giovedì 29 novembre 2018

Philip MacDonald : Fine di un sogno (Dream No More, 1956) - Edgar Award


Mi ha particolarmente colpito un racconto lessi una domenica mattina, mentre anni fa facevo compagnia alla mia anziana madre.
A casa dei miei ho una ricchissima collezione oltre che di romanzi gialli, anche di stagioni mondadoriane, per cui, quando mi trovo lì e voglio ingannare il tempo, sovente ne prendo una e scelgo a caso un racconto. Il racconto preso in esame è stato uno di Philip MacDonald : “Fine di un sogno”, Dream no more, su Estate Gialla 1968.
Dico subito che eccezionalmente, sviscererò i due racconti dall’inizio alla fine, perché trattasi di una riflessione testuale, e quindi rivelerò la fine. Quindi nel caso ci sia chi non voglia saperla prima di aver letto i racconti (sempre che possegga le fonti, già cosa alquanto difficile) è pregato di non leggere oltre.
Il racconto mi ha spiazzato non poco. E non a caso: nel 1956 vinse l'Edgard Allan Poe per the Best Short Story.

John Garroway e Gavin Rhodes si stanno dirigendo alla villa sul mare di proprietà dei Garroway: nella splendida villa a picco sul mare, con cui comunica per tramite di una scala ripida tagliata anche nella roccia e che ha una piccola spiaggia privata, vive la madre di John. Sola, con una donna mulatta che le fa da governante, dopo la morte del padre di John.
Arrivati lì, ben presto si instaura una tensione palpabile tra la madre di John e Gavin, professore di inglese di John, e laureato in filosofia, che pare avere sull’amico un certo potere: lui sa tutto, è un conversatore brillante e riesce persino in un momento a diventare amicone del cane dei Garroway, un Rottweiler, tanto che quello si dimentica subito dei padroni per stare con lui; la padrona di casa invece inspiegabilmente gli è ostile, tanto da divenire persino villana, cosa che non è da lei. Rimbrottata dal figlio, si scusa con l’ospite, invitato anche da lei ora a rimanere presso di loro.
I giorni trascorrono incantevoli a El Morro Beach, in un luogo di sogno e le vecchie acredini sembrano sorpassate. Un bel giorno qualcosa incrina questo sogno: John ha uno spaventoso incidente con la vecchia auto della madre e per poco non resta ucciso. Sia la madre di John che Gavin rimangono estremamente colpiti dalla dinamica. Comunque sia, pare che il rapporto tra Gavin e la madre di John, più o meno della stessa età, 50 anni lei e 44 lui, sia destinato a calmarsi: lui ha fatto in modo che John uscisse con Betty Lou una ragazza innamoratissima di lui e poi qualche giorno dopo, uscendo e andando in città, ha comprato dei regali per i due. Ha comprato però anche dell’altro: una capsula gialla, e dei cristalli da un emporio di articoli per il giardino e la casa. Un po’ del contenuto lo metterà poi nella capsula sigillandola. La capsula è dello stesso colore e forma di alcune capsule di vitamine che assume la madre di John. Tutto il resto del contenuto viene bruciato da Gavin nell’inceneritore. Il fine è chiaro: avvelenare la madre. Coglie l’occasione qualche tempo dopo quando “casualmente” fa rovesciare il contenuto del flacone delle capsule, sostituendo la capsula venefica con una normale, che poi distrugge. A questo punto è chiaro che anche l’incidente con l’auto è stato da lui premeditato, tramite un sabotaggio dei freni. Cosa può avere Gavin contro John e contro la madre?
Fatto sta che alla morte della signora Garroway Gavin non assiste, perché scendendo senza pensieri la scala che dalla villa conduce al mare, inciampa e si spezza l’osso del collo. Casualità? Nient’affatto! La madre di John, accorsa sul luogo della caduta, prima di chiamare il figlio dopo essersi accertata della morte di Gavin, toglie il fil di ferro che ha lasciato teso a livello del gradino per poi occultarlo nella cesta del giardino assieme alle cesoie.
