Il
più famoso autore poliziesco italiano dell’epoca fascista è Augusto De
Angelis, l’unico i cui romanzi abbiano superato l’esame dei tempi, e che
siano ancor oggi riproposti con successo, dopo la riscoperta anche
mediata da due fortunate serie televisive nei primi anni ’70 della RAI
in cui la parte del Commissario De Vincenzi fu affidato a Paolo Stoppa.
Il romanzo più famoso di De Angelis è senza dubbio “L’Albergo delle
tre rose”, che è il suo capolavoro. Non è solo un romanzo poliziesco di
prim’ordine, con false piste, indizi, personaggi estremamente
sfaccettati e a tutto tondo, ma che ha una suspence crescente, un ritmo
non indifferente e misteri a go-go. Ha anche un’atmosfera
claustrofobica, in quanto è ambientato in un piccolo albergo, nell’arco
di una notte, e propone per di più anche un mistero della Camera Chiusa,
con una interessantissima variazione.
De Vincenzi, che è più giovane del suo Vice Commissario Sani (ma
nello sceneggiato omonimo è più anziano in quanto interpretato da Paolo
Stoppa), ma è da lui rispettato e stimato per via della sua non comune
genialità, appena entrato in Questura, trova la posta e tra le varie
lettere, una accende il suo interesse: è una lettera anonima che
annuncia che qualcosa di sinistro sta accadendo all’Albergo delle tre
rose, un albergo di terz’ordine, più pensionato che altro, dotato di
sala ristorante. La frase molto d’effetto che richiama la sua attenzione
parla del “Diavolo che sghignazza dietro ogni porta”. Colpito dalla
lettera, quasi subito viene chiamato dal Commissario Bianchi, un suo
amico, e viene informato che all’Albergo delle tre rose è avvenuto un
delitto.
Arrivati sul posto, notano un certo trambusto. Siccome è sera, nel
ristorante la sala è piena: oltre agli occasionali clienti, vi sono
quelli che giocano a scopone, e poi i clienti fissi della pensione. I
poliziotti vengono informati che al terzo piano, Bardi, un gobbo che
abita nella pensione, ha trovato impiccato il giovane Douglas Layng.
Sembra che sia stato messo per impressionare o Carlo Da Como, un tale
che nato ricco ha dissipato tutte le sue ricchezze vivendo in maniera
dissoluta, o un tedesco, Vilfredo Engel, amico di Da Como: si pensa che
possa essere un avvertimento per uno di loro, perché per andare alle
loro due camere bisogna obbligatoriamente passare per dove è stato
impiccato il giovane.
Il giovane comunque pare appeso, non impiccato. Fatto sta che la
Guardia Medica chiamata lì per lì, non può dire di più di quel che vede
perché la luce è davvero fioca, ma alla luce di una lampadina di forte
luminosità recuperata dabbasso, tolti i vestiti, si accorgono che il
giovane è stato pugnalato. Gli abiti però non sono lacerati, segno che
dopo essere stato denudato e pulito dal sangue, è stato rivestito, e poi
appeso. Una orribile messinscena: perché? Portato il cadavere
all’istituto di Medicina Legale fanno un’altra scoperta: il cadavere
presenta la flaccidità secondaria, che si manifesta dopo la rigidità
cadaverica. Ma, da quanto tempo è morto? Quello che ancora non si capisce è come
sia stato mutato il rigor mortis: si pensa ad una stufa, ma non se ne
ritrova traccia.
Parecchie sono le persone sospette. Innanzitutto quelli che stanno
sul piano dove è stato trovato l’impiccato, tra i quali spicca Engel, il
quale dimostra di aver paura di qualcosa, oltre a possedere una cosa
strana per un uomo: una bambola. La cosa ancor più strana è che anche
Layng possedeva una bambola, come pure una svedese diciannovenne, tale
Karin Nolan. Tre bambole uguali, in possesso di tre persone diverse. E’
chiaro che debba esserci un legame. E siccome per di più uno dei tre
possessori è stato ucciso, De Vincenzi sospetta che l’assassino voglia
ancora uccidere. E ucciderà ancora. Ma prima sarà trovato un foglietto in cui, a firma di un certo Julius
Lassinger, si promettono in pratica altre morti, perché il giovane appeso è stato il primo di una serie.
Moriranno Giorgio Navarreno, un levantino di nazionalità cipriota, che sbarca il
lunario facendo il chiromante e vendendo chincaglierie varie, che sapeva qualcosa e ha cercato di ricattare l'assassino;
e l'italo-americano Nicola Al Righetti, per sua stessa confessione
passato per parecchie città straniere, ultima delle quali New York. De
Vincenzi sospetta, ma non ha prove che lo sia effettivamente, che sia un
gangster americano. E Karin Nolan, pugnalata con un paio di forbici, si salverà solo per la prontezza di De Vincenzi.
Chi è l’assassino?
De Vincenzi lo scoprirà non prima che la lettura del testamento avrà
fornito gli ultimi tasselli perché il colpevole, pazzo, venga affidato
alle cure di un manicomio criminale.
Tantissimi
altri personaggi: Besesti, il ricco industriale; i coniugi inglesi
Flemington; l'attricetta Stella Essington; la bella Mary Alton, vedova
del Maggiore Alton, dell'esercito inglese. E poi una vicenda oscura,
terribile, accaduta durante la Guerra Boera, in cui c'entrano un
Lessinger, il defunto Maggiore Alton, e altro militare, fratello di
Vilfredo Engel, in cui erano morte Lessinger e le sue 3 figlie, mangiate
dai coccodrilli; e tanto oro.
L’Albergo delle tre rose è uno dei più bei romanzi di narrativa
poliziesca italiano del ‘900: innanzitutto è scritto benissimo, con
descrizioni a tutto tondo dei personaggi (molto diversamente dalla
normalità dei romanzi di quel periodo anche stranieri, in cui o i
personaggi sono molto bene tratteggiati e il plot non è niente di
speciale o è il contrario, fatto salvo quanto accade solo nel caso di
grandi nomi della letteratura poliziesca in cui entrambi i caratteri
sono presenti) tale da fissarli bene nella mente; gli stessi caratteri
psicologici sono estremamente decisi, e assieme a quelli fisici,
realizzano compiutamente un determinato soggetto; la storia è
avvincente, e utilizza un espediente che deriva direttamente da Conan
Doyle (La valle della paura): un qualcosa accaduto nel passato che è
alla base della tragedia che accade nel presente;
sono
presenti molte
false piste, che distraggono il lettore e lo portano a considerare delle
strade impossibili da seguire, mentre invece la storia è molto
semplice, e anche il movente vero lo è; vi è una Camera Chiusa molto
interessante: la finestra è aperta, e quindi apparentemente non vi è
motivo perchè un mistero della Camera Chiusa possa esistere. Tuttavia
proprio le circostanze e l'impossibilità dellla fuga (si è ad una certa
distanza da terra, e anche un ginnasta cadendo si fratturerebbe
qualcosa) creano il problema; peraltro la finestra si affaccia su uno
spazio chiuso (nello sceneggiato RAI curiosamente invece il cortile
aveva una uscita posteriore): non vi è la distesa di neve, ma un
giardino interno
completamente bagnato di pioggia, tale che l’assassino dovrebbe lasciare
delle orme umide, ed invece non le lascia, e si comporta in maniera
strana, non come si comporterebbe chi non vuole essere visto). Noto
peraltro che De Angelis, che è interessato al mistero in se stesso e non
alla particolarità della camera Chiusa, non vi fa caso: si manifesta
qui, quindi, uno dei rari casi in cui, pur essendoci una impossibilità
manifesta, essa non viene conteggiata.
