente parte di una società segreta, a causa di un antico pugnale mongolo, che Rankin ora possiede ma che prima apparteneva alla società segreta di cui Tokareff è uno degli affiliati; e per di più aveva promesso, in caso di morte, 3000 sterline ad Arthur Wilde e il pugnale al padrone di casa , Sir Hubert Handesley, noto collezionista di armi antiche), giace ora per terra, col pugnale mongolo infisso nella schiena, secondo un’angolazione per cui lo stesso cuore sia rimasto trafitto.
Ben presto, l’Ispettore Roderick Alleyn, rampollo di famiglia aristocratica, che lavora in polizia più per appagare una sua passione che non per altro, entra in scena, trovandosi di fronte ad un problema apparentemente insolubile: tutti i soggetti sono al riparo da accuse, in quanto ognuno di essi è protetto dalle dichiarazioni almeno di uno degli altri invitati, se non del personale di servitù. Qualcuno deve pur avere ucciso Charles Rankin! Eppure dalle testimonianze, tutti gli autori del dramma sarebbero nell’impossibilità di aver commesso l’omicidio: c’è chi stava nella vasca da bagno, chi cantava squarciagola dall’altra parte della casa, chi era stata vista altrove dalla servitù. L’unica persona che sembrerebbe essere più a rischio è Rosamund, il cui alibi è stato contraddetto da una cameriera.
Intanto però si muovono, assieme al subplot centrale, altri secondari: la società segreta, il pugnale antico e maledetto, la fuga del maggiordomo, Vassily, anche lui russo; la morte apparentemente sconnessa di un polacco a Soho. Poi vengono trovati degli indizi: un guanto bruciato nel camino, la lanugine di una pelliccia nera attaccata ad un cancello del cortile, una lettera misteriosa. E alla vicenda centrale si lega quella di una macchinazione di una società segreta, di torture, delle indagini più che di Alleyn, cui è riservato il ruolo di “deus ex-machina”, dello stesso Nigel innamorato (amore ricambiato) della bella Angela North. E’ come se la Marsh, qui facesse le prove generali per le sue storie indimenticate, che intrecceranno vicende poliziesche a elementi sentimentali (la storia di Agatha Troy, pittrice, con Roderick Alleyn, Ispettore di polizia ma soprattutto Lord: non a caso, in uno sceneggiato che venne costruito su questa storia, ad Angela North di cui si innamora ricambiato Nigel Bathgate, venne sostituita Agatha Troy, presente in gran parte delle altre storie della Marsh).
Può essere stato Tokareff ad assassinare Rankin, per rientrare in possesso del pugnale, detenuto impropriamente da Rankin? Oppure il padrone di casa per accaparrarsi un oggetto preziosissimo? O lo stesso Wilde per entrare in possesso delle 3000 sterline (ma non ne avrebbe bisogno)? Oppure sono state le due donne, Rosamund o Marjorie ad assassinarlo per vendicarsi di essere state usate? Oppure la stessa Angela o Nigel, per oscuri motivi? Qualcuno ha suonato il gong, quando è stato commesso l’omicidio: per quale motivo richiamare l’attenzione dei presenti? Perché è andata via la luce? Chi ha potuto colpire alle spalle Rankin, abbastanza alto da raggiungere la panoplia nella quale è stato riposto il pugnale, afferrarlo e colpire alle spalle Rankin, che stava preparandosi un cocktail, senza che lui se ne accorgesse? E soprattutto come ha fatto tenendo conto che tutti (tranne Rosamund, ma non è lei l’assassina) hanno alibi inattaccabili, cioè sono messi al riparo dalle indagini dalle testimonianze si altri soggetti del dramma? Ci riuscirà in ultima battuta Alleyn, con un exploit ed una soluzione da lasciare a bocca aperta.
