lunedì 7 febbraio 2022

Diego Pitea : La stanza delle illusioni, Altrevoci Edizioni, 2021



Nel panorama degli autori di romanzi di genere, Diego Pitea è uno degli ultimi arrivati, che dalle note, leggo  che ha cominciato a scrivere per una sorta di promessa fatta alla madre.

Finalista due volte al Tedeschi, da qualche anno ha cominciato a pubblicare, innanzitutto i suoi due romanzi finalisti, e poi altro.

Non lo conoscevo personalmente. Sapevo che era stato finalista, non ricordavo che lo fosse stato due volte. Però che uno sia finalista una, due o più volte, e non vinca, significa poco, oppure molto. Dopo aver letto il romanzo “La Stanza delle Illusioni”, mi sono capacitato del perché: è un Mystery, direi uno dei pochissimi esempi se non l’unico finora, di fronte alla totalità di thrillers chi più chi meno eredi della grande tradizione giallistica britannica; ed è troppo lungo, impossibile che potesse essere pubblicato sella collana de Il Giallo Mondadori, dove i romanzi difficilmente superano le 300 pagine e non arrivano mai alle 400.

Tuttavia, questo di Pitea è un romanzo singolare, e per me il più bel romanzo che abbia letto sinora nell’ambito del Giallo italiano - senza nulla togliere ad altri, in primis Luceri - che ha tensione, enigmi vari, persino un delitto da Camera Chiusa, e un doppio finale. Però tutti gli altri romanzi, hanno in gran parte caratteristiche comuni che questo non ha: non è un procedural, come tutti o quasi i romanzi italiani, in cui c’è il commissario di turno, perché qui c’è un investigatore privato; non è un thriller, ma un mystery, ambientato in un solo luogo dove avviene il tutto, e del mystery ha la complessità dell’intreccio e il ricorso non a tecniche varie per instaurare o far crescere la tensione, ma solo alla varietà degli avvenimenti che compongono il plot; ricade nella casistica dei romanzi che tengono conto delle regole di Van Dine, perché il colpevole è sempre presente, in quanto è uno dei personaggi fissi del romanzo, e alla fin fine il suo alibi è sottoposto come agli altri ad analisi (francamente quando leggo di romanzi in cui l’assassino sfugge all’esame dell’alibi perché magari ha dato incarico ad un altro di uccidere, mi viene una sorta di orticaria, perché se non bara, però si sottrae al gioco dell’investigazione cui partecipa inconsciamente anche il lettore mentre legge il romanzo).

La Stanza delle Illusioni, è il nome affibbiato alla sua dimora, da Cesare Borghi, un imprenditore, in sostanza un armatore, che lamenta di aver ricevuto una serie di lettere anonime minatorie. Attraverso il suo avvocato, Calli, un personaggio al limite della legalità, convince Richard Dale, uno psicologo di natali inglesi, ma che è italiano e che ha collaborato nel passato a casi di polizia risolti brillantemente, ad occuparsi della cosa, recandosi nella dimora di Borghi, insieme alla moglie Monica. Qui lo incontra e si fa una prima impressione della faccenda, dopo aver scorto in controluce delle parole incise su un block notes. Vuole andare a fondo della cosa, ma nei suoi piani viene in sostanza obbligato a stare nella villa, arroccata come il nido di un’aquila sulla sommità di una montagna, a cui si accede da una sola via di accesso, chiusa successivamente alla venuta dello psicologo, da una imponente nevicata. Nei giorni che passano, incontra tutti gli ospiti: Beatrice, la moglie di Borghi, che pare abbia una relazione con Severo, il factotum del marito; Vanessa, una affascinante ospite, amica di Beatrice dapprima e diventata successivamente l’amante di Borghi; Crescenti, socio di Borghi; Baldi, il medico di Borghi, che coltiva in una apposita piccola serra, una serie di piante di cui lui usa i principi farmaceutici, confezionando delle pillole, tra cui quelle che da al suo assistito per curare uno scompenso cardiaco; Ruggero, il maggiordomo. E man mano che passa il tempo, la tensione si acuisce, e Richard nota una serie di cose ultime, tra cui anche un’avventura notturna sua e della moglie nei corridoi della villa, inseguendo un’ombra che armeggiava con una scala ed una scatola.