Poi di notte, dopo che il cadavere è stato rimosso, dopo che Mollie e John sono aletto sotto l’azione di un sedativo prescritto dal medico di famiglia, la madre va in cucina e nel lavabo, acceso il distruttore dei rifiuti, versa il contenuto del flacone e attende fino a quando l’ultima capsula è ridotta in polvere. Poi fa scorrere l’acqua e va via.
Dicevo che il racconto mi ha spiazzato non poco.
Innanzitutto un contrasto fortissimo tra l’idillio di un luogo  da sogno, El Morro Beach (località che compare anche in un romanzo) e il contrasto sotterraneo ma violentissimo tra la Signora Garroway e Gavin Rhodes: oggetto del contendere è il figlio, John. Vari i sentimenti che si oppongono: l’amore e la gelosia. La madre è gelosa del rapporto tra Gavin e John e teme che la influenza psicologica fortissima, una sorta di plagio, che Gavin ha su John, possa avere come contraccolpo la sua eliminazione e quella di Betty Lou, la fidanzata di John. John  rimprovera alla madre l’eccessivo contrasto nei confronti dell’amico, e l’amico ha nei confronti della madre quasi identici motivi, resi più violenti dalla volontà di divenire lui padrone di quel posto, eliminando fisicamente la donna che si oppone al suo rapporto col figlio, ed ereditando il tutto.
Ma alla base di tutto cosa c’è? Perché si comporta così Gavin e perché la madre di John non lo sopporta ? Alla prima lettura non l’ho capito, anzi posso dire che il mio senso di disorientamento è stato fortissimo perché ad un certo punto non si riesce proprio capire perché sia un racconto poliziesco; poi improvvisamente assistiamo ad una spirale di violenze e ad atteggiamenti che apparentemente non avrebbero una spiegazione. Spiegazione che si trova, solo rileggendo il brano, stando attenti non a quello che fanno due galli del pollaio, ma a quello che dice la gallina, cioè John. La sua difesa appassionata di Gavin, i suoi commenti estatici (per esempio…“Che uomo straordinario!”) che noi aspetteremmo da una donna, ci fanno comprendere l’ambivalenza del loro rapporto, che ha connotati ambiguamente omosessuali. Una volta che si capisce questo, si è capito tutto. L’autore però non dice mai espressamente che si tratta di un rapporto omosessuale, semmai attraverso il suo stile letterario interviene qua e là a insinuare con atteggiamenti psicologici l’esistenza di un quid da non sottovalutare. Che a sua volta spiega anche l’atteggiamento protezionistico della madre.
In fin dei conti i due elementi forti sono Gavin e la madre e in mezzo c’è il figlio ventenne, cresciuto senza padre. Philip MacDonald senza mai esaltare l’atteggiamento della madre, tuttavia da a Gavin una connotazione negativa: è lui che tenta di uccidere la donna riuscendo quasi ad uccidere John e quando capisce tragicamente di aver sbagliato la sua reazione fa capire che a John ci tiene veramente, anche se a lui interessa veramente che il potere che lui manifesta nei confronti di John non venga affievolito dall’intervento di altri. Ora  che si tratti di atteggiamento omosessuale o no (conversando con Mauro Boncompagni lui mi ha confermato che i sottili indizi di cui parlava lui in uno Speciale circa tredici anni fa, andavano in questa direzione), il corruttore, l’istigatore che istiga facendo in modo che ad agire sia sempre l’altro, è sempre lui. La madre agisce negativamente certo, ma pur sempre si potrebbe associare al suo atteggiamento quello di una legittima difesa: legittima difesa dell’identità psicologica del figlio (debole ed incapace di capire) e legittima difesa della sua vita. Anche se un ulteriore aspetto dell’atteggiamento protezionistico della madre si potrebbe spiegare con la reazione a chi ti voglia portare via da te, il tuo unico bene: non a caso in un inciso all’inizio del racconto lei rimprovera al figlio di averle tolto tutte le speranze che lei coltivava da tempo di poter avere il figlio tutto per sé. E del resto non si potrebbe capire, se non si prendesse in esame il rapporto omosessuale, in cui Gavin è parte attiva e John parte passiva, il perché Gavin ambisca, eliminando la madre di John, a El Morro Beach.
