mercoledì 21 agosto 2019

Michael Innes : Il pozzo dei desideri (The End of the End, 1966) -trad. Tina Honsel - in "Ellery Queen presenta: Autunno Giallo 1975"

L'ultima volta che parlammo di Innes, fu a riguardo credo di un romanzo. Oggi parliamo invece di un racconto, presentato in una di quelle meravigliose antologie mondadoriane, dal titolo "Ellery Queen presenta" che presentavano appunto i migliori racconti tratti dalle riviste di Ellery Queen Mystery Magazine. La raccolta da cui tiriamo fuori il racconto, è quella dell'Ottobre 1975: il racconto si chiama "Il pozzo dei desideri" (The End of the End, 1966).
Diciamo subito che trattasi di un bel racconto classico con Sir John Appleby, di quasi quaranta pagine, con un bel delitto impossibile, di quelli sulla neve, che farà la gioia di tanta gente (di quella che riuscirà a trovare questa antologia, ovviamente).
Sir John è bloccato dalla neve su una strada di campagna mentre è in auto in compagnia della moglie. Sta nevicando copiosamente, trovano persino un'auto lasciata in mezzo alla strada che blocca il transito, e quando vorrebbero fare marcia indietro, ecco una valanga che li blocca del tutto.
Se Appleby non sa cosa fare, la moglie Edith lo sa: ha visto da lontano la mole di un castello, indicato nelle guide come Gore Castle, un castello del XIII secolo di proprietà di Darien-Gore. E decide di provare a raggiungerlo, e per questo convince il riluttante coniuge.
Il castellano li accoglie benignamente, e ben presto si trovano al centro di un gruppo di persone, di cui già conoscono il Generale Stradwick e la moglie. Poi c'è un certo Trevor dai modi viscidi, il fratello di Darien, Robert Gore e la moglie Prunella, e anche un certo Jolly, che poi sarebbe il proprietario dell'auto abbandonata sulla carreggiata tra la neve. Appleby lo riconosce subito, e anche Jolly l'ha riconosciuto: trattasi di un noto criminale, della specie più abietta: un ricattatore.
Ben presto Appleby comicia a sentire puzza di bruciato: le allusioni di Darien Gore, le aspressioni non certo gentili di Frape il maggiordomo, quelle ancora più risentite di Robert nei confronti di Jolly, lo convincono che qualcosa sta per succedere. Anche quel tipo strano, Trevor, sembra non essere immune dalla faccenda. Se poi si parla di un possibile ricatto, e si aggiunge che neanche i coniugi Straswick vedono questo Jolly di buon occhio, che Robert aveva prima una carriera avviata nell'eserciuto , ma poi in seguito ad uno scandalo messo a tacere, ne era uscito, che Dearien-Gore, pure essendo estraneo alla faccenda del fratello, è sensibile allo scandalo che deriverebbe per il buon nome del casato se Jolly spiattellasse al vento quello che si è preferito nascondere, e di come la principale attività nel castello sia tirare frecce in direzione di un bersaglio posto nella galleria, sulla parte posteriore del castello, si potrà capire che nulla manca ad una bella situazione incandescente che culmini in un delitto.
Appleby si va a coricare sperando che nulla accada l'indomani, dopo che la sera è stata guastata proprio dal modo di rapportarsi di Jolly con le varie persone presenti nel castello. Ma alle due di notte, il suo sonno è interrotto da un suono che ha imparato a riconoscere: quello di una freccia che è stata scoccata da un arco, conservato in un armadio nella galleria assieme a numerose frecce. La preoccupazione diventa allarme quando guarda nella direzione indicata da Frape, trovato anche lui con una candela in mano per le scale: nella corte interna del castello, laddove sorge un pozzo molto profondo che raggiunge un fiume sotterrraneo, chiuso normalmente da una grata, innanzitutto la grata è stata rimossa, e sulla neve la superficie non è più così immacolata come era prima quando lui e la moglie si sono coricati, ma è sporcato da una serie di impronte che vanno verso il parapetto del pozzo; il bello è che non c'è un'altra serie che ritorni indietro. Sembrerebbe quasi che Jolly, che manca all'appello, vi si sia buttato dentro suicidandosi.