Già con questo primo suo romanzo, con la pubblicazione del quale Ngaio Marsh entrò a pieno titolo nell’ambito del gruppo delle Crime Queen (formato anche da Christie, Sayers e Allingham), Ngaio Marsh delineò la sua tecnica narrativa che avrebbe fatto scuola: c’è una prima parte in cui viene presentato il luogo e gli autori del dramma, avvengono le schermaglie tra gli stessi, e viene presentata di solito ed inquadrata l’ipotetica vittima, quasi sempre abbastanza antipatica da poter accentrare su di sé le ire dei presenti. Poi avviene il delitto ed entra in scena l’ispettore Alleyn che comincia a raccogliere indizi, per costruire delle prove. Infine Alleyn inchioda, nel corso di spettacolari finali, l’insospettabile assassino alle sue responsabilità.
Questo romanzo potrebbe essere ascritto a quelli con delitto impossibile se non con Locked Room celata. Perché? Nel corso del romanzo, a un certo punto, si precisa che nessuna altra persona, dal di fuori, avrebbe potuto commettere l’omicidio di Rankin, perché la casa era stata isolata da una nevicata che aveva avvolto la campagna circostante, per più di congelata. Quindi, se Ten Little Niggers di Agatha Christie fosse una Locked Room, come alcuni dicono, perché i crimini avvengono su un’isola, anche questo romanzo di Ngaio Marsh potrebbe essere ascritta alla lista delle Camere Chiuse.
Tutti i romanzi presentano questa successione di momenti sempre ben cadenzati, già presenti in questo primo romanzo, in cui, è bene dirlo, il grosso dell’indagine non è svolto tanto dall’ispettore, quanto dal giornalista. Avviene cioè, quello che leggiamo nella prima avventura del Merrivale, di Carter Dickson: l’entrata in scena, attentamente studiata, del personaggio presente in tutti i romanzi della scrittrice, che ha una funzione di vero e proprio deus ex-machina, colui che risolverà l’enigma, partendo da indizi di per sé senza sostanza. Ngaio Marsh delinea qui quello che sarà il carattere tipico della scuola britannica, differenziandola da quella americana, nell’ambito del Mystery: prima del delitto c’è sempre (o quasi) una specie di introduzione in cui vengono descritti i personaggi e si delineano le azioni del dramma; dopo il delitto, invece, entra in scena il detective, che risolve il tutto. Parecchi sono gli autori che si attengono a questo tipico modo di presentare la storia: per esempio un’altra classicissima scrittrice, come Georgette Heyer. John Dickson Carr invece pur facendo parte e operando nell’ambiente inglese degli anni trenta, se ne discosta radicalmente, anche perché è americano: tutti o quasi gli americani cominciano la storia col delitto, e semmai, dopo, spiegano gli antefatti.
Notiamo inoltre un’altra caratteristica che invece accomuna stranamente la Marsh alla narrativa di ambiente americano (ma accadrà anche per Christianna Brand per altre ragioni), soprattutto all’ambiente vandiniano, a testimonianza che non è detto che Van Dine non abbia avuto proselite o sviluppatori anche nella scuola britannica: Alleyn è un aristocratico come Vance; le storie contengono quasi sempre dei particolari bizzarri; i delitti se non sono impossibili, poco ci manca!; gli ambienti sono formalmente circoscritti; vi sono sempre riferimenti all’arte, al teatro, al collezionismo; ed è poliziotto, come Michael Lord di Daly King o Tatcher Colt di Abbott.