Vi sono
anche continue messinscene: le bambole che appaiono; il cadavere pugnalato,
poi denudato, rivestito in maniera tale che non si veda il sangue, e
impiccato; il tentativo di eliminare il rigor mortis; l’apparizione
della vera madre della vittima; due diversi testamenti; e infine anche
un matrimonio di cui non si sapeva nulla. Quest’ultimo escamotage è
tipico nei romanzieri inglesi (per es. in Agatha Christie).
In De Angelis si nota tuttavia una estremizzazione delle storie e dei
caratteri che sono molto forti: non ci sono soggetti deboli, ma tutti
potrebbero essere l’assassino, o comunque tutti hanno nascosto qualcosa
che poi unito al resto, forma il puzzle ricomposto. Persino, Bardi, il
gobbo, che dà inizio a tutta la storia con la lettera anonima, è un
personaggio forte: siccome si sente una vittima del sistema per via
della sua diversità morfologica, odia più degli altri, anche se ha
sentimenti di protezione nei confronti di gente che lui considera debole
come lui. Ed è proprio perché vuole salvare una di queste persone, che
avvisa il Commissario di qualcosa di imminente che secondo lui sta per
verificarsi in quella casa. Solo che nella sua lettera anonima c’è un
equivoco che gioca a favore degli eventi. Lui si muove per salvare
un’innocente, ma non sa che quella minaccia fa parte di una
macchinazione ben più grande.
Al di là di ciò, il giudizio critico non può che appuntarsi anche su altre cose.
Lo spirito con cui è scritto risente della xenofobia strisciante
contro gli stranieri (il popolo italico era perfetto, gli altri no: in
questo, la propaganda fascista e nazista eran uguali), ma è purtuttavia
un dato che doveva esserci altrimenti la censura fascista non avrebbe
mai autorizzato la pubblicazione del romanzo. Per il resto, il romanzo
narra di tre delitti avvenuti in un albergo (più un quarto presunto, più
un tentativo di omicidio), in cui però parecchi clienti dimorano
stabilmente. Più che albergo potremmo definirlo quindi “un pensionato”,
con sala ristorante. Questo è un particolare molto importante che
raccomando: infatti, anni dopo Steeman scriverà L’assassin habite au 21,
romanzo che si svolge in un pensionato. Direi che Steeman potrebbe aver
letto benissimo il romanzo di De Angelis, in quanto in quei tempi, De
Angelis era il romanziere di polizieschi più famoso in Italia. Se nel
plot Steeman deve qualcosa ad Agatha Christie, per quanto riguarda il
luogo del dramma egli sicuramente ripropone quanto già scritto da De
Angelis. Rispetto a Steeman e a Ten Little Niggers della
Christie, il romanzo di De Angelis possiede però un’atmosfera
estremamente claustrofobica, che accentua spasmodicamente la tensione.
Per certi versi è molto vicino a The Greene Murder Case di S.S. Van Dine o The Tragedy of Y
di Ellery Queen. Inoltre, per il particolare che due dei tre delitti,
tra cui una presunta Camera Chiusa, avvengono in circostanze impossibili
o quasi, in un albergo presidiato dalla polizia, potrebbe esser stato
tributario di Vindry, che in alcuni suoi romanzi (per es. Le Piège aux diamants e La Bête hurlante, scritti il primo un anno e il secondo due anni prima) fà presidiare la casa dalla polizia.
Pietro De Palma
Mystery, Thriller, Hard-Boiled, Avventura, dalla GAD ad oggi. Sotto la lente di ingrandimento romanzi e racconti (anche Camere Chiuse e Delitti Impossibili)e saggi di critica.
sabato 31 dicembre 2016
venerdì 30 dicembre 2016
Ellery Queen : Il Mistero delle Croci Egizie (The Egyptian Cross Mystery, 1932) – trad. Gianni Montanari - Oscar Scrittori Moderni Mondadori, N. 1869 del 2004
Fra tutti i romanzi di Ellery Queen, Il Mistero delle Croci Egizie non è certo una lettura riposante e scevra da scene forti (com’era vezzo della Detection all’inglese), ma invece un assordante fragore di morte, di sangue e di malvagità.
La prima volta che lo lessi avevo 13 anni, e
leggevo ancora i Gialli per ragazzi della Mondadori: le serie dei 3
Investigatori o gli Hardy Boys. Perciò quando lo trovai in un vecchio
mobile che stava nello stanzino a casa di mia zia, lo guardai con
sufficienza: non sapevo che di lì a poco sarebbe iniziata la mia più
grande scoperta: I Gialli, genere bistrattato, ora rivalutato, ma sempre
etichettato come Letteratura di genere.
Mi attrasse la copertina, con quelle figure egizie,
del grande Roger Barcilon, un disegnatore Mondadori oggi dimenticato,
le cui copertine hanno tutte lo stesso stile : i volti e le situazioni
sono indice di una forte drammaticità. E un alone come questo era più
che ovvio che attraesse un ragazzo di tredici anni. Mi ricordo
l’espressione che si disegnò sul volto di mio cugino: era sorpresa? Non
saprei dire. Certo che passare da I 3 Investigatori o Nancy Drew a
Ellery Queen, fu un salto epocale. Quell’espressione era forse
compiacimento: certo è che anche mio cugino apprezzò quella mia
scoperta.
Mi ricordo che lo divorai in un giorno. E se non
l’avessi trovato, se non fossi entrato mai in quello stanzino, che libri
avrei letto poi? Non lo so, questa è fantascienza ucronica: sarebbe
potuto accadere che invece di quello mi sarei appassionato a leggere
Kant o Herder (li ho letti, ma con meno ardore di quello espresso per i
romanzi di Queen, Van Dine, Carr, o Christie. Il solo che li avesse
eguagliati, fu Fichte: ma quella è un’altra storia). Non so. Ma quello
che posso dire è che questo romanzo, proprio questo, è il solo che ho
letto e riletto almeno 4 volte assieme a Il caso dei Fratelli Siamesi (seguito nel numero da Il Mistero del Plenilunio, L’Automa, Il terrore che mormora e Piazza Pulita di Carr, Il pericolo senza Nome e Tre anni dopo della Christie, Morte dal Cappello a cilindro di Rawson e Il mistero della Camera Gialla di Leroux). E ogni volta mi provoca sensazioni uniche.