Nell’ambito dello scontro tra i due personaggi dominanti (Gavin che non vuole rinunciare alla sudditanza psicologica di John e alla sua vicinanza, la madre che non vuole rinunciare alla sua importanza nella vita affettiva del figlio), in un punto però MacDonald tende ad attribuire all’uomo una sincerità d’intenti quasi provocatoria, sarcastica direi, che la donna non esprime, quando lui afferma che la fatale credenza per cui gli individui che sono simpatici ai bambini (John) e ai cani (Gill) siano individui schietti e fidati, non elimina la possibilità che lui abbia intenzione magari di compiere un reato: qualcosa più su vasta scala, rispetto a rubare l’argenteria.
Un’altra cosa insinua il sospetto che il rapporto a due sia di natura omosessuale: il fatto che non vi siano altri personaggi femminili nella storia, oltre alla madre. Betty Lou fugacemente è ricordata, ma non prende parte agli eventi, e una sera esce con John solo perché Gavin gli ha detto di farlo. E se Gavin non è legato a lui da un rapporto omosessuale, è tuttavia legato da un rapporto dominante-dominato.
A questo punto è chiaro che l’indizio sottilissimo che via via si manifesta, pur restando sempre alquanto impalpabile, vista la scabrosità soprattutto nei tempi in cui viene ambientato, gli anni ’50, è l’omosessualità maschile, di cui in questi due racconti si esplora soprattutto il rapporto di sudditanza psicologica, di dominazione, esistente tra i due soggetti. Gavin domina psicologicamente l’amico più fragile: è lui l’individuo dominante nella coppia mentre l’altro è il soggetto passivo, più fragile. Il trasporto con cui ne parla alla madre, insinua subito in lei (il famoso sesto senso femminile) il sospetto che i due più che essere amici siano amanti. E quindi la donna decide di rompere quel rapporto perché sa che il figlio ama anche la ragazza Betty Lou. Così se  Gavin è probabilmente un omosessuale convinto, John è un bisex, oppure è solo attratto dalla forza mascolina. Gavin vuole evitare che la parte etero abbia il sopravvento in John e perciò deve eliminare la causa, cioè deve eliminare la madre di John: così facendo, unisce ad un desiderio che è quello di possesso del giovane, anche quello del luogo, cioè l’interesse economico. Che non è detto che non sia secondario al primo.
Solo che la madre di John ha capito tutto in occasione dell’incidente dell’auto, e decide di rispondere colpo a colpo a Gavin: capisce cioè di essere stata la vittima predestinata salva per miracolo e quindi passa all’azione, uccidendolo in maniera subdola.
Racconto veramente mirabile nella resa e nella scrittura, colpisce come un pugno nello stomaco, soprattutto per la freddezza della donna, che riesce a simulare più di quanto abbia fatto il suo antagonista, e a mettere in piedi un delitto perfetto, mascherato da incidente.

Pietro De Palma

martedì 27 novembre 2018

Agatha Christie : La sagra del delitto (Dead Man’s Folly, 1956) – trad. Paola Franceschini – Oscar Gialli 47, Mondadori, 1979

Su Agatha Christie non c’è nulla da dire; semmai lo possono i suoi romanzi, uno diverso dall’altro.