Immediatamente dopo questa, c’è un incidente strano che coinvolge Borghi e Crescenti, e subito dopo l’incidente, che potrebbe esser stato un tentativo di omicidio, ecco il delitto: Borghi viene trovato morto nel suo studio, chiuso a chiave dall’interno, con un pugnale Maya piantato nel petto. Si erano sentite grida provenire dalla stanza, la porta d’accesso, con la chiave inserita nella serratura dal di dentro, era stata fracassata con notevole difficoltà, e poi la tragica scoperta.

Dale dovrà ricorrere a tutta la sua esperienza consolidata, e al suo acume, per individuare un diabolico assassino, dopo un altro delitto,  e dopo che i vari sospettabili sono stati di volta in volta eliminati dal novero dei possibili colpevoli; si arriverà ad un doppio finale, e lo stesso Dare si troverà nel mirino dell’assassino.

Romanzo straordinario, pieno, anzi zeppo di enigmi, è indubbiamente un omaggio alla grande tradizione del mystery britannico e statunitense. Varie sono le citazioni, visibili (la filastrocca di Dieci piccoli negretti di Agatha Christie) e celate (vari romanzi di Ellery Queen, tra cui L’Origine del Male e Il Caso dei fratelli Siamesi soprattutto), e citazioni di tanti altri più in generale: la stessa coppia di investigatori marito e moglie si trova svariate volte nella letteratura poliziesca, da Agatha Christie, a Frances e Richard Lockridge, a Kelley Roose, a Ellery Quen per i personaggi di Paula Paris e Nikki Porter; c'è un rimando a Fantasma Party di Carr, chiarissimo per l'incidente del lampadario, e tanti altri. 

La scrittura è molto densa, per nulla lineare, e questo può essere stato vagliato per la vittoria al Tedeschi (la vittoria agli ultimi come mi disse una volta Luceri, è stata data a romanzi con trame e riferimenti non troppo complessi e di nicchia). Non contorta, ma molto complessa, piena di descrizioni, e digressioni, che non facilitano certamente la lettura, rendendola più lenta e meditata (si adatta perfettamente alla natura del romanzo però).

La cosa che più mi ha stupito, favorevolmente s’intende, ma non so se sarebbe apprezzata da altri lettori, è come Pitea sia riuscito a mantenere la tensione alta, inventando sempre nuovi enigmi, pur in assenza di delitto per oltre 190 pagine, e come il delitto base avvenga passate le 200 pagine, quando un romanzo normale volge già al termine: invero questo può essere anche un limite di questo fiume in piena che si svolge per circa 380 pagine, e in cui trovano posto anche marchingegni strani, tra cui il rocchetto di Ruhmkorff (qui la citazione potrebbe essere quella di Brown e della sua Bottiglia di Leida in Uno strano cliente), un vano segreto in cui si trova una cassaforte, celato nella stanza del delitto (ma non c’entra col delitto stesso), cassetti segreti, ricatti, veleni, fino ad un figlio celato alla vista dei più. E tutto avviene in una magione, e i soli momenti in cui qualcosa non avviene lì, accade all’esterno della villa, nella neve. Insomma un ambiente claustrofobico, in cui avvengono tantissime cose diverse.

Titolo azzeccato la Stanza delle Illusioni, perché non solo rimanda al luogo dove avvengono i fatti della storia, ma anche alle doppie verità e alle continue illusioni a cui il lettore è forzatamente sottoposto. Devo confessare che il modus del delitto l’avevo immaginato subito dopo, ma per una sorta di istinto che nasce dall’aver letto moltissimi romanzi. In questo caso, non so se Pitea vi si sia rifatto idealmente, ma secondo me la citazione è ad un racconto di Chersterton. O ad un romanzo strafamoso, ma di cui non rivelo il titolo, altrimenti farei capire come il delitto sia avvenuto, anche se nel racconto di Chesterton, l'omicida svolge le stesse mansioni che nel romanzo di Pitea.

Romanzo straordinario e bellissimo, che consiglio di leggere a tutti.

Un unicum. Capolavoro italiano

Pietro De Palma