sabato 31 dicembre 2016

Augusto De Angelis : L’Albergo delle tre rose, 1935 – La Memoria N° 539, Sellerio Editore, 2010

Il più famoso autore poliziesco italiano dell’epoca fascista è Augusto De Angelis, l’unico i cui romanzi abbiano superato l’esame dei tempi, e che siano ancor oggi riproposti con successo, dopo la riscoperta anche mediata da due fortunate serie televisive nei primi anni ’70 della RAI in cui la parte del Commissario De Vincenzi fu affidato a Paolo Stoppa.

Il romanzo più famoso di De Angelis è senza dubbio “L’Albergo delle tre rose”, che è il suo capolavoro. Non è solo un romanzo poliziesco di prim’ordine, con false piste, indizi, personaggi estremamente sfaccettati e a tutto tondo, ma che ha una suspence crescente, un ritmo non indifferente e misteri a go-go. Ha anche un’atmosfera claustrofobica, in quanto è ambientato in un piccolo albergo, nell’arco di una notte, e propone per di più anche un mistero della Camera Chiusa, con una interessantissima variazione.
De Vincenzi, che è più giovane del suo Vice Commissario Sani (ma nello sceneggiato omonimo è più anziano in quanto interpretato da Paolo Stoppa), ma è da lui rispettato e stimato per via della sua non comune genialità, appena entrato in Questura, trova la posta e tra le varie lettere, una accende il suo interesse: è una lettera anonima che annuncia che qualcosa di sinistro sta accadendo all’Albergo delle tre rose, un albergo di terz’ordine, più pensionato che altro, dotato di sala ristorante. La frase molto d’effetto che richiama la sua attenzione parla del “Diavolo che sghignazza dietro ogni porta”. Colpito dalla lettera, quasi subito viene chiamato dal Commissario Bianchi, un suo amico, e viene informato che all’Albergo delle tre rose è avvenuto un delitto.

Arrivati sul posto, notano un certo trambusto. Siccome è sera, nel ristorante la sala è piena: oltre agli occasionali clienti, vi sono quelli che giocano a scopone, e poi i clienti fissi della pensione. I poliziotti vengono informati che al terzo piano, Bardi, un gobbo che abita nella pensione, ha trovato impiccato il giovane Douglas Layng. Sembra che sia stato messo per impressionare o Carlo Da Como, un tale che nato ricco ha dissipato tutte le sue ricchezze vivendo in maniera dissoluta, o un tedesco, Vilfredo Engel, amico di Da Como: si pensa che possa essere un avvertimento per uno di loro, perché per andare alle loro due camere bisogna obbligatoriamente passare per dove è stato impiccato il giovane.