Ecco allora che compare una scommessa che avrebbe raccolto Jolly a salire sul parapetto del pozzo, liberato dalla protezione dell'inferriata al suo interno, e intonare un'ode alla luna, perchè un suo desiderio si realizzi. 
Incidente o suicidio? Le orme non lasciano altra ipotesi. Tuttavia manca una freccia nell'armadio, e anche un arco, che stavano la sera prima ed ora vengono trovati invece appoggiati dietro ad una porta.
Certo Jolly può essere stato ucciso: metti che sia salito davvero sul parapetto, una freccia ben assestata e Jolly cade nel pozzo e buonanotte. Nessuno mai riuscirà mai a trovare nulla, perchè nessuno sarebbe così pazzo dal provare a esplorare la caverna sottostante, che non ha altre uscite se non pericolose nella roccia. Non a caso nel medioevo, quando ci si voleva disfare di qualcuno, lo si buttava nel pozzo.Tuttavia non manca nessuna freccia, perchè quella trovata assieme all'arco, completano i posti lasciati vuoti dell'armadio. E allora, dove è andato a finire Jolly? E ammesso che sia stato qualcuno ad ucciderlo, come mai vi è solo una serie di impronte?
Appleby riuscirà a dimostrare la verità inchiodando l'assassino, che si ucciderà, e mancherà la cattura di un  complice solo per la capacità olimpionica dello stesso di fuggire in un modo drastico, e risolverà il mistero dell'unica serie di impronte, facendo leva sulle qualità di rocciatore di una persona, e dimostrando come una persona possa essere uccisa con una freccia anche senza che la si scagli,e come usare un arco senza necessariamente scoccare da esso una freccia per colpire qualcuno o qualcosa.
Delizioso racconto, è l'ennesima variazione sui delitti impossibili sulla neve che per alcuni sono variazioni di camere chiuse, per altri no. In questo caso forse potrebbe anche essere una camera chiusa se la corte interna del castello, che è chiusa dalle quattro mura, non avesse delle uscite. Tuttavia il problema riguardante uan sola fila di impronte  rimane: non si pensi al trucco di riandare all'indietro perchè viene esclusa, nè tantomeno ci troviamo nella condizione di chi abbia messo le proprie nell'altrui impronte, perchè nella neve si presentano ben definite e piccoline (Jolly è un tipo mingherlino); semmai per tempi di realizzazione, Innes potrebbe aver avuto Commings come proprio ispiratore se si avesse sufficiente certezza che lo avesse conosciuto, per come l'assassino vada via, mentre per come entri sulla scena del delitto, un riferimento ad un racconto di Halter potrebbe sufficientemente instradare, a patto ovviamente che lo si conosca (non è inserito in antologie).
Lo dico e segnalo qui, questo è uno di quei casi in cui l'impossibilità assoluta di una soluzione spiegabile viene resa tale solo pensando al concerto di due persone complici per realizzare una messinscena. Per la quale è necessaria una certa strumentazione, una freccia, e la torre vicina. Tuttavia se qualcuno pensa ad un tuffo plateale dalla torre, questo sì avviene ma non al momento dell'omicidio. La torre serve per altro.
Molto carino, caratterizzazione dei personaggi ben definita, indizi presenti (ma che ovviamente non vengono rimarcati se non a spiegazione avvenuta), problema molto stuzzicante. 
E finale, è bene dirlo, completamente inaspettato: oltre all'omicida, si suicida anche il complice.
Insomma, un finale lieto. 
Si fa per dire.