Quelli che mi restano più impressi, devo riconoscerlo, sono quelli che trattano di veleni (Se morisse mio marito, Tragedia in tre atti, Due mesi dopo, La parola alla difesa), ma uno, fra tutti, è esemplare per come è impostato: La sagra del delitto .Qui infatti, mentre in altri la struttura del plot è fissa, perché molto spesso si è partiti da uno spunto di cronaca servito per imbastire il romanzo, qui è libera. Come dice giustamente Stefano Benvenuti nella prefazione al romanzo (lo ritengo il più grande critico che abbia avuto la Mondadori), “il delitto in origine è una finzione letteraria che poi si avvera, seppure in forma di finzione letteraria, più ampia, quella del romanzo”. In sostanza qui Agatha Christie può spaziare in lungo e in largo creando un romanzo a sé, giocando coi ruoli e le testimonianze: ne scaturisce quello che ritengo un romanzo perfetto, nonostante parecchi lo inseriscano nella produzione secondaria. Forse perché negli ultimi suoi testi, sovente Agatha Christie sente la necessità di affacciarsi nel romanzo attraverso un suo avatar, la scrittrice di gialli Ariadne Oliver, presente anche qui, quasi a sottolineare un approssimarsi della sua fine e la volontà di lasciare un segno. Agatha Christie quando scrisse questo romanzo, nel 1956, aveva sessant’anni. Non è quindi un romanzo della sua produzione esplosiva, ma testimonia quanto, anche sessantenne, la Regina del Giallo non avesse perduto per nulla lo scettro, anzi.
Comunque sia, la genesi fu tormentata. Infatti anche in questo caso, il romanzo è l’espansione di un racconto, o meglio di un romanzo breve: The Greenshore Folly (datato 1954). I proventi della pubblicazione di tale lavoro sarebbero dovuti essere impiegati, per volontà della scrittrice, nella realizzazione delle nuove vetrate della Churston  Ferrers Church, la chiesa che frequentava Agatha Christie. Tuttavia, per l’impossibilità che un tale lavoro potesse essere facilmente pubblicato in magazine, per saltare l’ostacolo, Agatha  Christie realizzò un racconto ex novo The Greenshaw Folly mentre il vecchio fu usato come canovaccio per un romanzo, appunto Dead man’s folly (vd. pag. 147 di  John Curran: I Quaderni Segreti di Agatha Christie, Oscar Mondadori, 2010).
Il romanzo nasce – come introduce Benvenuti – da una finzione, da un gioco: a Nasse House, vasta proprietà di Nassecombe, di proprietà di Sir George Stubbs, si è voluto fare una festa. Inizialmente sarebbe dovuta essere una Caccia al tesoro, ma poi qualcuno ha pensato ad una variazione più elettrizzante: una caccia all’assassino. In sostanza un cluedo, non giocato in una casa, bensì in una proprietà, all’aperto. Tutto qui niente di male. E soprattutto come mai Poirot vi capita? Non casualmente. E’ Ariadne Oliver, famosa scrittrice di gialli, a chiamarlo, perché ha avuto l’impressione di essere stata manipolata: è a lei che si sono rivolti gli organizzatori per creare questa originale caccia all’assassino, e lei aveva imbastito gli indizi, l’assassino e la vittima. Solo che qualcuno, trincerandosi dietro persone insospettabili, ha fatto modificare delle cose, che poi a mente fredda, hanno dato modo alla scrittrice di pensare di essere stata usata “per scopi loschi”: Ariadne in sostanza ha paura, una paura che scaturisce da una sensazione, che qualcuno al cadavere falso ne voglia sostituire uno vero. Ecco il perché della presenza di Poirot, annunciato dalla Oliver, da tutti accolto bene, a cui almeno sulla carta viene offerta, come si fa ad una personalità, la mansione di consegnare il premio al vincitore. In realtà lui, comincia a parlare, a far parlare, perché proprio dalle chiacchiere spera di ricavare, come sempre, degli utili indizi, delle tracce da seguire.
In realtà accumula solo degli interrogativi cui al momento non sa dare risposta: perché la vecchia Amy Folliat (i Folliat erano stati i proprietari di Nasse House dall’epoca della Regina Elisabetta I), che ora vive in affitto nella vecchia portineria, dopo aver venduto la proprietà a Sir George Stubbs, dopo aver perduto i figli in guerra e suo marito successivamente, in due occasioni dice a Poirot, prima che “Tante cose sono dolorose, Monsieur Poirot, e poi che “E’ un gran brutto mondo, Monsieur Poirot. E c’è al mondo gente ben cattiva. Probabilmente lo sa anche lei”? Perchè  il vecchio del molo (nella proprietà c’è una darsena provvista di un piccolo molo, ed è proprio nella darsena che dovrà essere trovato il cadavere), Murdle, quando Poirot riporta l’ultima asserzione della vecchia Folliat,  guardandolo stupefatto, riconosce che l’altro deve aver scoperto qualcosa? In realtà Poirot sa di non aver scoperto nulla e si chiede come mai gli altri pensino il contrario.