Ancora un’altra cosa: la presenza di più subplot, che di per sé anche non collegabili direttamente al delitto, comunque hanno il pregio di incasinare la situazione, distogliendo gli spettatori dal vero obiettivo dell’azione scenica: inquadrare l’assassino. Spesso inoltre Marsh, afferma delle cose, che poi vengono contraddette da altre, e spiegate in diversa maniera, prima insinuando il possibile colpevole, poi liberandolo dalle accuse ed infine ritornando su di esso ed inchiodandolo alle sue responsabilità. Con una storia che ha i tratti a volte della spy-story (la congiura filo-bolscevica), a metà anche nelle ultime sezioni del thriller e dell’hardboiled, con un poliziotto e Nigel prigionieri dei russi, picchiati e torturati con gli spilli sotto le unghie, ma soprattutto del mystery puro, Ngaio Marsh affascina, regalandoci un romanzo straordinario per intensità, ma delizioso al contempo per la leggerezza dell’impianto e per la poliedricità delle voci in capitolo: come un consumato direttore d’orchestra – ma qui è al suo esordio! – Ngaio Marsh riesce a dare corpo a diversi movimenti, a dare voci a diverse sezioni strumentali, pur senza perdere mai la visione dell’assieme e del particolare. E nello stesso tempo, imbastisce una vicenda nella vicenda: un Cluedo ad uso del lettore, che utilizza il Cluedo come base per la messinscena narrativa, applicando idee anche di altri scrittori: alcuni hanno messo in chiaro come le torture e i malviventi rimandino a storie di Wallace, mentre a me il delitto spiegato in termini di secondi, mi fa pensare a certi romanzi di Crofts, basati su alibi inattaccabili che poi vengono smascherati (come qui).
Rimarco infine come in tutte le sue storie, Ngaio Marsh, ripetendo all’infinito, in tutte le varianti, la sua costruzione teatrale della vicenda, basata su tre sezioni scandite regolarmente e continuamente, faccia suo e applichi in un ambito narrativo, una tecnica che, ai primi dell’Ottocento, era espressione della musica strumentale più classica: tre sezioni, concatenate tra loro, variate innumerevoli volte, secondo i temi musicali (spesso opere liriche ed arie) da innumerevoli autori : una Introduzione, in cui viene inquadrato il tema dell’azione; un Tema e delle Variazioni in cui l’azione si sviluppa in vari modi; un Finale, spesso virtuosistico, in cui l’azione finisce in una catarsi liberatoria.
Possibile che Ngaio Marsh abbia elaborato la costruzione delle sue storie partendo da una tecnica compositiva tipica del Biedermeier musicale di primo Ottocento? Secondo me è possibilissimo, tanto più che il Biedermeier, che altrimenti e altrove si evolve nel romanticismo, in Inghilterra rimane, per più tempo, connesso alla forma della Monarchia, che altrove finisce, mentre qui rimane intatta. E non a caso la società che la Marsh rappresenta, il più delle volte, è quella aristocratica, vista nella sua visione più conservativa, proprio perché non vissuta, ma assunta come propria pur non essendolo: non a caso Ngaio Marsh, neozelandese, diventa più britannica di scrittori britannici come per esempio Edmund Crispin o Nicholas Blake, che invece tendono a staccarsi dall’ambiente più tipicamente conservatore della narrativa inglese, proponendo storie che li avvicinano invece ad esponenti non britannici.
Un po’ un moto al contrario rispetto a quello di Ngaio Marsh. 

Pietro De Palma

domenica 22 settembre 2024

Mary Roberts Rinehart – “La Camera Gialla” (The Yellow Room, 1945), trad. Maria Luisa Bocchino, I Classici del Giallo, Mondadori, N.857 del 1999



Quando cominciò a scrivere The Yellow Room, Mary Roberts Rinehart aveva 67 anni.
Era nata a Pittsburgh nel 1876 e nel 1896 si era sposata. Nel 1903, con il Crollo della Borsa di New York, la coppia si era trovata sul lastrico, e la difficile condizione finanziaria aveva spinto Mary ad intraprendere la carriera di scrittrice, esordendo su magazines con storie che le fruttarono soldi e popolarità.
I due primi suoi romanzi furono previsti inizialmente a puntate, per il magazine “Pulp All Story”: il primo, The Man in Lower Ten uscì nel corso del 1906 per diventare poi un volume solo nel 1909 (“L’uomo nella cuccetta N.10”); il secondo, The Circular Staircase, pubblicato a cavallo del 1907-1908, fu pubblicato quasi a furor di popolo in volume e fu il romanzo che lanciò la Rinehart, venendo ridotto per il grande schermo e facendo la sua fortuna: “La Scala a Chiocciola”. Da allora Mary Roberts Rinehart, scrisse molti altri capolavori. The Yellow Room è uno dei suoi ultimi.