Pietro De Palma

domenica 11 agosto 2019

F.G.Parke : La sera della prima (First Night Murder, 1931) - trad. Dario Pratesi. I Bassotti, Polillo, 2011

La storia italiana di questo romanzo è bene che la si sappia.
Per il romanzo tradotto fu usata una copia prestata da Mauro Boncompagni a Marco Polillo, suo amico. Questa copia Mauro non l'aveva acquistata personalmente, anzi gli mancava. Glel'aveva regalata Luca Conti. Luca mi disse tempo fa che aveva trovato due copie dello stesso libro, pagandole anche pochissimo, assieme ad altri titoli di romanzi famosi in lingua madre, presso La Libreria del Giallo di Milano, "La Sherlockiana" come per qualche tempo si chiamò. Le aveva trovate nello scantinato, in scatoloni, di cui neanche la Dozio sapeva molto, tranne che quando lei aveva acquistato il negozio da Gianfranco Orsi e consorte, c'erano già.
Parlo però de La Sherlockiana non di Via Peschiera, ma della prima, ubicata in Piazza San Nazaro in Brolo a Milano, una bella libreria, grande, con ampi disimpegni, illuminata da ampie vetrine, dove spesso gli universitari della Statale che è a due passi, si fermavano.
Probabilmente questi libri Orsi li aveva avuti  da Tedeschi, che negli anni trenta per Mondadori era andato in USA e aveva fatto incetta di molte edizioni di libri mystery che lì avevano già successo, nella speranza che l'avrebbero avuto anche da noi.
Triste la storia di quella libreria perchè i soci erano tre, i due Orsi e una donna, che però morì suicida. Era lei che si occupava della liberia, in un tempo in cui ancora Orsi lavorava presso il Giallo Mondadori. Dopo la sua morte, la liberia si decise di venderla.
Luca ha ancora la sua copia (che immagino sia in stato migliore di quella regalata) fornita di sovracoperta.
Il romanzo non fu pubblicato solo in USA nel 1931 ma anche in Francia nel 1932. Da allora sono passati più di settant'anni perchè fosse tradotto in Italia.
E ora parliamo di F G Parke: chi è? Sicuramente è uno pseudonimo. Lo dico con sicurezza, perchè da un anno sappiamo il suo vero nominativo . Anche qui c'è da dire una storia.
La storia di un sito, Mystery*file (*), dedicato da molti anni alla critica di romanzi mystery noti e meno noti. Il sito è di Steve Lewis, uno scrittore americano, appassionato come molti di noi. Un bel giorno del 2007, Steve tratta questo romanzo. Io leggo la review come si dice in americano, cinque anni dopo: sono il primo a commentare, e Steve mi ringrazia. Steve pensa che si tratti di uno scrittore in incognito, anzi lui dice che il libro , date le forti somiglianze con The Roman Hat Mystery, esordio di Ellery Queen del 1929, potrebbe essere un'opera sconosciuta dei due cugini, scritta e pubblicata in un periodo di vacche magre, da collocarsi forse tra Sorpresa a mezzogiorno e Un paio di scarpe: "between The French Powder Mystery (Stokes, 1930) and The Dutch Shoe Mystery (Stokes, 1931)".
Io, che stavo cominciando a leggere il romanzo, obbiettai che secondo me, pur considerando possibile ma non sicura la sua ipotesi, il prodotto era il frutto di una collaborazione tra un uomo e una donna, perchè per com'era scritto, non mi pareva del tutto frutto del sacco di un uomo.
Successivamente a questo mio commento, discussi con Mauro Boncompagni, che aveva una delle due copie originali, e lui mi disse che secondo lui non si trattava di certo di Ellery Queen ma probabilmente di qualcuno che aveva molta meno raffinatezza nello scrivere pur essendo molto dotato.
Nei giorni scorsi ho finito finalmente di leggere il libro (rimandato non so quante volte) e per un vezzo, sono andato di nuovo su quel sito, e ho scoperto che nel 2017, cinque anni dopo il mio commento, un altro aveva appposto il suo in calce all'articolo: una genetista americana Janet Akaha. La genetista rivelò che F G Parke era lo pseudonimo di ...Rose Pelswick who was the movie critic for the NY Journal American. Scelse lo pseudonimo  Parke, perchè abitava in 67 Park Avenue in New York City, mentre F G sono rispettivamente la 6^ e la 7^ lettera dell'alfabeto inglese.
Pareva ancora a loro che tale critico cinematografico avesse scritto solo questo romanzo. Invece io ho scoperto che non si tratta della sola opera: Rose Pelswick scrisse almeno un racconto, pubblicato su  Five-Novels Monthly [v15 #2, August 1931] ed. John Burr (The Clayton Magazines, Inc., 25¢, 192pp+, pulp): Second Hand Stars.