Va detto però che a distanza di parecchi anni, sono
pervenuto in possesso di altra copia dello stesso romanzo tradotto: il
Classico del Giallo n.31 del 1968 non portava riferimento al traduttore,
mentre altra pubblicazione nell’ambito della serie “ELLERY QUEEN :
Sfida al lettore” del marzo 1985 era firmata da Gianni Montanari, ed era
finalmente una traduzione integrale. Successivamente sono venuto in
possesso del Classico del Giallo n.768 del 1996 e quindi l’anno scorso
mi è stato regalato l’Oscar omonimo, tutte ripubblicazioni di tale
ritraduzione integrale. Che, è bene dirlo, finalmente ha reso giustizia a
questo autentico capolavoro: rispetto a questa seconda traduzione, la
prima aveva più di quarantacinque pagine in meno, anche se è bene dirlo
l’edizione del 1985 aveva le lettere più piccole e il testo più serrato:
quindi, a rigor di logica, se l’impaginazione fosse stata quella dei
Classici del Giallo, le pagine sarebbero potute essere certamente di
più.
Molto spesso nella prima rispetto alla seconda si
procedeva per salti con riassunti del tutto arbitrari di quanto saltato;
e poi l’introduzione firmata dall’ ignoto J.J. McC. (ho supposto nel
mio articolo su Il Caso dei Fratelli Siamesi sul Blog Mondadori :
che si trattasse di riferimento alla casa editrice
McClure, uno dei due soggetti alla base dell’avventura dei due cugini
Queen nel mondo del Giallo, con The Roman Hat Mystery) che, nella prima traduzione,era stata del tutto ignorata.
Il romanzo è uno dei più sanguinari di tutta la produzione, con tre omicidi efferati : le decapitazioni di tre fratelli.
Comincia tutto con “la crocefissione di un maestro
di scuola”, Andrew Van, privo però di testa, a simboleggiare una
mostruosa Tau egizia, su un palo indicatore ad un crocevia stradale
della città di Arroyo: è la mattina di Natale.
Prosegue con la “crocefissione di un milionario”:
Thomas Brad, proprietario di Bradwood, “famoso importatore di tappeti”,
decapitato, legato ad un totem, dalla figura tristemente ricordante una
Tau egizia.
E si conclude con la morte di Stephen Megara , all’albero maestro del suo battello, ancora senza testa.
Una storia in cui il sangue scorre a fiumi: non
solo il sangue dei tre corpi oltraggiati, ma quello di vendette lontane.
Infatti sembrerebbe ad un certo punto che l’omicidio efferato dei tre
uomini, tre fratelli, rifugiati in America per scomparire dalla faccia
della terra, non si riducesse ad altro se non ad una vendetta tribale,
una faida tra due clan, quello dei Krosac e quello dei Tvar, nel
Montenegro: in realtà, lo si scoprirà alla fine, è molto più di ciò. E
in un certo senso, l’orrore della situazione drammatica, è superiore a
quello derivante dal compimento di una vendetta lontana geograficamente e
temporalmente. Tre uomini che per fuggire e cambiare la propria
identità avevano scelto di attribuirsi una nazionalità fittizia
originaria: Andrew Van l’Armeno, Thomas Brad il Rumeno, Stephen Megara
il Greco, cambiando il proprio originario nome in quello di tre
rispettive e diverse città: Van in Armenia, Brad in Romania, Megara in
Grecia. Erano tre fratelli disperati che volevano lasciarsi alle spalle
un triste passato e cercare nell’America delle speranze immutabili,
nuovi stimoli di vita: troveranno un triste destino, perseguitati da un
assassino che viene da lontano. Ma, poi, è tutto davvero così?
E quella T mostruosa, formata dalle braccia distese
legate o crocefisse, di un corpo umano mancante di testa, suggerirà nel
corso del romanzo più interpretazioni: innanzitutto la Tau egizia, cui
si ricollegheranno altre suggestive teorie. Va detto che lo stesso
motivo egiziano è una caratteristica molto precisa che collega tra loro
parecchi scrittori aventi in S.S. Van Dine il loro vate. Infatti da The Scarab Murder Case
di Van Dine (1930), altri romanzi derivano la loro trama, rifacendosi
in vario modo alla civiltà egizia: il romanzo in questione di Ellery
Queen (1932), Arrogant Alibi (1938) di Charles Daly King, persino The Man from Tibet
(1938) di Clyde B. Clason che ambienta in Tibet una storia che pari
pari deriva dal romanzo di Van Dine. Non dimentichiamoci che proprio
agli inizi del secolo scorso si ascrivono importantissime scoperte
archeologiche in Egitto (per es. la scoperta della Tomba di
Tut-Ank-Amon), di immediata diffusione mediatica sia in Europa che in
America; e che proprio archeologi sia europei che americani erano
impegnati in quegli anni sia in Egitto che in Medio-Oriente. E non
scordiamoci neanche, che prima che ambientasse Van Dine una delle
avventure di Philo Vance in un museo di egittologia, ci aveva pensato
già Richard Austin Freeman a concepire un romanzo in cui a vario titolo
si parlasse di Egitto: The Eye of Osiris (1911). E del resto il
modo come Ellery tratta la materia, fa sì che la sua cultura
enciclopedica si rifaccia direttamente al suo archetipo, ossia il Philo
Vance di S.S. Van Dine.
Ma poi si arriverà all’epilogo e allora verrà
rivelato l’arcano, dopo un terrificante avvicendarsi di colpi di scena
che partendo da faide e vendette consumate sui monti del Montenegro,
attraverso un susseguirsi di indizi incongruenti, da un Tarzan senza
perizoma, a pezzi di dama, a pipe, a crux ansate, a foglietti nascosti
in posti inaccessibili, rivelerà il piano perfetto di una mente malata,
un omicida implacabile, che non sarebbe stato mai acciuffato se non
avesse commesso un insignificante errore: perché mai per disinfettare
una ferita, avrebbe dovuto prendere una boccetta di tintura di jodio
priva dell’etichetta, quando ce n’era un’altra disponibile e con tanto
di indicazioni?
Alla base di questo indizio sta il come Ellery
prova che l’assassino sia davvero quello da lui indicato. Un particolare
che solo la sua mente analitica riesce a inquadrare in tutta la sua
luce, inserendola perfettamente nel puzzle in modo che dia un senso al
resto.
E’ da dire che comunque nel periodo in cui viene
creato questo notevole romanzo, non è la prima volta che si parli di
Montenegro nei Gialli: anche Rex Stout, anche lui seguace di Van Dine
nei primissimi suoi romanzi, crea il suo personaggio principale e più
fortunato, Nero Wolfe, attribuendogli, dopo una natalità a Trenton del
New Jersey, delle origini montenegrine.