Il giovane comunque pare appeso, non impiccato. Fatto sta che la Guardia Medica chiamata lì per lì, non può dire di più di quel che vede perché la luce è davvero fioca, ma alla luce di una lampadina di forte luminosità recuperata dabbasso, tolti i vestiti, si accorgono che il giovane è stato pugnalato. Gli abiti però non sono lacerati, segno che dopo essere stato denudato e pulito dal sangue, è stato rivestito, e poi appeso. Una orribile messinscena: perché? Portato il cadavere all’istituto di Medicina Legale fanno un’altra scoperta: il cadavere presenta la flaccidità secondaria, che si manifesta dopo la rigidità cadaverica. Ma, da quanto tempo è morto?  Quello che ancora non si capisce è come sia stato mutato il rigor mortis: si pensa ad una stufa, ma non se ne ritrova traccia.
Parecchie sono le persone sospette. Innanzitutto quelli che stanno sul piano dove è stato trovato l’impiccato, tra i quali spicca Engel, il quale dimostra di aver paura di qualcosa, oltre a possedere una cosa strana per un uomo: una bambola. La cosa ancor più strana è che anche Layng possedeva una bambola, come pure una svedese diciannovenne, tale Karin Nolan. Tre bambole uguali, in possesso di tre persone diverse. E’ chiaro che debba esserci un legame. E siccome per di più uno dei tre possessori è stato ucciso, De Vincenzi sospetta che l’assassino voglia ancora uccidere. E ucciderà ancora. Ma prima sarà trovato un foglietto in cui, a firma di un certo Julius Lassinger, si promettono in pratica altre morti, perché il giovane appeso è stato il primo di una serie.
Moriranno Giorgio Navarreno, un levantino di nazionalità cipriota, che sbarca il lunario facendo il chiromante e vendendo chincaglierie varie, che sapeva qualcosa e ha cercato di ricattare l'assassino; 
e l'italo-americano Nicola Al Righetti, per sua stessa confessione passato per parecchie città straniere, ultima delle quali New York. De Vincenzi sospetta, ma non ha prove che lo sia effettivamente, che sia un gangster americano. E Karin Nolan, pugnalata con un paio di forbici, si salverà solo per la prontezza di De Vincenzi.  
Chi è l’assassino?
De Vincenzi lo scoprirà non prima che la lettura del testamento avrà fornito gli ultimi tasselli perché il colpevole, pazzo, venga affidato alle cure di un manicomio criminale.
Tantissimi altri personaggi: Besesti, il ricco industriale;  i coniugi inglesi Flemington; l'attricetta Stella Essington; la bella Mary Alton, vedova del Maggiore Alton, dell'esercito inglese. E poi una vicenda oscura, terribile, accaduta durante la Guerra Boera, in cui c'entrano un Lessinger, il defunto Maggiore Alton, e altro militare, fratello di Vilfredo Engel, in cui erano morte Lessinger e le sue 3 figlie, mangiate dai coccodrilli; e tanto oro.
L’Albergo delle tre rose è uno dei più bei romanzi di narrativa poliziesca italiano del ‘900: innanzitutto è scritto benissimo, con descrizioni a tutto tondo dei personaggi (molto diversamente dalla normalità dei romanzi di quel periodo anche stranieri, in cui o i personaggi sono molto bene tratteggiati e il plot non è niente di speciale o è il contrario, fatto salvo quanto accade solo nel caso di grandi nomi della letteratura poliziesca in cui entrambi i caratteri sono presenti) tale da fissarli bene nella mente; gli stessi caratteri psicologici sono estremamente decisi, e assieme a quelli fisici, realizzano compiutamente un determinato soggetto; la storia è avvincente, e utilizza un espediente che deriva direttamente da Conan Doyle (La valle della paura): un qualcosa accaduto nel passato che è alla base della tragedia che accade nel presente;
sono presenti molte false piste, che distraggono il lettore e lo portano a considerare delle strade impossibili da seguire, mentre invece la storia è molto semplice, e anche il movente vero lo è; vi è una Camera Chiusa molto interessante: la finestra è aperta, e quindi apparentemente non vi è motivo perchè un mistero della Camera Chiusa possa esistere. Tuttavia proprio le circostanze e l'impossibilità dellla fuga (si è ad una certa distanza da terra, e anche un ginnasta cadendo si fratturerebbe qualcosa) creano il problema; peraltro la finestra si affaccia su uno spazio chiuso (nello sceneggiato RAI curiosamente invece il cortile aveva una uscita posteriore): non vi è la distesa di neve, ma un giardino interno completamente bagnato di pioggia, tale che l’assassino dovrebbe lasciare delle orme umide, ed invece non le lascia, e si comporta in maniera strana, non come si comporterebbe chi non vuole essere visto). Noto peraltro che De Angelis, che è interessato al mistero in se stesso e non alla particolarità della camera Chiusa, non vi fa caso: si manifesta qui, quindi, uno dei rari casi in cui, pur essendoci una impossibilità manifesta, essa non viene conteggiata.
Vi  sono anche continue messinscene: le bambole che appaiono; il cadavere pugnalato, poi denudato, rivestito in maniera tale che non si veda il sangue, e impiccato; il tentativo di eliminare il rigor mortis; l’apparizione della vera madre della vittima; due diversi testamenti; e infine anche un matrimonio di cui non si sapeva nulla. Quest’ultimo escamotage è tipico nei romanzieri inglesi (per es. in Agatha Christie).
In De Angelis si nota tuttavia una estremizzazione delle storie e dei caratteri che sono molto forti: non ci sono soggetti deboli, ma tutti potrebbero essere l’assassino, o comunque tutti hanno nascosto qualcosa che poi unito al resto, forma il puzzle ricomposto. Persino, Bardi, il gobbo, che dà inizio a tutta la storia con la lettera anonima, è un personaggio forte: siccome si sente una vittima del sistema per via della sua diversità morfologica, odia più degli altri, anche se ha sentimenti di protezione nei confronti di gente che lui considera debole come lui. Ed è proprio perché vuole salvare una di queste persone, che avvisa il Commissario di qualcosa di imminente che secondo lui sta per verificarsi in quella casa. Solo che nella sua lettera anonima c’è un equivoco che gioca a favore degli eventi. Lui si muove per salvare un’innocente, ma non sa che quella minaccia fa parte di una macchinazione ben più grande.
Al di là di ciò, il giudizio critico non può che appuntarsi anche su altre cose.
Lo spirito con cui è scritto risente della xenofobia strisciante contro gli stranieri (il popolo italico era perfetto, gli altri no: in questo, la propaganda fascista e nazista eran uguali), ma è purtuttavia un dato che doveva esserci altrimenti la censura fascista non avrebbe mai autorizzato la pubblicazione del romanzo. Per il resto, il romanzo narra di tre delitti avvenuti in un albergo (più un quarto presunto, più un tentativo di omicidio), in cui però parecchi clienti dimorano stabilmente. Più che albergo potremmo definirlo quindi “un pensionato”, con sala ristorante.  Questo è un particolare molto importante che raccomando:  infatti, anni dopo Steeman scriverà L’assassin habite au 21, romanzo che si svolge in un pensionato. Direi che Steeman potrebbe aver letto benissimo il romanzo di De Angelis, in quanto in quei tempi, De Angelis era il romanziere di polizieschi più famoso in Italia. Se nel plot Steeman deve qualcosa ad Agatha Christie, per quanto riguarda il luogo del dramma egli sicuramente ripropone quanto già scritto da De Angelis.  Rispetto a Steeman e a Ten Little Niggers della Christie, il romanzo di De Angelis possiede però un’atmosfera estremamente claustrofobica, che accentua spasmodicamente la tensione.
Per certi versi è molto vicino a The Greene Murder Case di S.S. Van Dine o The Tragedy of Y di Ellery Queen.  Inoltre, per il particolare che due dei tre delitti, tra cui una presunta Camera Chiusa, avvengono in circostanze impossibili o quasi, in un albergo presidiato dalla polizia, potrebbe esser stato tributario di Vindry, che in alcuni suoi romanzi (per es. Le Piège aux diamants e  La Bête hurlante, scritti il primo un anno e il secondo due anni prima) fà presidiare la casa dalla polizia.

Pietro De Palma


venerdì 30 dicembre 2016

Ellery Queen : Il Mistero delle Croci Egizie (The Egyptian Cross Mystery, 1932) – trad. Gianni Montanari - Oscar Scrittori Moderni Mondadori, N. 1869 del 2004