Perché Lady Stubbs, una ragazza orfana un po’ ritardata di cui si è presa cura la vecchia Folliat, che poi ha convinto Sir Stubbs a sposarla, aprendo una lettera si mostra sorpresa e anche spaventata dall’arrivo di un suo lontano cugino, Etienne de Sousa, che arriverà nel pomeriggio a bordo del suo panfilo? Perché dice a Poirot che Etienne “..è cattivo. E’ sempre stato cattivo. Mi fa paura. Fa cose cattive”? Quali sono queste cose cattive? Qualcuno dirà più in là, Stubbs, il marito, che “ammazzava le persone”, sulla base di indiscrezioni avute dalla moglie. Perché Marlene Tucker, la vittima designata, una ragazza scout figlia di gente di modesta condizione, presentata a Poirot, lamenta di non essere stata prescelta per essere pugnalata ma strangolata, e chiede all’investigatore belga se ne abbia “..visti tanti di assassinii”?
In realtà Ariadne aveva concepito ben altra vittima: sarebbe dovuta essere Sally Legge, la moglie di Alec Legge, ad esserlo. I due che sono degli sposini venuti ad abitare sei mesi prima a Nassecombe, hanno conquistato tutti, soprattutto lei, mentre lui è schivo e misantropo. Ariadne aveva pensato a lei come vittima, ma poi siccome la ragazza aveva stupito tutti con la sua lettura delle carte, qualcuno aveva pensato ad altra vittima, per poi ancora una volta ripiegare su altra persona, perché lei, Sally, avrebbe dovuto impersonare Zuleika, una maga lettrice di carte che predice il futuro. E lo stesso luogo di rinvenimento del cadavere, un capanno per attrezzi di lavoro, era stato cambiato nella vecchia darsena, a cui si accedeva per mezzo di una chiave Yale in possesso di sole tre persone: Ariadne, Stubbs (in un cassetto dello studio), la persona che arriva a trovarla nascosta tra le ortensie nel viottolo (ma al momento del ritrovamento del cadavere di Marlene, è ancora nascosta laddove l’aveva nascosta Ariadne Oliver).
Fatto sta che lo spettacolo comincia e tutto sembra andare nel verso giusto; e Poirot si sente sempre più di troppo, si sente vecchio, per essere stato chiamato da una vecchia amica a prevenire qualcosa che invece non sa se e quando accadrà, anche perché dell’ambiente non ha ancora capito nulla. Sembra un gioco di società come tanti altri: vi sono a corollario pesche di beneficenza, gare di lancio delle noci di cocco, vendita di confetture e marmellate, gare di birilli. Ma accadono anche delle cose strane: intanto arriva Etienne, che vuole riabbracciare la cugina, ma proprio lei non si trova, mentre avrebbe dovuto presiedere una manifestazione di bambini; Zuleika, cioè Sally legge, invece di stare nella tenda a predire il futuro scompare (dice di essere andata a prendere il tè ma è sbugiardata da una testimonianza di Amy Folliat) e guarda caso uno dei ciondolini d’oro che pendono dal suo braccialetto, verrà scoperto da Poirot in una fessura della piattaforma di calcestruzzo della Follia, una sorta di padiglione nel giardino: perché era andata lì e con chi si era incontrata ? Amanda Brewis, la governante, segretamente innamorata di Stubbs, che neanche si accorge della sua presenza, dice di essere stata incaricata di portare a Marlene dei pasticcini e una bibita, ma a tutti pare una cosa strana perché Lady Stubbs non si è mai interessata agli altri ma solo a se stessa. E’ vero che è andata lì?