La purezza della razza aveva sempre attirato più di
uno scrittore: e che si trattasse di montenegrini, come nel caso in
questione, o di corsi, come in Colomba di Prosper Merimée, quello
che attirava era anche la pulsione del sentimento, non mediata da alcun
elemento civilizzato, odio e amore forti, elementi interessanti per
degli scrittori che vivevano esperienze di vita in stati già allora
multirazziali, come la Francia di fine secolo o l’America di inzio
novecento, patria di tutti coloro che volevano lì rifarsi una vita.
Del resto l’aver scelto un soggetto come questo, e
aver sguazzato il romanzo nel sangue, è solo il riferimento lontano a
tutto quello sparso nelle guerre della penisola balcanica, che
evidentemente ad una coscienza civilizzata doveva sembrare un tributo
troppo alto e troppo irragionevole per non amplificarlo anche e solo in
un giallo.
Se parliamo di tecnica, tuttavia qualche neo questo romanzo ce l'ha: nel finale (dopo aver letto Nevins, e quindi aver posto ancor più acume in certe situazioni), non si capisce come Kling non sia morto di inedia, tanto più che era solo, e gli era impossibile procurarsi il cibo; e per di più , e non si può proprio non esser d'accordo con Nevins, il soggetto pur essendo morto di stenti, non li presenta sul corpo. Questa è sicuramente una falla, un passo non sufficientemente limato. Inoltre presenta una caratteristica, che poi verrà esplicitata in modo ancor più netto in "Cinese", ossia la presenza di elementi caratteristici nel corpo centrale del romanzo, che molto poco hanno a che fare con il finale: è come se fossero stati messi per allungare il brodo, oppure come alcuni suggeriscono, Dannay avesse pensato di fare una metafora sulla guerra con questo romanzo, metafora poi abbandonata.
giovedì 29 dicembre 2016
Stuart Palmer : Natale con i tuoi ( Omit Flowers anche No Flowers By Request, 1937) – trad. Rossana De Michele – I Classici del Giallo N.258, Mondadori, 1976, pagg. 186.
Stuart Palmer è uno dei grandi scrittori degli anni
trenta del passato secolo. Nato nel 1905, e scomaparso nel 1968, fece una
moltitudine di mestieri diversi, tra cui il giornalista e l’investigatore,
prima di dedicarsi alla scrittura. Raggiunse il successo nel 1931, con The
Penguin Pool Mystery, il suo primo romanzo con la insegnante zitella
Hildegarde Withers, ma nella realtà il suo secondo: il suo primo romanzo, Aces
of Jades (1931), non ebbe granchè successo, anzi fu un flop, e così di
copie in circolazione ne rimasero poche tanto che oggi il romanzo è una
rarità da collezionisti. Tuttavia si riprese subito, pubblicando sempre nel
1931, proprio The Penguin Pool Mystery ( Un dramma nell’acquario,
Mondadori; L’enigma della vasca dei pinguini, Polillo): il romanzo fu
così popolare che immediatamente ne fu tratto un film. Da allora si dedicò
assiduamente alla elaborazione di nuovi romanzi, che furono regolarmente
pubblicati in Italia ed esclusivamente, da Mondadori. Tuttavia non molte furono
le sue opere ad essere tradotte: a fronte dei 23 romanzi pubblicati con il suo
nominativo ed uno con lo pseudonimo di Jay Stewart, in Italia solo una dozzina,
libro più libro meno, sono stati pubblicati da Mondadori (tra cui uno, il
primo, pubblicato due anni fa da Polillo).
Perché proprio quel romanzo di Palmer sia stato
ripubblicato al posto di Murder on Wheels,
per esempio, generalmente considerato tra le sue opere migliori, non è dato
sapere: forse perché fu per lui il maggior successo popolare. Ma non è sempre
detto che successo significhi opera migliore: io sono per esempio tra quelli
che non considerano la sua opera prima con l’accoppiata “Insegnante Hildegarde
Withers/Ispettore Oscar Piper”, The Penguin Pool Mystery, tra le sue
cose migliori, per una serie di motivi che potranno essere snocciolati quando
parlerò, nel futuro, proprio di quel romanzo.
Oggi invece introdurremo un altro dei suoi romanzi più
popolari (e migliori, direi), Omit Flowers, pubblicato anche come No
Flowers By Request, del 1937.
Perché questo e non invece altri? Perché Palmer è
popolare per i suoi romanzi con Hildegarde Withers. E siccome io amo
distinguermi dagli altri, propongo un romanzo che non ha, come
personaggio principale, proprio Hildegarde Withers. Semplice, no?
Joel Cameron è un ex-petroliere. Ha acquisito una
notevole fortuna con l’estrazione del petrolio, tanto da aver costruito un
villaggio di case (Cameron Heights), per i suoi dipendenti, dalle vie ispirate
ai grandi attori del passato hollywoodiano. E soprattutto la sua casa
(Prospice), una immensa residenza, di moltissime stanze, molte disabitate o
lasciate in abbandono, su cui troneggia una sala da biliardo all’ultimo piano,
dalle ambizioni pretenziose. Tuttavia con la fine dell’estrazione del petrolio,
il villaggio è stato abbandonato, e le sue case ospitano semmai solo fantasmi e
polvere. E’ rimasta solo la casa, col suo proprietario, visto che la moglie è
morta molto tempo addietro lasciandolo disperato e solo.
Col passare degli anni la sua solitudine è diventata
misantropia.
Joel ha molti parenti, tra cui la sorella, ma si è
rintanato nella sua tana, accudito da una coppia di servitori messicani, gli
Oviedo. Col tempo è diventato anche avaro, non regalando nulla della sua
immensa fortuna ai parenti, che lo odiano e lo vedono al tempo stesso come
l’unica alternativa alla mancata realizzazione dei loro sogni. Così un bel
giorno, uno di loro, Gilbert Cameron, invita tutti i parenti, a trascorrere il
Natale dal loro ricco parente, col segreto scopo di farlo dichiarare insano di
mente e potete quindi disporre delle sue sostanze. Un invito che non rimane
inascoltato, giacchè tutti, ma proprio tutti, si recano alla residenza
mastodontica dei Cameron, non tanto per visitare il loro parente, ma invece per
appropriarsi delle di lui ricchezze. Insomma dei farabutti, chi più chi meno!