Martin Ellis è uno scrittore di gialli che scrive anche riduzioni per il teatro: Dita Fantasma, il suo ultimo lavoro,  promette emozioni e suspence al pubblico fino alla scoperta dell'assassino. Quello che non sanno i presenti è che durante la Prima del lavoro teatrale all'Olimpyc Theatre, nel terzo atto, mentre il colpevole è stato arrestato dal detective e tutto sta per concludersi degnamente, un urlo lacerante si leva dlala platea. Lì per lì i presenti pensano ad un'altra trovata, poi si accorgono che qualcosa è successo: Julius Brandt, uno dei produttori dei maggiori spettacoli di Broadway, è stato trovato agonizzante con la gola squarciata nella sua poltrona in platea. Il tempo di accendere le luci, e un dottore arriva da Brandt, che muore davanti a lui. Che si tratti di un delitto è certo, perchè l'arma non si trova. Chiudono le uscite, e aspettano che arrivi qualcuno: L'Ispettore Gradey della Squadra Omicidi, comnincia gli interrogatori, di chi era più vicino al produttore.
L'autopsia rivela che Brandt è morto troppo presto per essere solo stato sgozzato, e infatti le analisi rivelano che nelle ferite c'era cianuro di potassio e lo stesso veleno era stato addizionato al Brandy che Brandt portava nella fiaschetta appresso e che non aveva consumato.
Prima viene sospettato un certo Billings che ha il fazzoletto sporco di sangue, e che nel passato aveva avuto a che fare con Brandt: da una versione dei fatti che lo scagionerebbe, e del resto il gruppo sanguigno suo e di Brandt è lo stesso, e quindi non si può attribuire con sicurezza il sangue del fazzoletto a Brandt. 
Poi è la volta di un certo Gas Perino, un gangster: era in compagnia di una stella del cinema, Bonnie Adaire, che giura che il suo uomo non si è mosso, anche se con mosse acrobatiche, date le lunghe braccia, avrebbe potuto sgozzare Brandt pur rimanendo al proprio posto: ma le prove non ci sono.
E intanto il lavoro di investigazione procede. Gradey si avvale della collaborazione di Ellis, che essendo dell'ambiente, potrebbe facilitargli le indagini. Che subito si presentano complesse: troppe le persone coinvolte, nessuna prova a carico, solo un sacco di elementi e di indizi anche fuorvianti, in una continua guerra sotterranea degli e tra gli stessi indiziati.
La signora Manning, presente in sala, era stata l'amante di Brandt, ma poi messasi con un attore Belloc Manning, si era sposata con lui: tuttavia mentre era incinta, una sera il marito ubriaco era caduto forse accidentalmente dal balcone sfracellandosi quattordici piani sotto, in una sera in cui c'erano anche Brandt e l'altro socio Matthew Burton. La Manning aveva avuto il giorno stesso della morte del produttore un litigio molto forte con lui, minacciandolo di morte se lui avesse continuato nel suo piano: in sostanza lei non voleva che Brandt sposasse sua figlia Sheila: non era gelosia ma protezione;  la signora Milo, cantante, odia Bonnie Adaire che è anche l'amichetta del banchiere Sterne, a sua volta ex amico del soprano. E pertanto invia una lettera anonima in cui insinua che per il fatto che la Adaire non fosse stata presa per una produzione, avrebbe potuto uccidere Brandt.
Nel frattempo si viene anche a sapere che il testamento del produttore era stato cambiato all'ultimo momento: Cora Brandt era stata estromessa da lasciti, anche avendogli concesso il divorzio, e il testamento era stato girato a favore di Sheila, che giura a Martin (i due sono innamorati) che se avesse potuto, non avrebbe mai sposato Brandt, perchè non lo amava. Il fatto è che Brandt aveva delle carte che avrebbero messo in cattiva luce la madre di Sheila, diventata poi una grande attrice cinematografica, ma con un passato torbido alle spalle.
Poi inaspettatamente avviene il secondo omicidio: Bonnie Adaire viene trovata uccisa in casa sua in pieno giorno, accoltellata nel bagno; e in seguito anche un terzo: resta avvelenato a morte dal cianuro, Sam, il maggiordono di Martin, che aveva osato bere il Brandy che Martin gli aveva chiesto  di portargli, che si riscontrerà essere stato avvelenato col cianuro. Perchè mai qualcuno avrebbe cercato di uccidere Martin?
La cassaforte che nessuno aveva trovato, era stata nascosta da un marchingegno, tra gli scaffali della libreria. Burton dichiara che a lui non manca nulla , ma che mancano certi buoni del tesoro, che lui sospetta Brandt abbia dato all'agente di cambio Dudley Moore, ma che lui nega di aver ricevuto. Anche Moore era in sala alla morte di Brandt. Moore, anche lui, fa le corna alla moglie avendo una giovane amante, una soubrettina, Loretta Young a cui regala gioielli costosi, pur essendo quasi sul lastrico.
Martin dopo aver riflettuto, coinvolge polizia e sospettati in una ricostruzione del delitto in sala, assegnando nella sala del teatro ad ognuno i propri posti, con la sola esclusione di Burton - che quella sera era alla radio - a cui viene data la poltrona di Brandt, e poi procede dopo una ricostruzione, alla incriminazione dell'omicida, costretto ad autoaccusarsi per non cadere vittima della stessa trappola che lui aveva architettato per il socio, che poi decide di uccidersi.