Tanti interrogativi che si porranno poi ampliati a Poirot dopo che lui e Ariadne, camminando insieme, si saranno diretti alla darsena per salutare Marlene, e qui, invece di trovare la  ragazza in attesa di essere uccisa per finta, troveranno la ragazza uccisa per davvero. Per di più strangolata.
Ecco appressarsi e concretizzarsi le paure di Ariadne: qualcuno, approfittando della sua impostazione, ha ucciso per davvero la ragazza; qualcuno che ha usato la chiave Yale per aprire la porta, oppure qualcuno che si è fatto aprire la porta, quindi pur sempre qualcuno che la ragazza conosceva, uno del suo entourage; qualcuno che dopo aver strangolato la ragazza l’ha messa nella posizione in cui sarebbe dovuta essere per gioco!
Figurarsi Poirot! Non solo non ha capito gli indizi ma non è riuscito neanche a capire chi potesse essere la vittima reale! Però pervicacemente si mette ad investigare,
Intanto Lady Stubbs proprio non vuole rientrare: è scomparsa. Tutti la cercano, ma nessuno l’ha vista più da quando è stata vista camminare sul prato con delle scarpe dal tacco altissimo, un gran cappello e un abito appariscente: dove mai sarebbe potuta andare con un simile vestiario? Eppure nessuna l’ha vista uscire! Deve essere lì a Nasse House, da qualche parte. Il marito, Stubbs, è fuori di sé; la moglie del deputato di Nassecombe, Masterton, vorrebbe che la polizia usasse i segugi. Insomma tutti cominciano a fare delle supposizioni, che più passa il tempo, più si avvicinano all’inevitabile: anche Lady Stubbs è stata uccisa. E a questo punto acquisterebbe un senso anche la morte della ragazza: può essere stata uccisa perché aveva visto o sentito qualcosa che non avrebbe dovuto vedere o sentire? Quindi la morte della ragazza avrebbe seguito quella di Lady Stubbs.
Passano i giorni, le settimane, e Lady Stubbs non si trova, cioè non si trova il suo cadavere. Poirot non si da vinto, e prosegue la sua caccia, sicuro che se volesse, la vecchia Folliat potrebbe fornire più di un indizio alle indagini, perché lei sa benissimo che Lady Hattle Stubbs è stata uccisa.  O almeno lo pensa. Ma la vecchia non parla. Fino a quando Poirot non saprà di un terzo omicidio, la morte creduta incidente del vecchio barcaiolo Murdle, e lo stesso era il nonno di Marlene. E capirà tante cose: perché mancava dalla vecchia darsena un fumetto, di quelli che leggeva Marlene, con annotato in calce un altro indizio, che diceva di guardare dentro un sacco; perché Marlene aveva ricevuto tanti regali e perché lo stesso Murdle aveva dei soldi di cui nessuno riusciva a spiegarsi l’origine; perché Lady Stubbs non voleva incontrare il cugino Etienne; perché Etienne diceva di avere spedito la lettera che annunciava la sua venuta tre settimane prima, mentre invece risultava che era arrivata solo la mattina della lettura da parte di Lady Stubbs; perché nello sguardo infantile e vacuo di Hattle,  Poirot aveva creduto di vedere un lampo di perspicacia; che era  Michael Weyman, l’architetto che stava realizzando un campo da tennis nella tenuta, colui con cui si era incontrata furtivamente nella Follia, Sally
Legg alias Zuleika
In un drammatico confronto, Poirot rivelerà anche a Amy Folliat, dopo averne parlato all’Ispettore Bland e al Capo della Polizia, il nome degli assassini e una macchinazione giunta da lontano, di cui la vecchia sapeva qualcosa: in un certo senso lei si potrebbe definire colpevole di favoreggiamento personale, perché non parlando ha in qualche modo causato la morte di Marlene anche se non poteva prevederlo, e di suo nonno.