Fra tutti i romanzi di Ellery Queen, Il Mistero delle Croci Egizie non è certo una lettura riposante e scevra da scene forti (com’era vezzo della Detection all’inglese), ma invece un assordante fragore di morte, di sangue e di malvagità.
La prima volta che lo lessi avevo 13 anni, e leggevo ancora i Gialli per ragazzi della Mondadori: le serie dei 3 Investigatori o gli Hardy Boys. Perciò quando lo trovai in un vecchio mobile che stava nello stanzino a casa di mia zia, lo guardai con sufficienza: non sapevo che di lì a poco sarebbe iniziata la mia più grande scoperta: I Gialli, genere bistrattato, ora rivalutato, ma sempre etichettato come Letteratura di genere.
Mi attrasse la copertina, con quelle figure egizie, del grande Roger Barcilon, un disegnatore Mondadori oggi dimenticato, le cui copertine hanno tutte lo stesso stile : i volti e le situazioni sono indice di una forte drammaticità. E un alone come questo era più che ovvio che attraesse un ragazzo di tredici anni. Mi ricordo l’espressione che si disegnò sul volto di mio cugino: era sorpresa? Non saprei dire. Certo che passare da I 3 Investigatori o Nancy Drew a Ellery Queen, fu un salto epocale. Quell’espressione era forse compiacimento: certo è che anche mio cugino apprezzò quella mia scoperta.
Mi ricordo che lo divorai in un giorno. E se non l’avessi trovato, se non fossi entrato mai in quello stanzino, che libri avrei letto poi? Non lo so, questa è fantascienza ucronica: sarebbe potuto accadere che invece di quello mi sarei appassionato a leggere Kant o Herder (li ho letti, ma con meno ardore di quello espresso per i romanzi di Queen, Van Dine, Carr, o Christie. Il solo che li avesse eguagliati, fu Fichte: ma quella è un’altra storia). Non so. Ma quello che posso dire è che questo romanzo, proprio questo, è il solo che ho letto e riletto almeno 4 volte assieme a Il caso dei Fratelli Siamesi (seguito nel numero da Il Mistero del Plenilunio, L’Automa, Il terrore che mormora e Piazza Pulita di Carr, Il pericolo senza Nome e Tre anni dopo della Christie, Morte dal Cappello a cilindro di Rawson e Il mistero della Camera Gialla di Leroux). E ogni volta mi provoca sensazioni uniche.
Va detto però che a distanza di parecchi anni, sono pervenuto in possesso di altra copia dello stesso romanzo tradotto: il Classico del Giallo n.31 del 1968 non portava riferimento al traduttore, mentre altra pubblicazione nell’ambito della serie “ELLERY QUEEN : Sfida al lettore” del marzo 1985 era firmata da Gianni Montanari, ed era finalmente una traduzione integrale. Successivamente sono venuto in possesso del Classico del Giallo n.768 del 1996 e quindi l’anno scorso mi è stato regalato l’Oscar omonimo, tutte ripubblicazioni di tale ritraduzione integrale. Che, è bene dirlo, finalmente ha reso giustizia a questo autentico capolavoro: rispetto a questa seconda traduzione, la prima aveva più di quarantacinque pagine in meno, anche se è bene dirlo l’edizione del 1985 aveva le lettere più piccole e il testo più serrato: quindi, a rigor di logica, se l’impaginazione fosse stata quella dei Classici del Giallo, le pagine sarebbero potute essere certamente di più.
Molto spesso nella prima rispetto alla seconda si procedeva per salti con riassunti del tutto arbitrari di quanto saltato; e poi l’introduzione firmata dall’ ignoto J.J. McC. (ho supposto nel mio articolo su Il Caso dei Fratelli Siamesi sul Blog Mondadori :
che si trattasse di riferimento alla casa editrice McClure, uno dei due soggetti alla base dell’avventura dei due cugini Queen nel mondo del Giallo, con The Roman Hat Mystery) che, nella prima traduzione,era stata del tutto ignorata.
Il romanzo è uno dei più sanguinari di tutta la produzione, con tre omicidi efferati : le decapitazioni di tre fratelli.
Comincia tutto con “la crocefissione di un maestro di scuola”, Andrew Van, privo però di testa, a simboleggiare una mostruosa Tau egizia, su un palo indicatore ad un crocevia stradale della città di Arroyo: è la mattina di Natale.
Prosegue con la “crocefissione di un milionario”: Thomas Brad, proprietario di Bradwood, “famoso importatore di tappeti”, decapitato, legato ad un totem, dalla figura tristemente ricordante una Tau egizia.
E si conclude con la morte di Stephen Megara , all’albero maestro del suo battello, ancora senza testa.
Una storia in cui il sangue scorre a fiumi: non solo il sangue dei tre corpi oltraggiati, ma quello di vendette lontane. Infatti sembrerebbe ad un certo punto che l’omicidio efferato dei tre uomini, tre fratelli, rifugiati in America per scomparire dalla faccia della terra, non si riducesse ad altro se non ad una vendetta tribale, una faida tra due clan, quello dei Krosac e quello dei Tvar, nel Montenegro: in realtà, lo si scoprirà alla fine, è molto più di ciò. E in un certo senso, l’orrore della situazione drammatica, è superiore a quello derivante dal compimento di una vendetta lontana geograficamente e temporalmente. Tre uomini che per fuggire e cambiare la propria identità avevano scelto di attribuirsi una nazionalità fittizia originaria: Andrew Van l’Armeno, Thomas Brad il Rumeno, Stephen Megara il Greco, cambiando il proprio originario nome in quello di tre rispettive e diverse città: Van in Armenia, Brad in Romania, Megara in Grecia. Erano tre fratelli disperati che volevano lasciarsi alle spalle un triste passato e cercare nell’America delle speranze immutabili, nuovi stimoli di vita: troveranno un triste destino, perseguitati da un assassino che viene da lontano. Ma, poi, è tutto davvero così?