Il narratore è Alan Cameron, uno dei nipoti, uno
scrittore alla Peter Kolosimo (alieni, Atlantide, etc..) che sulla strada per
Cameron Heights, rimorchia per strada due belle ragazze, Mildred e Dorothy Ely,
nipoti di Alger Ely, cognato di Joel, e, in pratica, sue cugine. Insieme
arrivano, di sera, al villaggio: non c’è una luce, il vento ulula, e le ragazze
che tremano per la paura. Arrivati a casa, si aspetterebbero di essere accolti
con gioia, ed invece trovano la dimora chiusa, e quando vi entrano, anche
desolatamente vuota, con tutto il mobilio ricoperto da teli. Del padrone
neanche l’ombra. La luce non funziona, ai loro richiami nessuno accorre, ed
inoltre si sentono rumori, come uno sferragliare di catene. Per dei tipi
impressionabili è il massimo. Anzi no, non lo è ancora: il massimo viene raggiunto,
quando il terzetto entra nella biblioteca e qui alla luce fioca di una candela
trovano una donna distesa sul divano, Evelyn Cameron, la sorella di Joel, ed un
essere chino su di lei. Quando si volta, ecco che a malapena riconoscono il
vecchio Joel, con un’ espressione orrida, e coperto di ragnatele, quasi fosse
un cadavere alzatosi dalla sua bara in una polverosa cripta.
Ben presto arrivano gli altri ospiti. Intanto lui,
Joel, si scusa per il suo aspetto, dovuto alla sua discesa nelle cantine allo
scopo di riparare il guasto nel sistema elettrico della casa.
Ben presto, alle spalle del vecchio, i parenti si
riuniscono per vantare chi più chi meno, le proprie pretese sul patrimonio.
Tuttavia proprio Gilbert Cameron, colui che ha dato il via alla riunione,
manca.
Il vecchio Joel, dopo aver sistemato sotto l’albero i
regali per i parenti (ma definirlo albero di Natale è un’accezione troppo
lusinghiera, giacchè è solo il resto rinsecchito, impolverato e pieno di
ragnatele, dall’aspetto più lugubre che festoso, dell’ultimo albero di Natale
che vide la moglie di Joel ancora viva), va a dormire in una delle stanze sopra
il garage. Fatto sta che durante la notte, proprio Alan è richiamato dalle
grida dei suoi parenti, e di suo cugino Todd,la pecora nera della famiglia, un
nullatenente, in quanto il garage è un immenso rogo. Alan dice addio alla sua
automobile, parcheggiata lì; ma soprattutto i parenti danno l’addio al vecchio
Cameron, non troppo contriti, anzi il contrario visto che finalmente potrebbero
disporre pienamente dei suoi beni, e nello stesso tempo indignati perché gli
stessi regali posti dal vecchio sotto l’albero di Natale, altro non erano che
scatole vuote: l’ultimo scherzo di pessimo gusto che Joel aveva riservato ai
suoi avidi parenti (dopo quello dell’anno prima in cui ad alcuni aveva inviato
un assegno in bianco, senza però alcuna firma e quindi carta straccia).
Il condizionale è d’obbligo però, perché gli
incaricati delle indagini, lo Sceriffo Bates ed il giudice (e medico legale)
Sam Eckersall, in tutto quel rogo non trovano traccia del cadavere di Joel,
tranne che un osso e di una mandibola, che potrebbero essere di origine umana,
ma anche no. E così i parenti, tutti felici per quell’inaspettata scomparsa,
ora lo sono parecchio di meno, visto che si trovano ad essere sospettati e nel
tempo stesso a non poter accampare nulla finchè di Joel non sarà dichiarata
almeno la morte presunta.
Nel frattempo Alan, coadiuvato dal cugino, si
improvvisa detective, anzi il principale detective è proprio Todd che ispira
le indagini dello Sceriffo desideroso di trarre qualche ragno dal buco
della vicenda, così da guadagnare i diecimila dollari promessi da un giornale
per l’esclusiva.
I principali indiziati sono i cugini del Wisconsin, i
Waldron, perchè lui, Ely, ha dato l’allarme dell’incendio, pur non potendo dal
suo balcone vedere alcunché visto che esso è rivolto in tutt’altra direzione.
Ma poi da indagini più accurate, sembrano perdere in attenzioni da parte degli
improvvisati investigatori, cui si sono aggiunte le sorelle cugine, Dorothy e
Mildred, a discapito invece dei due servitori messicani, gli Oviedo, ritenuti i
probabili omicidi, sempre che di delitto si tratti, dallo sceriffo: sarebbero
stati loro ad appoggiare sul terreno sottostante alla finestra della camera
occupata da Joel, la scala pesante, i cui segni sul terreno sono stati indicati
proprio da Alan allo sceriffo nella notte dell’incendio.
Il quartetto, non tralascia neppure l’ipotesi che il
vecchio Joel non sia morto, e quindi organizzano un esame accurato ed
infruttuoso nell’immensa dimora in cui tutti sono ospitati senza alcun
risultato.
Intanto finalmente le indagini sulla scomparsa di
Joele sembrano arrivare a risultati concreti: mediante analisi chimiche e
biologiche, lo sceriffo e il medico legale sono in grado di affermare che i
reperti ossei appartengono ad un essere umano, ma ovviamente solo la
comparazione della mandibola e di due denti, con la scheda relativa da parte di
un dentista, potrebbe senza ombra di dubbio attribuire quei reperti ossei a
Joel oppure no. E neanche a farlo apposta nessuno è in grado di sapere se Joel
fosse andato o no da un dentista, e nessuno dei paraggi sa nulla.
Così si può solo vagare a caso. Todd e lo sceriffo
organizzano una trappola telefonica: sarà chiamato al telefono ciascun parente,
mentre nascosto in un armadio prospiciente all’apparecchio telefonico, Alan
sorveglierà il tutto. In sostanza Todd dice che per rivelare chi sia il
bugiardo, farà arrivare la macchina della verità. La sola che rimane
impressionata è Mildred, che la notte prima ha affermato di aver visto lo
spettro di Joel coperto di ragnatele e che ha riportato un grave shock. Proprio
Mildred volerà poco dopo dalla finestra della sua camera nel roseto
sottostante, sfracellandosi. Suicidio o omicidio?
In quest’atmosfera plumbea ed opprimente, un dentista
si fa vivo, inviando una fattura il 27 dicembre. Andati a interrogare costui,
il Dottor Garvey si presenta in un bello studio, con mobili nuovi ed una
segretaria con tanto di pelliccia: dichiarerà che in effetti Joel era suo
paziente e poi ingiuntogli dallo sceriffo di esprimersi sull’origine dei
reperti umani, dichiarerà che la mandibola è appartenente a Joel.
Così finalmente i soldi sono svincolati e tutti
potrebbero ora goderne. Bisogna solo trovare l’assassino di Mildred (se non si
sia suicidata) e di Joel , visto che tra le ceneri è stato trovato quello che
sembra un bossolo di argento puro. Chi mai ucciderebbe con proiettili di
argento? Solo nelle leggende questo trattamento è riservato ai vampiri, ai
negromanti o ai lupi mannari. Una coltre si superstizione e di male si addensa
sulla vicenda.