Francamente mai come in questo romanzo, il lettore può riuscire a capire il filo logico degli eventi e a dare un nome al colpevole, prima della rivelazione da parte di Poirot, perché – ed è per questo forse che questo romanzo è uno dei miei preferiti – alla base di tutto c’è una macchinazione, una messinscena messa a punto nei minimi dettagli: non vi è un assassino, ma due, che agiscono in comunione di intenti, insieme, anche se uno dei due è fuori gioco, o almeno sembra esserlo, dall’inizio del dramma. Niente è come sembra. La stessa sparizione di Hattle Stubbs potrebbe configurarsi in un omicidio impossibile, perché nessuno l’ha vista allontanarsi dal Nasse House, eppure è sparita, e non c’è nessun posto dove qualcuno avrebbe potuta farla sparire così…su due piedi, neanche nel boschetto che confina con la proprietà, da cui molto spesso delle turiste sconfinano in Nasse House, per andare più facilmente al fiume.
Per di più uno dei due omicidi precede l’altro di molto, il che non sembrerebbe in un primo tempo; e la stessa morte di Murdle acquista una spiegazione quando si capisce che stava ricattando qualcuno, e doveva aver rivelato qualcosa alla nipote, ragazza un po’ tarda che non aveva capito la pericolosità delle rivelazioni. Lo stesso Poirot commenterà ad Amy Folliat che un assassino che ha ucciso tre volte, non è detto che si fermi, mettendola in guardia su una sua possibile uccisione.
Il luogo della sepoltura di Hattle risulterà essere la Follia, e in ciò, quando l’ho riletto questo romanzo (lo lessi per la prima volta quasi quarant’anni fa), ho ricordato qualcosa che quarant’anni fa non avevo visto: un film di George Marshall con Glenn Ford e Debbie Reynolds, Gazebo (1959). La storia di uno scrittore di gialli che ricattato uccide il ricattatore e ne seppellisce il corpo sotto un gazebo, una struttura simile alla Follia: mi ricordo la scena della tempesta quando il vento distrugge il gazebo e scopre la tomba improvvisata del ricattatore. Possibile che la sceneggiatura, basata su un lavoro di Alec Coppel,  avesse preso qualcosa dal romanzo di Agatha Christie?
E assodato questo, ovviamente anche il resto avrà uno sviluppo diverso: innanzitutto l’identità vera di Lady Stubbs e le sue vere condizioni economiche iniziali, e quelle di Etienne; e perché fosse stato fatto sparire il fumetto con l’ultimo indizio alludente al sacco.
Inoltre ancor una volta – sembra davvero essere questo il leit motive ricorrente nell’opera della Christie – compare un soggetto che si credeva morto (il ritorno di una persona che agisce sotto mentite spoglie), a cui qui fa da contr’ altare  un’azione del tutto opposta concernente altro soggetto (una specie di originalità, che complica ancora di più il plot). Nel momento in cui Poirot avrà scoperto tutto, avrà un senso la battuta del Capitano Warburton a lui, all’inizio del romanzo quando, interrogato  circa una foto, lui aveva ipotizzato essere una finestra con le sbarre, mentre era in effetti un particolare ingrandito di una rete da tennis: “Dipende da come si guarda la cosa”. In altre parole: sotto una diversa prospettiva, una cosa acquista un significato che prima non aveva.
Cosa che metterà in pratica Poirot.
Anche se i dialoghi non sono il massimo in Christie, il romanzo è uno dei più sensazionali per plot e soluzione. E anche uno dei più cattivi di Agatha Christie: gli assassini sono cattivi entrambi, ma veramente! Uccidono (due omicidi uno, uno ) per avidità, non esitando a farlo nei confronti di persone ritardate mentalmente (Lady Stubbs e Marlene Tucker, una ragazzina) e recitano la loro parte così magnificamente, da portare la polizia e inizialmente Poirot, su una falsa pista: saranno le testimonianze di Brewis su Lady Stubbs, la sua sparizione, la sparizione del fumetto con l’indizio, le asserzioni di Murdle, e il suo ricatto e quello che saprà interrogando la madre di Marlene ad aiutarlo a squarciare il velo degli eventi.
Notevole.

Pietro De Palma