Mary Roberts Rinehart morì nel 1958: nel 1954 aveva vinto uno Special Edgar Award con The Frightened Wife, l’ultimo suo romanzo.
Carol Spencer è la proprietaria di Crestview, nel Maine. Sua madre vuole che il figlio Greg, fratello di Carol, ed eroe nella guerra nel Sud-Pacifico, che ritorna in patria con una licenza di trenta giorni per essere decorato dal presidente Roosvelt, possa dimorare nella loro villa.
L’altra sorella di Carol, Elinor Hilliard, cerca in tutti i modi di dissuaderla dal recarvisi: è troppo grande, sarà fredda, e tre sole domestiche non potranno renderla accogliente perché Greg vi si rechi.
Ma la madre delle due sorelle è testarda, e Carol vuole renderla contenta. Così parte. Quando arriva alla casa e apre la porta, trova la porta d’ingresso inspiegabilmente chiusa a chiave: si aspettava che Lucy, la custode, avesse provveduto almeno a riscaldare il fuoco, ed invece…trova una casa da cui sono stati tolti gli scuri parafinestra, è stato tolto il telo della piscina, in biblioteca sono stati tolti i teli che ricoprivano mobili e divani ed è anche stato steso un tappeto, ma non trova gente ad  accoglierle; solo uno strano e disgustoso odore, anche di bruciato. In una casa gelida.
Quell’odore ed il gelo delle casa già fanno andare di testa una delle cameriere, Freda, che vorrebbe andar via. Ma viene invitata a rimanere, almeno fino a quando le viene ordinato di andare a prendere delle coperte da un armadio a muro al primo piano. Freda, vi si reca, poi urla a squarciagola, scende a precipizio in preda a puro terrore, in tempo per svenire davanti a Carol e Maggie, la cuoca. Quando rinviene parla di un morto, nell’armadio. Maggie non le crede, và lei a vedere, ma anche lei vede un corpo nell’armadio ed un principio di incendio. Ecco spiegata la prolessi, e lo strano odore di bruciato: qualcuno ha nascosto nell’armadio un cadavere cercando di darvi fuoco, versandovi addosso del combustibile, ma l’anta dell’armadio si è chiusa e ha soffocato il fuoco togliendo l’ossigeno necessario al proliferarsi dell’incendio. Probabilmente l’intento era quello di dar fuoco all’intera casa: trovandovi un cadavere carbonizzato, si sarebbe potuto pensare che fosse un vagabondo per esempio. Ma qualcosa non quadra.
Infatti il cadavere, che è di una giovane donna, indossava un negligè di seta rossa e biancheria intima fatta a mano, e delle pantofole originariamente azzurre, e sulle spalle una pelliccia di volpe argentata: lo si è desunto da quello che si è trovato, non bruciato sotto il cadavere. Ne parla Starr, un giornalista che vuole strappare un’intervista a Carol; inoltre egli accenna al fatto che potesse essere sposata, perché è stata trovata al dito una fede nuziale.
 Il cadavere non calza scarpe ma pantofole, come se da qualche parte, vicina al luogo in cui ne è stato trovato il cadavere, fosse arrivata. In effetti, dalle testimonianze che si raccolgono, si desume che qualcuno, all’insaputa di Elinor e a anche di Lucy, la guardiana, aveva abitato nella Camera Gialla, della Villa: infatti il letto smosso, la candela consumata sul comodino, tracce di cipria, testimoniano una permanenza di qualcuno, verosimilmente una donna. Una molletta per capelli, trovata con un capello ossigenato, del tipo di quelli rinvenuti non bruciati sul cadavere, non si accorda coi capelli per esempio di Elinor, di colore biondo naturale.