Le domande cui rispondere sono due: se Mildred è stata
uccisa, perché lo è stata? E se non è stata uccisa, cioè se si è suicidata
(esclusa l’ipotesi della fortuita caduta accidentale), per quale motivo
l’avrebbe fatto? Possibile che la paventata minaccia della macchina della
verità abbia così impressionato la ragazza da indurla a suicidarsi? Aveva a che
fare con l’omicidio di Joel? Oppure è stato l’incontro notturno della figura
che lei ha attribuito allo spettro di Joel, a indurla all’insano gesto, sempre
che lei si sia uccisa? La tensione raggiungerà il culmine quando una
terza vittima si aggiungerà ai due precedenti: il dentista si schianterà a
bordo della sua fiammante Rolls- Royce su una strada.
Il finale è convulso. Si ribalterà giungendo prima
all’individuazione di un omicida morale, poi all’attribuzione a lui o ad altri
delle due morti in più, ed infine di un omicida reale, diverso dal primo, ed
inaspettato. Lieto fine, ma non troppo.
Ottimo romanzo di Stuart Palmer, Omit Flowers
si contraddistingue per una trama sempre in bilico, per una nebulosità della
situazione che accresce l’incertezza sulla sorte della vittima (e anche
di Gilbert, che continua a mancare) e dei suoi parenti. Ne consegue che
l’atmosfera è il principale pregio del romanzo: la sua potenza evocativa viene
anche più accresciuta da vecchi espedienti tipici della letteratura gotica
(sferragliare di catene, ragnatele, polvere, spettri, buio, cimiteri, notte),
già tuttavia essendo molto densa in virtù dell’inconsistenza dell’indagine e
delle morti che si succedono, a loro volta dominate dal dubbio che trattasi di
omicidio o suicidio.
L’escamotage di un quartetto di investigatori, due
effettivi e due aggiunti, nel cui ambito si muove la seconda vittima, aggiunge
mordente alla vicenda, soprattutto quando lo stesso Alan viene sospettato di
essere l’omicida in virtù del fatto (prima che si arrivi alla scoperta del
bossolo di argento) che la sua pistola, una calibro 22, fosse stata riposta
nell’auto, andata distrutta, e non fosse stata trovata. In altre parole
ricadremmo nel vecchio trucco di Leroux, ampliato da tanti altri scrittori, che
cioè il detective fosse anche l’assassino. In questo caso avremmo un doppio
incidente, nel caso ciò fosse vero, giacchè Alan è anche il narratore in prima
persona, e quindi ricadremmo nella soluzione proposta da Agatha Christie in un
suo celebre romanzo.
Ma è davvero lui l’omicida? O altri?
Niente è come sembra in questo romanzo. Nulla. Tutto è
destinato a mutarsi, ad essere riportato nella sua giusta prospettiva, quando
Todd, che è stato sospettato anche lui dallo sceriffo, scoprirà la verità, e
come le morti avvenute sono state solo il verificarsi casuale nell’ambito di un
piano che nella sua semplicità mirava a tenere in scacco i vari personaggi del
dramma, godendo della loro paura, il cui fautore, finirà con l’essere ucciso a
sua volta.
In questa edizione mirabile, la traduzione di Rossana
De Michele, anche se non integrale, è molto fluida e ha il pregio di riuscire a
conservare la tensione originale concepita dall’autore. Funzionale al testo è
anche la bellissima immagine di copertina, che ritrae una giovane donna
(Mildred), in preda alle sue paure e angoscie, vicino a quelle che
sembrerebbero foglie di un albero di Natale fantasma.
Il romanzo è scritto con verve, ed un umorismo molto
acido, tipico di Palmer, presentandosi più che sotto l’aspetto di un romanzo ad
enigma, in quello di una commedia nera, direi molto vicina a certi lavori di Ursula
Curtiss; e di un romanzo di suspence, in cui la tensione è massima in più punti
del romanzo, avvincendo fino alla fine e riservando due sorprese finali, nel
ribaltamento del rapporto omicida-vittima, ed una ancora dopo, in quello del
rapporto d’amore tra Dorothy e i due cugini Todd ed Alan. Di quale dei due
cugini, la bella Dorothy confesserà di essere innamorata?
Di quello che avrà saputo lasciarla libera di
scegliere, pensando che l’altro valesse più di lui.
Ma la scelta d’amore è funzionale anche ad un’altra
ragione, che toccherà al lettore scoprire e che sarà rivelata negli ultimi
righi dell’apologo finale.
Pietro De Palma
martedì 27 dicembre 2016
Bill Pronzini : I Cospiratori (Schemers, 2009) – trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N. 3069 dell’ 8 novembre 2012
Bill Pronzini stupisce sempre.
Tempo fa leggevo su un sito americano, uno dire una
cosa che mi sono accorto, col passar del tempo, di condividere sostanzialmente:
leggere un romanzo di Pronzini fa sentire bene. E’ come un appuntamento da
lungo sognato: ti apparti, ti siedi in poltrona o stai dovunque tu voglia, ti
rilassi, metti un po’ di musica come sottofondo, e..attacchi un Pronzini. Che
ti estrania dal mondo circostante, ti immerge in una storia.
Bill Pronzini non ha doti particolari, non ha
soluzioni geniali (anche se la Camera Chiusa qui presentata non è affatto
male!), non ha plot immaginifici alla Carr tanto per intenderci, né abduzioni
alla Ellery Queen per straordinario livello di difficoltà. No. Pronzini ha
altro, ha qualcosa di raro: sa scrivere, e affascinare con le sue storie. Semplici,
ma scritte meravigliosamente bene, con sfondi umani estremamente realistici e
slanci appassionati.
Questa volta si cimenta con due storie diverse,
inserite nel medesimo romanzo. Le due storie non hanno punti in comune tra
loro, per esempio come in La porta chiusa di Peer & Wahloo, e
riguardano due trame completamente diverse, e per genere, e per sviluppo
narrativo. Per cui mi sembrerebbe più legittimo parlare di due lunghi racconti
riuniti in un testo unico.
Qui le indagini riguardano due fatti completamente
diversi: uno psicopatico che nutre un odio profondo verso un dentista defunto,
Lloyd Henderson e i suoi due figli, Cliff e Damon; ed un ricco collezionista di
Gialli cui sono stati sottratti 8 volumi rarissimi, alcuni anche firmati dagli
autori, da una biblioteca protetta dai sistemi di sicurezza più sofisticati,
con le finestre chiuse e sbarrate ed una porta con due serrature di sicurezza
uguali, la cui chiave è solo in suo possesso: si potrebbe pensare che i volumi,
assicurati per 500.000 dollari abbiano stimolato l’avidità o il bisogno del
collezionista, se non si venisse a conoscere che l’ammontare delle sue
ricchezze fanno arrossire di vergogna quei miseri (per lui!) 500.000 dollari.
Dello psicopatico, un elemento schizoide con manie compulsive,
se ne occupa Jake Runyon, detto altrove “Il Segugio”, collaboratore di Tamara e
Bill, tra loro soci; del mistero da Camera Chiusa invece, Bill (più conosciuto
col suo antico appellativo, “Senza Nome”).