Nel risvolto della copertina, Martin Ellis viene paragonato a Philo Vance, e anche nello stesso romanzo, il paragone è ripetuto. Ma a me sembra che di vandiniano ci sia molto poco se non nulla: Ellis così come viene presentato non ha alcuno dei caratteri di Vance (onniscienza, appartenenza a classe altolocata, amicizie nell'ambito della procura distrettuale, snobismo), ma piuttosto potrebbe essere stato creato guardando a Ellery Queen, se è vero che si dice nel romanzo che egli scriva gialli. Però al di là di questo non c'è altro, se non che il delitto avviene anche questo in un teatro. 
Il fatto che il romanzo sia stato approntato due anni dopo La poltrona n.30, è chiaramente un tentativo di imitarne lo stile. Al di là del tentativo, tuttavia, non c'è nulla: quando scrissi il commento, il libro non l'avevo ancora letto del tutto, e quindi mi basavo su congetture di altri anche se intriganti; detto questo, lo stile è chiaramente femminile, come mi parve allora: cè un tale fumo, e un tale cicaleggio, un parlare di ambienti e di stelline, un'atmosfera di gossip e di malcelate invidie e gelosie, che solo una donna avrebbe potuto rendere in maniera così vivida, mancando peraltro tutti quegli indizi bizzarri e quei ragionamenti concettuosi che sono propri dei primi romanzi di Ellery Queen (e anche di altri veri vandiniani, come Daly King, Rex Stout, il Rufus King di De Puyer, Anthony Abbot). Qui c'è solo fumo, tanto fumo. Nessun indizio vero e proprio, tant'è vero che la scoperta del colpevole avviene  solo dopo che viene rivelato l'affare dei titoli, e non per una conseguenza logica ma per analogia, senza che vi siano prove, basandosi nell'individuazione del colpevole sulla sua costrizione psicologica che lo induce, in una determinata circostanza ad autoaccusarsi per non essere dilaniato.