E quella T mostruosa, formata dalle braccia distese legate o crocefisse, di un corpo umano mancante di testa, suggerirà nel corso del romanzo più interpretazioni: innanzitutto la Tau egizia, cui si ricollegheranno altre suggestive teorie. Va detto che lo stesso motivo egiziano è una caratteristica molto precisa che collega tra loro parecchi scrittori aventi in S.S. Van Dine il loro vate. Infatti da The Scarab Murder Case di Van Dine (1930), altri romanzi derivano la loro trama, rifacendosi in vario modo alla civiltà egizia: il romanzo in questione di Ellery Queen (1932), Arrogant Alibi (1938) di Charles Daly King, persino The Man from Tibet (1938) di Clyde B. Clason che ambienta in Tibet una storia che pari pari deriva dal romanzo di Van Dine. Non dimentichiamoci che proprio agli inizi del secolo scorso si ascrivono importantissime scoperte archeologiche in Egitto (per es. la scoperta della Tomba di Tut-Ank-Amon), di immediata diffusione mediatica sia in Europa che in America; e che proprio archeologi sia europei che americani erano impegnati in quegli anni sia in Egitto che in Medio-Oriente. E non scordiamoci neanche, che prima che ambientasse Van Dine una delle avventure di Philo Vance in un museo di egittologia, ci aveva pensato già Richard Austin Freeman a concepire un romanzo in cui a vario titolo si parlasse di Egitto: The Eye of Osiris (1911). E del resto il modo come Ellery tratta la materia, fa sì che la sua cultura enciclopedica si rifaccia direttamente al suo archetipo, ossia il Philo Vance di S.S. Van Dine.
Ma poi si arriverà all’epilogo e allora verrà rivelato l’arcano, dopo un terrificante avvicendarsi di colpi di scena che partendo da faide e vendette consumate sui monti del Montenegro, attraverso un susseguirsi di indizi incongruenti, da un Tarzan senza perizoma, a pezzi di dama, a pipe, a crux ansate, a foglietti nascosti in posti inaccessibili, rivelerà il piano perfetto di una mente malata, un omicida implacabile, che non sarebbe stato mai acciuffato se non avesse commesso un insignificante errore: perché mai per disinfettare una ferita, avrebbe dovuto prendere una boccetta di tintura di jodio priva dell’etichetta, quando ce n’era un’altra disponibile e con tanto di indicazioni?
Alla base di questo indizio sta il come Ellery prova che l’assassino sia davvero quello da lui indicato. Un particolare che solo la sua mente analitica riesce a inquadrare in tutta la sua luce, inserendola perfettamente nel puzzle in modo che dia un senso al resto.
E’ da dire che comunque nel periodo in cui viene creato questo notevole romanzo, non è la prima volta che si parli di Montenegro nei Gialli: anche Rex Stout, anche lui seguace di Van Dine nei primissimi suoi romanzi, crea il suo personaggio principale e più fortunato, Nero Wolfe, attribuendogli, dopo una natalità a Trenton del New Jersey, delle origini montenegrine.
La purezza della razza aveva sempre attirato più di uno scrittore: e che si trattasse di montenegrini, come nel caso in questione, o di corsi, come in Colomba di Prosper Merimée, quello che attirava era anche la pulsione del sentimento, non mediata da alcun elemento civilizzato, odio e amore forti, elementi interessanti per degli scrittori che vivevano esperienze di vita in stati già allora multirazziali, come la Francia di fine secolo o l’America di inzio novecento, patria di tutti coloro che volevano lì rifarsi una vita.
Del resto l’aver scelto un soggetto come questo, e aver sguazzato il romanzo nel sangue, è solo il riferimento lontano a tutto quello sparso nelle guerre della penisola balcanica, che evidentemente ad una coscienza civilizzata doveva sembrare un tributo troppo alto e troppo irragionevole per non amplificarlo anche e solo in un giallo.
Se parliamo di tecnica, tuttavia qualche neo questo romanzo ce l'ha: nel finale (dopo aver letto Nevins, e quindi aver posto ancor più acume in certe situazioni), non si capisce come Kling non sia morto di inedia, tanto più che era solo, e gli era impossibile procurarsi il cibo; e per di più , e non si può proprio non esser d'accordo con Nevins, il soggetto pur essendo morto di stenti, non li presenta sul corpo. Questa è sicuramente una falla, un passo non sufficientemente limato. Inoltre presenta una caratteristica, che poi verrà esplicitata in modo ancor più netto in "Cinese", ossia la presenza di elementi caratteristici nel corpo centrale del romanzo, che molto poco hanno a che fare con il finale: è come se fossero stati messi per allungare il brodo, oppure come alcuni suggeriscono, Dannay avesse pensato di fare una metafora sulla guerra con questo romanzo, metafora poi abbandonata.