Il romanzo si apre con lo psicopatico che attenta al
monumento funerario di Henderson: il dentista è stato cremato. Lo psicopatico
non trova di meglio che versare acido cloridrico sul granito, sul bronzo e
anche sull’urna contenenti le ceneri del defunto, dopo averla disseppellita. Il
tutto corredato da foto, scattate per immortalare lo sfregio e sputi che lo
stesso riserva al cenotaffio.
Ben presto però riserva le sue attenzioni ai due figli
del dentista: Cliff e Damon. Tutti e due sposati e con figli. Bill ha fondato
un’Agenzia che è molto stimata. Morale della favola è che gli
Henderson e anche Pollexfen si rivolgono a lui, tramite Barney Rivera, un
assicuratore, che è stato amico di Bill nel lontano passato, ma da quando ha
sparso veleno sul conto della di lui moglie, non è stato più interpellato né
tantomeno Bill ha accettato sue proposte di lavoro: ora si fa vivo, e a lui
fanno capo tutti e due i casi.
Barney ha fatto il nome di Bill ai suoi assicurati,
che capisce che si tratta di una partita pericolosa: in ballo c’è la sua credibilità.
Barney aspira a vendicarsi e lui intende non dargliela vinta. Ecco perchè deve
venire a capo della faccenda e capire: chi sia il misterioso psicopatico,
impedendo che possa attentare alle vite dei due figli e dei loro familiari; e
ritrovare i misteriosi 8 volumi gialli preziosissimi.
Se Bill lavora da solo, Runyon lavora con l’ausilio di
Tamara. Runyon è un ex poliziotto, ed è un tipo estremamente chiuso,
soprattutto dopo la morte della seconda moglie per tumore, e per i cattivi
rapporti col figlio di primo letto; nonostante ciò si è avvicinato ad un’altra
donna, Bryn Darby, col volto sfigurato da un’emi paresi provocata da un ictus.
Tamara a sua volta è “in affair” come dicono in America con un certo Lucas
Zeller, uno che “a letto è una cannonata”: per il momento si incontrano, cenano
e scopano. Un’unione basata sul sesso, Ma soddisfacente per entrambi. Bill
infine, dopo i patemi dell’operazione per tumore di Kerry, ha ritrovato una
certa stabilità nel suo rapporto a tre, con la figlia Emily. Questi personaggi,
sostanzialmente giocano le loro storie, che sono come tante cerniere che legano
le varie sezioni della trama, donando ai due gruppi, fortemente drammatici, una
leggerezza vaporosa, e sketch profondamente
umani, ora allegri ora tristi.
Dall’altra parte, i libri non si trovano, il
collezionista è furente, e Nameless capisce che deve cercare il bandolo della
matassa indagando su coloro che sono più vicini a Pollexfen. In sostanza ben
presto capisce che gli unici che potessero avere una qualche chance di rubare
gli otto volumi sono: la segretaria del collezionista, il cognato, e la moglie.
Solo che la segretaria viene esclusa a priori dallo stesso Pollexfen, perché
non avrebbe proprio cosa farsene dei volumi, non avendo la minima conoscenza
della materia, mentre i due fratelli, moglie e cognato, qualche possibilità in
più l’avrebbero avuta: la prima non fa altro che bere smodatamente, dedicarsi
allo shopping e collezionare amanti (visto che il marito è impotente e il
viagra gli fa solo il solletico, come lei stessa ammette ad un certo punto):
l’ultimo è il suo legale, Paul Disantis; il cognato, invece, che si accompagna
ad una cantante, naviga nell’incertezza finanziaria: si occupa di promozioni di
concerti, iniziative che non sempre finiscono nel migliore dei modi, come
quando per esempio ha fatto sborsare al cognato 100.000 dollari per
finanziargli un’operazione commerciale disastrosa. I due fratelli odiano
Pollexfen, ricambiati a dovere. Solo che Bill non capisce come e perché
Pollexfen non butti fuori da casa sua il cognato parassita, pur avendo tutte le
possibilità per farlo, e quindi subdora che sotto sotto ci sia un ricatto:
segno che il vecchio non è pulito come lui fa credere che sia. Fatto sta che
più l’indagine va avanti, più il cerchio si stringe, e i colpevoli si rimandano
le accuse l’un l’altro, per cui diventa assai difficile capire chi stia prendendo
per il sedere Bill. Finchè…
Finchè un giorno non avviene il fattaccio. Bill decide
di ritornare ad investigare, ed interrogare di nuovo i tre: quel giorno il
vecchio è ad un’asta di libri e quindi promette di essere a casa intorno alle
16. Quando Bill arriva, lui non è ancora arrivato, ma gli va incontro la sua
segretaria. Fuori sono parcheggiate due auto, una Porsche ed una Jaguar,
quindi dovrebbero esserci sia la sorella che il cognato di Pollexfen, che però
in casa non si vedono.
Frattanto è arrivato il vecchio. Tutto allarmato,
capisce che l’unico posto dove possono essere è la biblioteca, che però è il
posto più inaccessibile della casa, visto che l’unica chiave per accedervi è la
sua. Purtuttavia, qualcuno ha sottratto gli 8 volumi rarissimi, quindi il
sospetto dei tre è che qualcuno abbia trovato il modo di entrarvi. Bill si
slancia verso la biblioteca, mentre si sente un colpo di arma da fuoco. La
porta della biblioteca è chiusa, ma Bill, con la chiave in possesso del
vecchio, riesce ad aprirla, in tempo per sentire la puzza e il fumo provocati
dalla polvere da sparo e per trovarsi davanti ad una scena stomachevole: Jeremy
Cullrane si è sparato in bocca, col vecchio fucile calibro 12 che si trovava
sopra al camino. Inutile dire che mezza faccia e cranio sono stati spappolati,
e sangue misto ad osso e cervello sono stati scaraventati verso il camino,
imbrattando di sangue e materia cerebrale alcune sovraccoperte di libri rari.
Il cadavere di Jeremy è per terra con la testa ( o quel che ne rimane)
appoggiata al camino, mentre la sorella è distesa lì vicino con gli occhi
roteanti e non capace di connettere; sul divano 8 altri volumi rari, tolti
dagli scaffali e pronti probabilmente per “volare via”, dei bicchieri e un
residuo di liquore e Clonazepam, una benzodiazepina usata anche contro
l’epilessia per i suoi effetti miorilassanti: quindi in sostanza un tranquillante.
Brenda si sente male, la sorella che sta ritornando in
sé non sa spiegare nulla di quello che sia accaduto, mentre il marito dice di
averli lasciati lì alle 13 dopo aver bevuto con loro.