E lo stesso finale, con la scoperta del modus agendi dell'assassinio - che si badi bene è un piccolo capolavoro di Ellis, che ricostruisce le varie fasi dell'assassinio, che illustra la paura del buio della vittima, e come l'assassino la conoscesse e avesse predisposto che Brandt si sedesse proprio lì, che preso dalla paura stringesse i braccioli, è che è non solo un saggio di introspezione psicologica ma anche testimonia la fantasia della scrittrice e la sua sottile perfidia - non è certo un qualcosa che ci porti a Van Dine o ai suoi seguaci, in primis Ellery Queen: in nessuno dei loro romanzi, tranne un racconto con De Puyer di Rufus King, e Tragedy of X, si ha il ricorso a meccanismi strani per uccidere, che sono  il retaggio di tempi precedenti (vedasi per es. il letto di The Grey Room di E. Phillpotts). Per di più qui, ricorrere ad un meccanismo assassino, significa a parer mio imbrogliare il lettore, tanto più che si è infarcito il libro di una serie fumosa di indizi che non hanno nulla a che fare col romanzo un altro e poco: non c'è una progressione sistematica delle indagini con la scoperta di indizi che possono essere variamente interpretati, ma un colpevole che letteralmente cade dal cielo. Può venire in mente ripeto per associazione di idee o per analogia che qualcuno abbia inventato qualcosa paragonabile al meccanismo di apertura della cassaforte, destinandolo ad uccidere, ma è purtuttavia solo un pensiero peregrino, perchè in tutto il romanzo l'assassino, pur comparendo qua e là, non viene minimamente interessato da indagini.
E il modus agendi dell'assassino, scollegato assolutamente dalle indagini svolte e ricostruito solo nella mente dello scrittore, per qualità solo sue, la indica come un'autrice non inseribile nella scuola vandiniana.

Pietro De Palma

(*) http://mysteryfile.com/blog/

domenica 4 agosto 2019

Patricia Moyes: La ghirlanda di Natale (The Holly Wreath, 1965) - trad. Oriella Bobba. In "Ellery Queen presenta: Inverno Giallo 85-86", Mondadori, Ottobre 1985