Pietro De Palma

P.S.
Il romanzo è di nuovo disponibile in libreria nella traduzione di Gianni Montanari.
 

giovedì 29 dicembre 2016

Stuart Palmer : Natale con i tuoi ( Omit Flowers anche No Flowers By Request, 1937) – trad. Rossana De Michele – I Classici del Giallo N.258, Mondadori, 1976, pagg. 186.



Stuart Palmer è uno dei grandi scrittori degli anni trenta del passato secolo. Nato nel 1905, e scomaparso nel 1968, fece una moltitudine di mestieri diversi, tra cui il giornalista e l’investigatore, prima di dedicarsi alla scrittura. Raggiunse il successo nel 1931, con The Penguin Pool Mystery, il suo primo romanzo con la insegnante zitella Hildegarde Withers, ma nella realtà il suo secondo: il suo primo romanzo, Aces of Jades (1931), non ebbe granchè successo, anzi fu un flop, e così di copie in circolazione ne rimasero poche  tanto che oggi il romanzo è una rarità da collezionisti. Tuttavia si riprese subito, pubblicando sempre nel 1931, proprio The Penguin Pool Mystery ( Un dramma nell’acquario, Mondadori; L’enigma della vasca dei pinguini, Polillo): il romanzo fu così popolare che immediatamente ne fu tratto un film. Da allora si dedicò assiduamente alla elaborazione di nuovi romanzi, che furono regolarmente pubblicati in Italia ed esclusivamente, da Mondadori. Tuttavia non molte furono le sue opere ad essere tradotte: a fronte dei 23 romanzi pubblicati con il suo nominativo ed uno con lo pseudonimo di Jay Stewart, in Italia solo una dozzina, libro più libro meno, sono stati pubblicati da Mondadori (tra cui uno, il primo, pubblicato due anni fa da Polillo).
Perché proprio quel romanzo di Palmer sia stato ripubblicato al posto di Murder on Wheels, per esempio, generalmente considerato tra le sue opere migliori, non è dato sapere: forse perché fu per lui il maggior successo popolare. Ma non è sempre detto che successo significhi opera migliore: io sono per esempio tra quelli che non considerano la sua opera prima con l’accoppiata “Insegnante Hildegarde Withers/Ispettore Oscar Piper”, The Penguin Pool Mystery, tra le sue cose migliori, per una serie di motivi che potranno essere snocciolati quando parlerò, nel futuro, proprio di quel romanzo.
Oggi invece introdurremo un altro dei suoi romanzi più popolari (e migliori, direi), Omit Flowers, pubblicato anche come No Flowers By Request, del 1937.
Perché questo e non invece altri? Perché Palmer è popolare per i suoi romanzi con Hildegarde Withers. E siccome io amo distinguermi dagli altri, propongo un romanzo che non ha, come  personaggio principale, proprio Hildegarde Withers. Semplice, no?
Joel Cameron è un ex-petroliere. Ha acquisito una notevole fortuna con l’estrazione del petrolio, tanto da aver costruito un villaggio di case (Cameron Heights), per i suoi dipendenti, dalle vie ispirate ai grandi attori del passato hollywoodiano. E soprattutto la sua casa (Prospice), una immensa residenza, di moltissime stanze, molte disabitate o lasciate in abbandono, su cui troneggia una sala da biliardo all’ultimo piano, dalle ambizioni pretenziose. Tuttavia con la fine dell’estrazione del petrolio, il villaggio è stato abbandonato, e le sue case ospitano semmai solo fantasmi e polvere. E’ rimasta solo la casa, col suo proprietario, visto che la moglie è morta molto tempo addietro lasciandolo disperato e solo.
Col passare degli anni la sua solitudine è diventata misantropia.
Joel ha molti parenti, tra cui la sorella, ma si è rintanato nella sua tana, accudito da una coppia di servitori messicani, gli Oviedo. Col tempo è diventato anche avaro, non regalando nulla della sua immensa fortuna ai parenti, che lo odiano e lo vedono al tempo stesso come l’unica alternativa alla mancata realizzazione dei loro sogni. Così un bel giorno, uno di loro, Gilbert Cameron, invita tutti i parenti, a trascorrere il Natale dal loro ricco parente, col segreto scopo di farlo dichiarare insano di mente e potete quindi disporre delle sue sostanze. Un invito che non rimane inascoltato, giacchè tutti, ma proprio tutti, si recano alla residenza mastodontica dei Cameron, non tanto per visitare il loro parente, ma invece per appropriarsi delle di lui ricchezze. Insomma dei farabutti, chi più chi meno!
Il narratore è Alan Cameron, uno dei nipoti, uno scrittore alla Peter Kolosimo (alieni, Atlantide, etc..) che sulla strada per Cameron Heights, rimorchia per strada due belle ragazze, Mildred e Dorothy Ely, nipoti di Alger Ely, cognato di Joel, e, in pratica, sue cugine. Insieme arrivano, di sera, al villaggio: non c’è una luce, il vento ulula, e le ragazze che tremano per la paura. Arrivati a casa, si aspetterebbero di essere accolti con gioia, ed invece trovano la dimora chiusa, e quando vi entrano, anche desolatamente vuota, con tutto il mobilio ricoperto da teli. Del padrone neanche l’ombra. La luce non funziona, ai loro richiami nessuno accorre, ed inoltre si sentono rumori, come uno sferragliare di catene. Per dei tipi impressionabili è il massimo. Anzi no, non lo è ancora: il massimo viene raggiunto, quando il terzetto entra nella biblioteca e qui alla luce fioca di una candela trovano una donna distesa sul divano, Evelyn Cameron, la sorella di Joel, ed un essere chino su di lei. Quando si volta, ecco che a malapena riconoscono il vecchio Joel, con un’ espressione orrida, e coperto di ragnatele, quasi fosse un cadavere alzatosi dalla sua bara in una polverosa cripta.
Ben presto arrivano gli altri ospiti. Intanto lui, Joel, si scusa per il suo aspetto, dovuto alla sua discesa nelle cantine allo scopo di riparare il guasto nel sistema elettrico della casa.
Ben presto, alle spalle del vecchio, i parenti si riuniscono per vantare chi più chi meno, le proprie pretese sul patrimonio. Tuttavia proprio Gilbert Cameron, colui che ha dato il via alla riunione, manca.
Il vecchio Joel, dopo aver sistemato sotto l’albero i regali per i parenti (ma definirlo albero di Natale è un’accezione troppo lusinghiera, giacchè è solo il resto rinsecchito, impolverato e pieno di ragnatele, dall’aspetto più lugubre che festoso, dell’ultimo albero di Natale che vide la moglie di Joel ancora viva), va a dormire in una delle stanze sopra il garage. Fatto sta che durante la notte, proprio Alan è richiamato dalle grida dei suoi parenti, e di suo cugino Todd,la pecora nera della famiglia, un nullatenente, in quanto il garage è un immenso rogo. Alan dice addio alla sua automobile, parcheggiata lì; ma soprattutto i parenti danno l’addio al vecchio Cameron, non troppo contriti, anzi il contrario visto che finalmente potrebbero disporre pienamente dei suoi beni, e nello stesso tempo indignati perché gli stessi regali posti dal vecchio sotto l’albero di Natale, altro non erano che scatole vuote: l’ultimo scherzo di pessimo gusto che Joel aveva riservato ai suoi avidi parenti (dopo quello dell’anno prima in cui ad alcuni aveva inviato un assegno in bianco, senza però alcuna firma e quindi carta straccia).
 Il condizionale è d’obbligo però, perché gli incaricati delle indagini, lo Sceriffo Bates ed il giudice (e medico legale) Sam Eckersall, in tutto quel rogo non trovano traccia del cadavere di Joel, tranne che un osso e di una mandibola, che potrebbero essere di origine umana, ma anche no. E così i parenti, tutti felici per quell’inaspettata scomparsa, ora lo sono parecchio di meno, visto che si trovano ad essere sospettati e nel tempo stesso a non poter accampare nulla finchè di Joel non sarà dichiarata almeno la morte presunta.