Ma come si vede il dato più strano riguarda il vestiario: scarpe, calze e i vestiti con cui la donna dev’essere arrivata non si trovano: evidentemente son stati fatti sparire per impedire il riconoscimento della stessa, visto che il liquido infiammabile versato addosso alla vittima ne ha reso impossibile il riconoscimento. Gli unici indizi riguardano una fede nuziale al dito, e la stessa compostezza del cadavere che testimonia un tentativo di distruggerlo post mortem: infatti viene poi scoperta la causa di morte in una frattura dell’osso frontale del cranio; in più una vanga incrostata d’argilla viene ritrovata nel capanno degli attrezzi, e, cosa straordinaria, il servizio di porcellana che originariamente era conservato in casa: perché mai qualcuno avrebbe spostato nel capanno degli attrezzi il servizio di porcellana? Per evitare che finisse distrutto nel rogo della casa? Si potrebbe verosimilmente ipotizzare quindi che l’attentatore, che fosse o meno anche l’assassino, fosse qualcuno legato a quella casa: insomma un delitto maturato tra chi frequentava la casa.
Delle indagini è incaricato Floyd, Capo della Polizia locale, ma non sarà lui che verrà a capo della faccenda, ma un altro, il Maggiore Jerry Dane, ex – FBI, che sta riprendendosi da uno scontro a fuoco con i tedeschi, capitatogli durante l’occupazione dell’Italia. Dane a sua volta si innamorerà, corrisposto, da Carol. Carol è ambita anche da Floyd, e bisogna dire che è stata piuttosto sfortunata, perché era fidanzata con Don Richardson, morto in guerra. Anche lui come Greg era del posto: a lui è sopravvissuto il vecchio padre, il Colonnello Richarson.
Le indagini si rivolgono nei confronti di chi abitava nei pressi della villa e di chi la frequentava: quindi anche in quelli di Nathaniel Ward, vicino degli Spencer.
In una pantofola viene rinvenuto un ago di pino, come se la donna prima di essere uccisa fosse scesa in strada a parlare con qualcuno. Floyd riesce a ricostruire, da testimonianze varie, il percorso fatto dalla donna per arrivare alla villa: ha pure un identikit sommario e sa come fosse vestita: viene identificata dalla pelliccia argentata che le è stata trovata addosso, però gli altri abiti e soprattutto una piccola borsa con le sue iniziali, sono scomparsi.
La notte presumibile del suo assassinio è stata vista sulla collina dove sorge la casa l’auto di Elinor Hilliard; Jerry Dane è uno strano vicino che nessuno è riuscito ad avvicinare; Lucy Norton, che si pensava dovesse attendere Carol e le sue tre domestiche, e che non si era fatta trovare, in realtà si viene a sapere che è stata ricoverata per una caduta, capitata nella villa qualche giorno prima del ritrovamento del cadavere: mentre camminava in casa di notte, vicino al famoso armadio, con una candela in mano, qualcuno l’aveva toccata spegnendole la candela e le era venuto addosso. Lei, era scappata e si era fatta male.
Altre cose si vengono a sapere: la pelliccia trovata assieme al cadavere non era stata indossata, come se qualcuno avesse tentato di metterla addosso al cadavere post mortem: perché?
L’inchiesta del coroner stabilisce un fatto importantissimo: Lucy Norton, arrivata in sedia a rotelle, rivela che, attendendo la venuta di Carol prevista per la settimana seguente, aveva ospitato una ragazza, una certa Marguerite Barbour, che voleva parlare con i Foster: era arrivata col treno di mattina e le aveva chiesto ospitalità per la notte: ecco spiegata la Camera Gialla. Ma quando era stata ospitata da lei, i vestiti, la borsetta con le iniziali ed una valigetta con l’occorrente per passare una notte, erano presenti. Di notte, con la ragazza chiusa in camera, Lucy si era alzata per cercare in una coperta e lì nei pressi dell’armadio qualcuno l’aveva toccata: lei era scappata e fuggendo era rotolata per la scala rompendosi una gamba. Poi si verrà a sapere che Marguerite aveva avuto un bambino, presumibilmente da qualcuno nella cerchia dei Foster.
Inoltre una notte qualcuno incendia la collina, laddove sorge una vecchia villa abbandonata: in essa vengono trovate delle coperte ed un giaciglio di fortuna come se fosse stata abitata poco tempo prima. Dane sospetta che l’incendio sia stato appiccato anche per distruggere gli abiti della donna ignota.