Due sono le possibili ipotesi sull’accaduto: che i due
abbiano litigato (forse per altri romanzi da “far sparire”) e o la sorella
abbia ammazzato il fratello che Jeremy si sia suicidato. Non c’è altro da
pensare, perché se qualcuno dovesse pensare ad un piano perfetto di Pollexfen,
per far fuori insieme cognato ricattatore e moglie fedifraga, dovrebbe anche
riflettere sul fatto che il vecchio, nel momento in cui avveniva la morte, in
una stanza sbarrata dall’interno, era fuori assieme alla segretaria e a Bill.
Intanto Jake Runyon è sulle tracce dello psicopatico.
Interrogando la madre di Cliff e Damon Henderson, viene a sapere che il marito
non era uno stinco di santo come i figli lo hanno sempre ritenuto: tradiva la
moglie a gogò, ed era giunto persino ad incontrarsi alla baita di caccia, dove
si incontrava coi suoi amici, con una delle sue donne. Questa, si era persino
presentata a casa di Henderson, moglie presente, ed era stata scacciata in malo
modo; in seguito a ciò la signora Henderson aveva lasciato il marito, ma
quest’ultimo aveva fatto ricadere la colpa dell’abbandono su di lei, privandola
dell’amore dei figli. Scopre di lì a poco che la donna, Jenny Devries, aveva
avuto un figlio, Tucker, che era stato riconosciuto dal marito Anthony Noakes.
Dopo il divorzio con Noakes, la donna era stata presso sua zia, assieme al
figlio. Poi nel 1988, Jenny era stata strangolata e abbandonata in un bosco
dove i resti del suo corpo dilaniati dagli animali erano stati trovati da
cacciatori. Il figlio di Jenny e presumibilmente di Lloyd, Tucker era poi
vissuto con la zia sino alla morte di quella. Col tempo aveva assunto delle
manie compulsive e schizoidi: riteneva responsabile della morte della madre
proprio Lloyd (che accusava di averla strangolata per farla tacere) e non
potendosi vendicare direttamente, voleva farlo per interposta persona,
colpendone i figli.
A questo punto la caccia è aperta: Runyon, con l’aiuto
di Tamara, individua la casa di quello, viene a sapere che era stato in
manicomio, che era un fissato di fotografia (aveva lavorato in un negozio di
macchine fotografiche da dove aveva rubato una macchina fotografica digitale);
in casa trova una collezione di foto con donne nude, fotografate nella loro
intimità, e vari flaconi di prodotti chimici per lo sviluppo delle foto, ma
anche uno di acido cloridrico; va in giro con uno scassato furgone bianco.
Runyon dovrà evitare che Tucker attenti alla vita degli Henderson e nello
stesso tempo eliminarne la pericolosità.
Nel frattempo Bill si occuperà di Pollexfen e dei suoi
libri: risolverà la Camera Chiusa, trovando anche i libri ed inchiodando
l’assassino alle sue responsabilità e nello stesso tempo salvando la vita ad
Angelina, moglie di Gregory Pollexfen, accusata della morte del fratello. Come
avrà fatto l’omicida a uccidere Jeremy Cullrane? E a far sparire i libri?
Bill riuscirà a dare una risposta ai tanti
interrogativi, dopo che si scoprirà che il cocktail avevano bevuto in
biblioteca era addizionato ad un potente barbiturico, e dopo soprattutto che ad
aprirgli la mente sarà stata la figlia Emily, con un pungente commento. La
Camera Chiusa è risolta con brillantezza (anche se non vi sono prove effettive
ma solo indizi che essa possa essere stata ideata così: tant’è vero che
l’assassino viene presto rilasciato su cauzione, anche se il giudizio divino lo
colpisce sotto forma di infarto: un male metafisico di radici agostiniane)
anche se il colpevole è facilmente identificabile, parecchio prima.
Nonostante però, quindi, che i due colpevoli non siano
così impossibili da acciuffare, il bellissimo romanzo di Pronzini, si segnala
per un ritmo veramente avvincente, in grado di coinvolgere il lettore
avviluppandolo come tra le spire di un serpente costrittore, e lasciandolo
andar via solo a conclusione. Le due storie sono legate, come ho detto
precedentemente, dai vari episodi di vita intima dei protagonisti della storia:
Bill, Jake e Tamara.
Alle due storie Pronzini conferisce uguale importanza
ed uguale lunghezza; anzi, a me è parsa maggiore quella affidata a Runyon. Come
pure anche i flashback di vita vissuta, di Jake, sono più sviluppati di quanto
accada per Bill, come se Pronzini , almeno in questa storia (non so non
avendone lette altre ultime), volesse riservare proprio a Runyon il massimo
dell’attenzione: del resto anche le sue vicende intime sono più cariche di
risvolti amari e stringenti, di quanto non appaiano quelli di Bill.
Da un certo punto di vista la vicenda di Jake e Bryn,
è la più forte e la più drammatica: lui risente della morte della moglie, lei
dell’abbandono del marito; lui si è chiuso nella sua solitudine, lei pure
sfigurata dall’ictus; il loro incontro piano piano, con dolcezza, li fa
rifiorire e ritornare alla vita, la più normale. Bellissima la scena di sesso,
molto molto leggera ed insieme toccante. Si sente tutta la presenza di una
donna: sono sicuro che la moglie di Pronzini, Marcia Muller, nota scrittrice
americana di polizieschi e pulp, deve aver dato qualcosa al marito, almeno in
suggerimenti: un uomo non facilmente riesce a sondare l’universalità dell’Io
femminile. Ecco perché penso ad un intervento, almeno solo in sede di
consiglio, della moglie, notissima scrittrice di polizieschi anche lei.
Comunque sia, se l’inizio del romanzo è tutto per il
caso di Jake, la fine vede Bill sotto la luce dei riflettori, quando dà
lo smacco all’odiato liquidatore della Great Western, Barney Rivera,
strappandogli i 5000 dollari di ricompensa per aver risolto il caso.
E Tamara?
Con Tamara, in sostanza Bill Pronzini, dà un nuovo
appuntamento ai suoi lettori: per sapere se Lucas, durante il loro ultimo
rapporto sessuale, le abbia trasmesso qualche brutta malattia venerea, (non
avendo usato il profilattico) oppure no, bisognerà leggere il romanzo
successivo a questo.
Lucas sembrava la persona giusta: si è rivelato invece
un pericolo per Tamara.
Vuoi che Bill Pronzini abbia anche lui svolto opera di
pubblicità dei vantaggi del profilattico, con questo messaggio subliminale
inserito nel romanzo? Non so. Ma in un’America già colpita sensibilmente dal
virus HiV, e poi da una diffusione massiccia di parecchie affezioni veneree,
nell’America delle libertà e dei proclami anti-aborto, anche Bill può aver
voluto dire la sua, lasciando la sua impronta, lievemente e
intelligentemente, come solo lui sa fare.
Ah, dimenticavo : brillante e fluida traduzione di
Mauro Boncompagni.
Pietro De Palma
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