Nel frattempo Alan, coadiuvato dal cugino, si improvvisa detective, anzi il principale detective è proprio Todd che ispira le  indagini dello Sceriffo desideroso di trarre qualche ragno dal buco della vicenda, così da guadagnare i diecimila dollari promessi da un giornale per l’esclusiva.      
I principali indiziati sono i cugini del Wisconsin, i Waldron, perchè lui, Ely, ha dato l’allarme dell’incendio, pur non potendo dal suo balcone vedere alcunché visto che esso è rivolto in tutt’altra direzione. Ma poi da indagini più accurate, sembrano perdere in attenzioni da parte degli improvvisati investigatori, cui si sono aggiunte le sorelle cugine, Dorothy e Mildred, a discapito invece dei due servitori messicani, gli Oviedo, ritenuti i probabili omicidi, sempre che di delitto si tratti, dallo sceriffo: sarebbero stati loro ad appoggiare sul terreno sottostante alla finestra della camera occupata da Joel, la scala pesante, i cui segni sul terreno sono stati indicati proprio da Alan allo sceriffo nella notte dell’incendio.
Il quartetto, non tralascia neppure l’ipotesi che il vecchio Joel non sia morto, e quindi organizzano un esame accurato ed infruttuoso nell’immensa dimora in cui tutti sono ospitati senza alcun risultato.
Intanto finalmente le indagini sulla scomparsa di Joele sembrano arrivare a risultati concreti: mediante analisi chimiche e biologiche, lo sceriffo e il medico legale sono in grado di affermare che i reperti ossei appartengono ad un essere umano, ma ovviamente solo la comparazione della mandibola e di due denti, con la scheda relativa da parte di un dentista, potrebbe senza ombra di dubbio attribuire quei reperti ossei a Joel oppure no. E neanche a farlo apposta nessuno è in grado di sapere se Joel fosse andato o no da un dentista, e nessuno dei paraggi sa nulla.
Così si può solo vagare a caso. Todd e lo sceriffo organizzano una trappola telefonica: sarà chiamato al telefono ciascun parente, mentre nascosto in un armadio prospiciente all’apparecchio telefonico, Alan sorveglierà il tutto. In sostanza Todd dice che per rivelare chi sia il bugiardo, farà arrivare la macchina della verità. La sola che rimane impressionata è Mildred, che la notte prima ha affermato di aver visto lo spettro di Joel coperto di ragnatele e che ha riportato un grave shock. Proprio Mildred volerà poco dopo dalla finestra della sua camera nel roseto sottostante, sfracellandosi. Suicidio o omicidio?
In quest’atmosfera plumbea ed opprimente, un dentista si fa vivo, inviando una fattura il 27 dicembre. Andati a interrogare costui, il Dottor Garvey si presenta in un bello studio, con mobili nuovi ed una segretaria con tanto di pelliccia: dichiarerà che in effetti Joel era suo paziente e poi ingiuntogli dallo sceriffo di esprimersi sull’origine dei reperti umani, dichiarerà che la mandibola è appartenente a Joel.
Così finalmente i soldi sono svincolati e tutti potrebbero ora goderne. Bisogna solo trovare l’assassino di Mildred (se non si sia suicidata) e di Joel , visto che tra le ceneri è stato trovato quello che sembra un bossolo di argento puro. Chi mai ucciderebbe con proiettili di argento? Solo nelle leggende questo trattamento è riservato ai vampiri, ai negromanti o ai lupi mannari. Una coltre si superstizione e di male si addensa sulla vicenda.
Le domande cui rispondere sono due: se Mildred è stata uccisa, perché lo è stata? E se non è stata uccisa, cioè se si è suicidata (esclusa l’ipotesi della fortuita caduta accidentale), per quale motivo l’avrebbe fatto? Possibile che la paventata minaccia della macchina della verità abbia così impressionato la ragazza da indurla a suicidarsi? Aveva a che fare con l’omicidio di Joel? Oppure è stato l’incontro notturno della figura che lei ha attribuito allo spettro di Joel, a indurla all’insano gesto, sempre che lei si sia uccisa? La tensione  raggiungerà il culmine quando una terza vittima si aggiungerà ai due precedenti: il dentista si schianterà a bordo della sua fiammante Rolls- Royce su una strada.
Il finale è convulso. Si ribalterà giungendo prima all’individuazione di un omicida morale, poi all’attribuzione a lui o ad altri delle due morti in più, ed infine di un omicida reale, diverso dal primo, ed inaspettato. Lieto fine, ma non troppo.
Ottimo romanzo di Stuart Palmer, Omit Flowers si contraddistingue per una trama sempre in bilico, per una nebulosità della situazione che accresce l’incertezza sulla sorte della vittima  (e anche di Gilbert, che continua a mancare) e dei suoi parenti. Ne consegue che l’atmosfera è il principale pregio del romanzo: la sua potenza evocativa viene anche più accresciuta da vecchi espedienti tipici della letteratura gotica (sferragliare di catene, ragnatele, polvere, spettri, buio, cimiteri, notte), già tuttavia essendo molto densa in virtù dell’inconsistenza dell’indagine e delle morti che si succedono, a loro volta dominate dal dubbio che trattasi di omicidio o suicidio.
L’escamotage di un quartetto di investigatori, due effettivi e due aggiunti, nel cui ambito si muove la seconda vittima, aggiunge mordente alla vicenda, soprattutto quando lo stesso Alan viene sospettato di essere l’omicida in virtù del fatto (prima che si arrivi alla scoperta del bossolo di argento) che la sua pistola, una calibro 22, fosse stata riposta nell’auto, andata distrutta, e non fosse stata trovata. In altre parole ricadremmo nel vecchio trucco di Leroux, ampliato da tanti altri scrittori, che cioè il detective fosse anche l’assassino. In questo caso avremmo un doppio incidente, nel caso ciò fosse vero, giacchè Alan è anche il narratore in prima persona, e quindi ricadremmo nella soluzione proposta da Agatha Christie in un suo celebre romanzo.
Ma è davvero lui l’omicida? O altri?
Niente è come sembra in questo romanzo. Nulla. Tutto è destinato a mutarsi, ad essere riportato nella sua giusta prospettiva, quando Todd, che è stato sospettato anche lui dallo sceriffo, scoprirà la verità, e come le morti avvenute sono state solo il verificarsi casuale nell’ambito di un piano che nella sua semplicità mirava a tenere in scacco i vari personaggi del dramma, godendo della loro paura, il cui fautore, finirà con l’essere ucciso a sua volta.
In questa edizione mirabile, la traduzione di Rossana De Michele, anche se non integrale, è molto fluida e ha il pregio di riuscire a conservare la tensione originale concepita dall’autore. Funzionale al testo è anche la bellissima immagine di copertina, che ritrae una giovane donna (Mildred), in preda alle sue paure e angoscie, vicino a quelle che sembrerebbero foglie di un albero di Natale fantasma.
Il romanzo è scritto con verve, ed un umorismo molto acido, tipico di Palmer, presentandosi più che sotto l’aspetto di un romanzo ad enigma, in quello di una commedia nera, direi molto vicina  a certi lavori di Ursula Curtiss; e di un romanzo di suspence, in cui la tensione è massima in più punti del romanzo, avvincendo fino alla fine e riservando due sorprese finali, nel ribaltamento del rapporto omicida-vittima, ed una ancora dopo, in quello del rapporto d’amore tra Dorothy e i due cugini Todd ed Alan. Di quale dei due cugini, la bella Dorothy confesserà di essere innamorata?
Di quello che avrà saputo lasciarla libera di scegliere, pensando che l’altro valesse più di lui.
Ma la scelta d’amore è funzionale anche ad un’altra ragione, che toccherà al lettore scoprire e che sarà rivelata negli ultimi righi dell’apologo finale.
Pietro De Palma