Successivamente muore Lucy Norton, apparentemente per un attacco di cuore. Quindi, Elinor viene ferita da un colpo di pistola.
Floyd, a sorpresa, riesce, grazie alla collaborazione della polizia di New York, a ricostruire il viaggio della ragazza e a capire dove abitasse.
Capiteranno molte altre cose, tra cui il ferimento di Elinor e il tentativo di uccidere il Maggiore Dane, prima che lo stesso Dane riesca a ricostruire il puzzle, dando la risposta giusta ad ogni domanda, e riesca soprattutto a salvare la vita di Greg, accusato dell’omicidio di Marguerite.
Che dire del romanzo? E’ sicuramente un romanzo poco riuscito, stilisticamente parlando.
Mary Roberts Rinehart
E’ un romanzo triste, dominato da un certo pessimismo, cosa comprensibile visto che l’autrice era anziana quando lo scrisse, ed in piena seconda guerra mondiale. I primi capitoli sono dominati da una certa malinconia per la vita difficoltosa, per i razionamenti di viveri e di beni, per il ritmo di vita più lento e rassegnato. E vi si ravvisa quella che al tempo era una delle problematiche più sentite in America: quelle dei reduci, dei combattenti feriti, scomparsi o con gravi handicaps motori o cerebrali.
Dal punto di vista stilistico, si potrebbe definire quasi un procedural, visto che si basa sulle indagini parallele della polizia e di un maggiore dell’esercito, ex-FBI. Vi manca però la caratteristica saliente dei romanzi di Mary Roberts Rinehart, cioè la suspence, che viene costruita di solito sulla paura: l’unico momento in cui si sarebbe potuto ricavare la  suspence pura, cioè la camminata al buio, in una casa senza luce, con una candela in mano, di Lucy Norton, alla ricerca di una coperta, e “l’aggressione da parte di un non identificato soggetto”, non viene vissuta in prima persona, oppure nel momento in cui accade, ma solo nel ricordo, oramai privato delle sue sensazioni più paurose.
Per di più è prolisso, incredibilmente prolisso, rispetto alla sostanza del romanzo. Se la versione italiana è di oltre 330 pagine, quella originale, in caratteri piccoli lo è all’incirca di 256. Non so, ma leggendolo anni fa e rileggendolo poco tempo fa, ho avuto la sensazione che spesso si fosse sentita la necessità “di allungare il brodo”.
Tutto il resto è presente: le scene notturne (ricordiamo che come altri scrittori degli anni ’10 e‘20, anche la Rinehart prediligeva le atmosfere), il romanzo sentimentale intrecciato alla vicenda poliziesca,  la dissimulazione degli indizi, e la loro ripresentazione al momento opportuno; l’anticipazione di un indizio chiave che anticipa il prosieguo degli avvenimenti.
Gli ultimi due punti sono facilmente individuabili.
Il primo individua l’abilità tramite una prolessi, che può essere del tipo “se avessi pensato che…non avrei fatto..”, oppure che semplicemente anticipa una situazione (che avviene dopo mediante una frase ad effetto, o anche una sola parola), fornendo così un primo indizio, di generare suspence. La Rinehart non a caso diventò la capostipite di quella scuola chiamata HIBK, “Had I But Known” (di cui fece parte anche Ethel Lina  White) in cui lo scrittore, anticipa alcuni avvenimenti che verranno sviluppati più avanti nella storia. Ecco una delle prolessi della Rinehart, in cui ella anticipa quello che avverrà dopo:
“Sempre, nelle altre occasioni, al suo arrivo l’aveva trovata calda e accogliente, ma stavolta era tutto diverso. Sembrava, pensò rabbrividendo, di essere in una tomba” (Mary Roberts Rinehart, The Yellow Room, “La Camera Gialla”, trad. Maria Luisa Bocchino, I Classici del Giallo, Mondadori, N.857 del 1999, pag. 28). In effetti in un armadio c’è un cadavere, la casa è vuota e quindi può dirsi che sia in effetti una tomba.