Patricia Moyes, pseudonimo di  Patricia Pakenham-Walsh, è stata una scrittrice che non dice nulla al lettore contemporaneo, pur essendo stata un’ottima scrittrice britannica. Nata nel 1923 a Dublino (suo padre era un giudice dell’Alta Corte in India), prima di diventare scrittrice, fu assistente di Peter Ustinov e lavorò a Vogue come traduttrice. Scrisse molto romanzi polizieschi con personaggio principale l’Ispettore del CID, Henry Tibbett. Morì nel 2000.
In Italia, Mondadori pubblicò qualche suo romanzo: Chi è Simon Warwick? (Who Is Simon Warwick?,1978), Collaudo Mortale (Johnny Under Ground,1965). Furono romanzi pubblicati soprattutto per segnalazione di agenti stranieri, non per una qualche strategia connessa al suo nominativo, da parte di chi l’avesse letta e ne fosse stato colpito. E che non fosse da buttare lo dimostra che uno dei suoi romanzi, Who Saw Her Die? (1970), uscito in USA col titolo Many Deadly Returns, fu nominato per l’Edgar come miglior romanzo, nel 1971.  
Tuttavia, qualcos’altro la Mondadori lo pubblicò: un suo romanzo breve, di quasi un centinaio di pagine, pubblicato sulla raccolta Dicembre 1985/86 di  “Ellery Queen presenta”: The Holly Wreath, la Ghirlanda di Natale, racconto che assieme ad altri, è stato pubblicato in una raccolta di Crippen & Landru, la casa editrice di Douglas G. Greene, nel 1996: Who Killed Father Christmas? And Other Unseasonable Demises.
Mondadori pubblicizzava la sua pubblicazione parlando della Moyes come una delle più brillanti maestre del puzzle contemporaneo, in un tempo in cui già aveva cessato di pubblicarne le opere. Eppure questo romanzo breve ne dimostra l’originalità, questo è sicuro!
Margaret Cannington è la moglie di Stephen Cannington. I due, dopo sei anni di matrimonio, pur avendo messo al mondo una bimba, stanno virando verso il divorzio, essendo già separati. Lei è attualmente sola, lui posa sulle copertine patinate delle riviste assieme ad una famosa attrice.
Una bella sera, che Margaret è andata a teatro per recensire un lavoro teatrale, visto che tiene una colonna settimanale di recensioni su un giornale, tornando a casa si accorge con raccapriccio che la bambina, che aveva lasciato in compagnia della babysitter, è scomparsa. Al suo posto un biglietto, in cui ne si rivendica il rapimento, e che le intima di non avvisare la polizia, pena ritorsioni contro la bimba.
Ovviamente Margaret avvisa Stephen, che pur separato è sempre il padre della bimba, che in base a voci di corridoio (da parte dell’amante alla moglie) avrebbe in mente oltre che divorziare da lei, anche farsi affidare la bambina. Margaret sa che gli avvocati dell’altra parte potrebbero farle davvero male in aula, ma tuttavia anche se vive ormai nella rassegnazione del divorzio e nella paura che la bambina possa anche esserle tolta, reagisce come farebbe ogni madre e si affida a chi è il suo nemico, ma ora il suo unico alleato contro un nemico peggiore comune.
Stephen, anche se sulle prime non crede al fatto che il telefono sia controllato come dice il biglietto, deve ricredersi sulla possibilità che qualcuno li stia effettivamente sorvegliando, visto che in base alle sue mosse, l’altro reagisce. E quindi anche se sa che una richiesta di diecimila dollari a chi ne potrebbe sborsare centomila, è solo la prima di una serie di richieste, deve ovviamente accettare, e cucire diecimila dollari in biglietti di piccolo taglio nella fodera di una pelliccia che Margaret dovrà lasciare nel guardaroba del Teatro Majestic, nascondendo altresì la ricevuta in un posto convenuto.
Ovviamente come volevasi dimostrare, il successo della prima consegna, spinge i ricattatori ad alzare il prezzo, e fissare altra rata. A questo punto Stephen, contro il parere della moglie, si rivolge alla polizia.
L’Ispettore Harlow prende una strada diversa tuttavia da quella che Margaret si aspetta che prenda: infatti per una serie di circostanze, il tenutario dell’agenzia di baby-sitter Donald Fisher, ha precedentemente affermato di essere il nipote di una delle vicine di casa dei Cannington, ma poi Margaret ha saputo dalla diretta interessata che non è così. Il bello è che lo ha incontrato vicino a casa sua, e quindi comincia a sospettare che c’entri qualcosa con il rapimento di sua figlia. La polizia invece ha un altro sospettato: Fred Barnstable, un vecchio amico della donna, che è anche il direttore della rivista per cui lei lavora: il fatto che il rapitore conosca troppe cose della relazione tra i due ed abbia indicato proprio Barnstable come chi possa procurare il biglietto per il Majestic, cosa difficile ad una Prima, è cosa troppo sospetta perché la Polizia non investighi.