martedì 27 dicembre 2016

Bill Pronzini : I Cospiratori (Schemers, 2009) – trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N. 3069 dell’ 8 novembre 2012


Bill Pronzini stupisce sempre.
Tempo fa leggevo su un sito americano, uno dire una cosa che mi sono accorto, col passar del tempo, di condividere sostanzialmente: leggere un romanzo di Pronzini fa sentire bene. E’ come un appuntamento da lungo sognato: ti apparti, ti siedi in poltrona o stai dovunque tu voglia, ti rilassi, metti un po’ di musica come sottofondo, e..attacchi un Pronzini. Che ti estrania dal mondo circostante, ti immerge in una storia.
Bill Pronzini non ha doti particolari, non ha soluzioni geniali (anche se la Camera Chiusa qui presentata non è affatto male!), non ha plot immaginifici alla Carr tanto per intenderci, né abduzioni alla Ellery Queen per straordinario livello di difficoltà. No. Pronzini ha altro, ha qualcosa di raro: sa scrivere, e affascinare con le sue storie. Semplici, ma scritte meravigliosamente bene, con sfondi umani estremamente realistici e slanci appassionati.
Questa volta si cimenta con due storie diverse, inserite nel medesimo romanzo. Le due storie non hanno punti in comune tra loro, per esempio come in La porta chiusa di Peer & Wahloo, e riguardano due trame completamente diverse, e per genere, e per sviluppo narrativo. Per cui mi sembrerebbe più legittimo parlare di due lunghi racconti riuniti in un testo unico.
Qui le indagini riguardano due fatti completamente diversi: uno psicopatico che nutre un odio profondo verso un dentista defunto, Lloyd Henderson e i suoi due figli, Cliff e Damon; ed un ricco collezionista di Gialli cui sono stati sottratti 8 volumi rarissimi, alcuni anche firmati dagli autori, da una biblioteca protetta dai sistemi di sicurezza più sofisticati, con le finestre chiuse e sbarrate ed una porta con due serrature di sicurezza uguali, la cui chiave è solo in suo possesso: si potrebbe pensare che i volumi, assicurati per 500.000 dollari abbiano stimolato l’avidità o il bisogno del collezionista, se non si venisse a conoscere che l’ammontare delle sue ricchezze fanno arrossire di vergogna quei miseri (per lui!) 500.000 dollari.
Dello psicopatico, un elemento schizoide con manie compulsive, se ne occupa Jake Runyon, detto altrove “Il Segugio”, collaboratore di Tamara e Bill, tra loro soci; del mistero da Camera Chiusa invece, Bill (più conosciuto col suo antico appellativo, “Senza Nome”).
Il romanzo si apre con lo psicopatico che attenta al monumento funerario di Henderson: il dentista è stato cremato. Lo psicopatico non trova di meglio che versare acido cloridrico sul granito, sul bronzo e anche sull’urna contenenti le ceneri del defunto, dopo averla disseppellita. Il tutto corredato da foto, scattate per immortalare lo sfregio e sputi che lo stesso riserva al cenotaffio.
Ben presto però riserva le sue attenzioni ai due figli del dentista: Cliff e Damon. Tutti e due sposati e con figli. Bill ha fondato un’Agenzia che è molto stimata. Morale della favola è che gli  Henderson  e anche Pollexfen si rivolgono a lui, tramite Barney Rivera, un assicuratore, che è stato amico di Bill nel lontano passato, ma da quando ha sparso veleno sul conto della di lui moglie, non è stato più interpellato né tantomeno Bill ha accettato sue proposte di lavoro: ora si fa vivo, e a lui fanno capo tutti e due i casi.
Barney ha fatto il nome di Bill ai suoi assicurati, che capisce che si tratta di una partita pericolosa: in ballo c’è la sua credibilità. Barney aspira a vendicarsi e lui intende non dargliela vinta. Ecco perchè deve venire a capo della faccenda e capire: chi sia il misterioso psicopatico, impedendo che possa attentare alle vite dei due figli e dei loro familiari; e ritrovare i misteriosi 8 volumi gialli preziosissimi.
Se Bill lavora da solo, Runyon lavora con l’ausilio di Tamara. Runyon è un ex poliziotto, ed è un tipo estremamente chiuso, soprattutto dopo la morte della seconda moglie per tumore, e per i cattivi rapporti col figlio di primo letto; nonostante ciò si è avvicinato ad un’altra donna, Bryn Darby, col volto sfigurato da un’emi paresi provocata da un ictus. Tamara a sua volta è “in affair” come dicono in America con un certo Lucas Zeller, uno che “a letto è una cannonata”: per il momento si incontrano, cenano e scopano. Un’unione basata sul sesso, Ma soddisfacente per entrambi. Bill infine, dopo i patemi dell’operazione per tumore di Kerry, ha ritrovato una certa stabilità nel suo rapporto a tre, con la figlia Emily. Questi personaggi, sostanzialmente giocano le loro storie, che sono come tante cerniere che legano le varie sezioni della trama, donando ai due gruppi, fortemente drammatici, una leggerezza vaporosa, e sketch                     profondamente umani, ora allegri ora tristi.
Dall’altra parte, i libri non si trovano, il collezionista è furente, e Nameless capisce che deve cercare il bandolo della matassa indagando su coloro che sono più vicini a Pollexfen. In sostanza ben presto capisce che gli unici che potessero avere una qualche chance di rubare gli otto volumi sono: la segretaria del collezionista, il cognato, e la moglie. Solo che la segretaria viene esclusa a priori dallo stesso Pollexfen, perché non avrebbe proprio cosa farsene dei volumi, non avendo la minima conoscenza della materia, mentre i due fratelli, moglie e cognato, qualche possibilità in più l’avrebbero avuta: la prima non fa altro che bere smodatamente, dedicarsi allo shopping e collezionare amanti (visto che il marito è impotente e il viagra gli fa solo il solletico, come lei stessa ammette ad un certo punto): l’ultimo è il suo legale, Paul Disantis; il cognato, invece, che si accompagna ad una cantante, naviga nell’incertezza finanziaria: si occupa di promozioni di concerti, iniziative che non sempre finiscono nel migliore dei modi, come quando per esempio ha fatto sborsare al cognato 100.000 dollari per finanziargli un’operazione commerciale disastrosa. I due fratelli odiano Pollexfen, ricambiati a dovere. Solo che Bill non capisce come e perché Pollexfen non butti fuori da casa sua il cognato parassita, pur avendo tutte le possibilità per farlo, e quindi subdora che sotto sotto ci sia un ricatto: segno che il vecchio non è pulito come lui fa credere che sia. Fatto sta che più l’indagine va avanti, più il cerchio si stringe, e i colpevoli si rimandano le accuse l’un l’altro, per cui diventa assai difficile capire chi stia prendendo per il sedere Bill. Finchè…
Finchè un giorno non avviene il fattaccio. Bill decide di ritornare ad investigare, ed interrogare di nuovo i tre: quel giorno il vecchio è ad un’asta di libri e quindi promette di essere a casa intorno alle 16. Quando Bill arriva, lui non è ancora arrivato, ma gli va incontro la sua segretaria. Fuori  sono parcheggiate due auto, una Porsche ed una Jaguar, quindi dovrebbero esserci sia la sorella che il cognato di Pollexfen, che però in casa non si vedono.