Il secondo punto, attiene alla presentazione di un indizio chiave, alla sua dissimulazione, e poi alla sua ripresentazione in tutta la sua importanza in un punto chiave del romanzo. Per es. un indizio presente nel romanzo, con queste caratteristiche, è la fede nuziale.
All’inizio, abbiamo detto, ne parla per la prima volta Starr, il giornalista:
“Età approssimativa tra i venti ed i venticinque anni…capelli ossigenati. Possibilmente sposata, in quanto porta la fede nuziale al dito” (op. cit. pag. 60). Poi dell’indizio non se ne parla più, finchè..se ne parla, ma dissimulato.
Si parla del verdetto del coroner e della giuria chiamata a visionare gli oggetti trovati sul cadavere:
“..la maggior parte degli indumenti era bruciato, ma quel che rimaneva, adesso era lì, in quell’involto, se la giuria avesse avuto interesse ad esaminarlo..i suoi componenti si fecero avanti solennemente e scrutarono quello che c’era sul tavolino” (op. cit., pag. 120). L’indizio è in quell’involto.
Ancora una pausa, ed ecco che riappare in tutta la sua importanza, quando Starr, il giornalista, rivela a Dane che: “Ho visto il cadavere della ragazza che hanno trovato nell’armadio. E posso giurarle sulla mia testa che portava la fede nuziale al dito” (op. cit, pag. 200).
Ma Dane è la prima volta che ne sente parlare, per cui chiede in merito a Floyd alla prima occasione: “La ragazza che è stata uccisa, aveva al dito la fede matrimoniale quando l’avete trovata?…Insomma, l’aveva o no ?.. –  La giuria ha visto questa roba. …una sottile vera d’oro, liscia. ..la soppesò..e la scrutò alla luce. Dentro c’era un’iscrizione incisa piuttosto rozzamente. – CAM” (op. cit, pagg. 210-211).
Infine se ne parla quando Dane vuole capire se la sigla sia CAM o GAM:
“Tramite la polizia di Los Angeles riuscì a sapere…il luogo dove Marguerite aveva acquistato la sua fede nuziale… – Sono venuto a sapere che lei ha venduto una fede nuziale ad una giovane donna e ci ha anche inciso le parole: erano GAM”(op. cit., pag.284).
Inizialmente si pensa che G valga Greg e M Marguerite, e che sia stato Greg a regalare la fede a Marguerite. Invece Dane riesce a dimostrare tramite una lunga indagine che è stata la ragazza ad acquistare una fede e a farvi incidere la sigla GAM (che in inglese sarebbe dovuta essere GTM), per accreditare un dono a lei, ed avere quindi gli elementi per ricattare la famiglia dei Foster, in vista del fidanzamento di Greg con Virginia, tenuto conto che Greg sposandosi con Virginia sarebbe diventato a tutti gli effetti bigamo.  
Tuttavia il racconto, lo svolgimento dei fatti e la soluzione sono lacunosi e confusi: non si capisce perché mai la ragazza, potendo esibire un certificato di matrimonio con un eroe di guerra, invece che ricattarlo dal di fuori, non avesse cercato di accampare diritti sulle proprietà del marito o in alternativa non avesse pensato ad un bel divorzio e ad una liquidazione sostanziosa. Perché ricattarlo? La Rinehart non lo spiega.
E non spiega soprattutto perché mai i personaggi estranei alla famiglia che si muovono dietro alle vicende, avrebbero compiuto tutti le principali azioni imputate loro. C’è un senso di sbigottimento, e di inadeguatezza, come se Rinehart ad un certo punto avesse perso il senso del romanzo e avesse cercato di arrampicarsi sugli specchi.
La soluzione può essere anche giusta, ma è spigolosa, non lineare: denota ostacoli e incertezze e tutto sommato una certa incredulità da parte del lettore a che le cose siano in effetti andate nel modo in cui Jerry Dane le spiega.

Pietro De Palma