Margaret ovviamente comincia da Grace Bridge, la ragazza che lei ha lasciato in compagnia della bimba. Fisher le ha detto che la ragazza di solito va via prima, e ha il vizio di bere, e che per questo lui non gliel’avrebbe mai inviata se non fosse stato alle strette per l’impossibilità di mandare Sheila Durrant, altra bellissima ragazza, coi capelli rossi, con cui Margaret si è trovata benissimo, o Paddy, la prima che era andata da Margaret. Raggiunta la ragazza, apprende tuttavia una cosa che rimescola le carte in tavola: la ragazza è andata via prima ma solo perché quella coi capelli rossi l’aveva raggiunta dicendole di voler stare con la bambina, e che aveva bisogno di soldi, e per questo aveva lasciato la zia malata. A questo punto Margaret ne parla con Stephen e l’ispettore, solo per aver tuttavia l’amara verità che la Durrant non è mai andata a casa Cannington perché è sempre rimasta laddove era andata. A questo punto, la polizia non da più retta a Margaret e lei non sa a chi affidarsi, per cui decide di fare da sola. Decide di seguire Fisher che non la ispira, e mentre lo segue, vede che parla con una ragazza, certamente la sua amichetta.
In un secondo momento per un caso, mentre sta per strada, rivede la ragazza che sta comprando una ghirlanda di natale, e, guardandola di sfuggita, si accorge che è la prima ragazza che è andata a casa sua, prima che andasse Sheila:  Paddy, la studentessa di medicina. Solo che allora era biondissima e ora è mora. E' lei che è andata dalla Bridge, truccata come se fosse Sheila Durrant.
Margaret segue la ragazza, convinta che lei abbia rapito la bambina, e il suo pedinamento la porta ad un caseggiato dove proprio viene intercettata e sotto la minaccia di una pistola viene condotta in un appartamento dove troverà la bimba narcotizzata.
A questo punto sorge il dubbio: cosa farne della donna? Evidentemente la ragione più ovvia vuole che avendo visto la ragazza e chi l’ha intercettata, non possa più vivere. Tuttavia chi l’ha sequestrata, la pone nella condizione di dover sperare ma anche con sofferenza di sapere cosa deciderà Stephen: chi liberare in cambio del riscatto. La bambina? E allora lei morirà. Oppure lei, e allora la bambina verrà soppressa. In un gioco sadico, in cui il sorriso del suo sequestratore viene paragonato a Satana, Margaret dovrà aspettare di sapere chi verrà ucciso.
E sapendo che sarà lei a morire, quando già aspetta di essere colpita a morte, accade che….
Finale imprevedibile, i due rapitori vengono arrestati dalla polizia, che seguiva Barnstable, e lei riabbraccia la bambina.
Ma in un secondo finale che è nel finale, una vera ghirlanda di Natale con agrifoglio viene appesa alla porta di ingresso a sancire un nuovo periodo di amore, nato a Natale.
Romanzo breve, quasi un centinaio di pagine, scritto veramente bene, con un ritmo alto e avvicente. Sembrerebbe che fosse un thriller, se i nomi dei rapitori si sapessero sin dal principio, e se ci fosse solo una corsa contro il tempo. Ma la corsa contro il tempo non c’è veramente perché la minaccia di morte non è esplicita (anche se implicitamente, le dosi narcotizzanti certamente non possono fare bene ad una bambina molto piccola). E ad un certo punto, si manifesta la vera anima del lavoro: un puzzle, un whodunnit, che in base ad una serie di indizi, deve portare alla verità. L'indizio base è quello della parrucca rossa, che mi porta ad un certo autore e ad un suo racconto: è azzardato collegare la Moyes a Carr? Forse, ma...
L’azione, il rapimento della bambina, i sopralluoghi della polizia nelle case dei vicini, dovendo individuarne una con il telefono davanti ad una finestra che dia sull’appartamento dei Cannington (il caseggiato è chiuso sui quattro lati da una inferriata e gli appartamenti si fronteggiano gli uni gli altri come i lati di un quadrato con al centro un magnifico albero), il pedinamendo dei soggetti ci portano verso un hardboiled: in sostanza un romanzo con una forma ibrida, alla maniera di Jonathan Latimer o Richard Ellington, ma molto coinvolgente, che lascia, sulla base di indizi ben riconoscibili, più strade da battere: è Fisher, come pensa Margaret? Oppure è Fred come pensa l’Ispettore Harlow? Oppure è lo stesso Stephen, volto a mettere in cattiva luce la moglie per riuscire a portarle via la bambina? Oppure è l’amichetta del marito Juliette Dean, il cui scopo è quello del futuro marito? Il fatto che a investigare ci sia la polizia, che agisce secondo propri canoni, ci porterebbe finanche a pensare di trovarci dinanzi ad un mezzo procedural.
Dalla moltitudine di altri lavori più o meno interessanti, questo si distacca anche per la vena melanconica. Se fosse un hardboiled, sarebbe comunque inusuale, perché l’eroe qui non è il detective maschile, ma una donna che fa il detective. E come il detective sfigato con le donne, qui la donna è sfigata come poche altre, perdendo la figlia Emma per una sua leggerezza, in una situazione già complicata come una separazione che sta evolvendo verso il divorzio. E arrivando al paradosso finale di sperare che la figlia si salvi, dovendo però ella morire. Proprio questo tono dimesso, fortemente noir, ci porta a dire essere questo un hardboiled ibrido, con una certa connotazione mystery, fortemente originale, come certe opere di Howard Browne.
Insomma, di forme ce ne sono a bizzeffe per questo piccolo romanzo, un gioiellino passato inosservato su una delle tante antologie invernali mondadoriane, riscoperto poi da quel mago che è Douglas Greene.

Pietro De Palma