Frattanto è arrivato il vecchio. Tutto allarmato, capisce che l’unico posto dove possono essere è la biblioteca, che però è il posto più inaccessibile della casa, visto che l’unica chiave per accedervi è la sua. Purtuttavia, qualcuno ha sottratto gli 8 volumi rarissimi, quindi il sospetto dei tre è che qualcuno abbia trovato il modo di entrarvi. Bill si slancia verso la biblioteca, mentre si sente un colpo di arma da fuoco. La porta della biblioteca è chiusa, ma Bill, con la chiave in possesso del vecchio, riesce ad aprirla, in tempo per sentire la puzza e il fumo provocati dalla polvere da sparo e per trovarsi davanti ad una scena stomachevole: Jeremy Cullrane si è sparato in bocca, col vecchio fucile calibro 12 che si trovava sopra al camino. Inutile dire che mezza faccia e cranio sono stati spappolati, e sangue misto ad osso e cervello sono stati scaraventati verso il camino, imbrattando di sangue e materia cerebrale alcune sovraccoperte di libri rari. Il cadavere di Jeremy è per terra con la testa ( o quel che ne rimane) appoggiata al camino, mentre la sorella è distesa lì vicino con gli occhi roteanti e non capace di connettere; sul divano 8 altri volumi rari, tolti dagli scaffali e pronti probabilmente per “volare via”, dei bicchieri e un residuo di liquore e Clonazepam, una benzodiazepina usata anche contro l’epilessia per i suoi effetti miorilassanti: quindi in sostanza un tranquillante.
Brenda si sente male, la sorella che sta ritornando in sé non sa spiegare nulla di quello che sia accaduto, mentre il marito dice di averli lasciati lì alle 13 dopo aver bevuto con loro.
Due sono le possibili ipotesi sull’accaduto: che i due abbiano litigato (forse per altri romanzi da “far sparire”) e o la sorella abbia ammazzato il fratello che Jeremy si sia suicidato. Non c’è altro da pensare, perché se qualcuno dovesse pensare ad un piano perfetto di Pollexfen, per far fuori insieme cognato ricattatore e moglie fedifraga, dovrebbe anche riflettere sul fatto che il vecchio, nel momento in cui avveniva la morte, in una stanza sbarrata dall’interno, era fuori assieme alla segretaria e a Bill.
Intanto Jake Runyon è sulle tracce dello psicopatico. Interrogando la madre di Cliff e Damon Henderson, viene a sapere che il marito non era uno stinco di santo come i figli lo hanno sempre ritenuto: tradiva la moglie a gogò, ed era giunto persino ad incontrarsi alla baita di caccia, dove si incontrava coi suoi amici, con una delle sue donne. Questa, si era persino presentata a casa di Henderson, moglie presente, ed era stata scacciata in malo modo; in seguito a ciò la signora Henderson aveva lasciato il marito, ma quest’ultimo aveva fatto ricadere la colpa dell’abbandono su di lei, privandola dell’amore dei figli. Scopre di lì a poco che la donna, Jenny Devries, aveva avuto un figlio, Tucker, che era stato riconosciuto dal marito Anthony Noakes. Dopo il divorzio con Noakes, la donna era stata presso sua zia, assieme al figlio. Poi nel 1988, Jenny era stata strangolata e abbandonata in un bosco dove i resti del suo corpo dilaniati dagli animali erano stati trovati da cacciatori. Il figlio di Jenny e presumibilmente di Lloyd, Tucker era poi vissuto con la zia sino alla morte di quella. Col tempo aveva assunto delle manie compulsive e schizoidi: riteneva responsabile della morte della madre proprio Lloyd (che accusava di averla strangolata per farla tacere) e non potendosi vendicare direttamente, voleva farlo per interposta persona, colpendone i figli.
A questo punto la caccia è aperta: Runyon, con l’aiuto di Tamara, individua la casa di quello, viene a sapere che era stato in manicomio, che era un fissato di fotografia (aveva lavorato in un negozio di macchine fotografiche da dove aveva rubato una macchina fotografica digitale); in casa trova una collezione di foto con donne nude, fotografate nella loro intimità, e vari flaconi di prodotti chimici per lo sviluppo delle foto, ma anche uno di acido cloridrico; va in giro con uno scassato furgone bianco. Runyon dovrà evitare che Tucker attenti alla vita degli Henderson e nello stesso tempo eliminarne la pericolosità.
Nel frattempo Bill si occuperà di Pollexfen e dei suoi libri: risolverà la Camera Chiusa, trovando anche i libri ed inchiodando l’assassino alle sue responsabilità e nello stesso tempo salvando la vita ad Angelina, moglie di Gregory Pollexfen, accusata della morte del fratello. Come avrà fatto l’omicida a uccidere Jeremy Cullrane? E a far sparire i libri?
Bill riuscirà a dare una risposta ai tanti interrogativi, dopo che si scoprirà che il cocktail avevano bevuto in biblioteca era addizionato ad un potente barbiturico, e dopo soprattutto che ad aprirgli la mente sarà stata la figlia Emily, con un pungente commento. La Camera Chiusa è risolta con brillantezza (anche se non vi sono prove effettive ma solo indizi che essa possa essere stata ideata così: tant’è vero che l’assassino viene presto rilasciato su cauzione, anche se il giudizio divino lo colpisce sotto forma di infarto: un male metafisico di radici agostiniane) anche se il colpevole è facilmente identificabile, parecchio prima.
Nonostante però, quindi, che i due colpevoli non siano così impossibili da acciuffare, il bellissimo romanzo di Pronzini, si segnala per un ritmo veramente avvincente, in grado di coinvolgere il lettore avviluppandolo come tra le spire di un serpente costrittore, e lasciandolo andar via solo a conclusione. Le due storie sono legate, come ho detto precedentemente, dai vari episodi di vita intima dei protagonisti della storia: Bill, Jake e Tamara.
Alle due storie Pronzini conferisce uguale importanza ed uguale lunghezza; anzi, a me è parsa maggiore quella affidata a Runyon. Come pure anche i flashback di vita vissuta, di Jake, sono più sviluppati di quanto accada per Bill, come se Pronzini , almeno in questa storia (non so non avendone lette altre ultime), volesse riservare proprio a Runyon il massimo dell’attenzione: del resto anche le sue vicende intime sono più cariche di risvolti amari e stringenti, di quanto non appaiano quelli di Bill.
Da un certo punto di vista la vicenda di Jake e Bryn, è la più forte e la più drammatica: lui risente della morte della moglie, lei dell’abbandono del marito; lui si è chiuso nella sua solitudine, lei pure sfigurata dall’ictus; il loro incontro piano piano, con dolcezza, li fa rifiorire e ritornare alla vita, la più normale. Bellissima la scena di sesso, molto molto leggera ed insieme toccante. Si sente tutta la presenza di una donna: sono sicuro che la moglie di Pronzini, Marcia Muller, nota scrittrice americana di polizieschi e pulp, deve aver dato qualcosa al marito, almeno in suggerimenti: un uomo non facilmente riesce a sondare l’universalità dell’Io femminile. Ecco perché penso ad un intervento, almeno solo in sede di consiglio, della moglie, notissima scrittrice di polizieschi anche lei.
Comunque sia, se l’inizio del romanzo è tutto per il caso di Jake, la fine vede Bill sotto la luce dei riflettori, quando dà  lo smacco all’odiato liquidatore della Great Western, Barney Rivera, strappandogli i 5000 dollari di ricompensa per aver risolto il caso.
E Tamara?
Con Tamara, in sostanza Bill Pronzini, dà un nuovo appuntamento ai suoi lettori: per sapere se Lucas, durante il loro ultimo rapporto sessuale, le abbia trasmesso qualche brutta malattia venerea, (non avendo usato il profilattico) oppure no, bisognerà leggere il romanzo successivo a questo.
Lucas sembrava la persona giusta: si è rivelato invece un pericolo per Tamara.
Vuoi che Bill Pronzini abbia anche lui svolto opera di pubblicità dei vantaggi del profilattico, con questo messaggio subliminale inserito nel romanzo? Non so. Ma in un’America già colpita sensibilmente dal virus HiV, e poi da una diffusione massiccia di parecchie affezioni veneree, nell’America delle libertà e dei proclami anti-aborto, anche Bill può aver voluto dire la sua, lasciando  la sua impronta, lievemente e intelligentemente, come solo lui sa fare.
Ah, dimenticavo : brillante e fluida traduzione di Mauro Boncompagni.
Pietro De Palma