martedì 18 aprile 2017

Edogawa Ranpo: La belva nell’ombra (Inju, 1928), trad: Graziana Canova, con introduzione di Maria Teresa Orsi - Letteratura universale Marsilio,1992.




Lo so che molti di quelli che leggeranno questo pezzo rimarranno inizialmente interdetti: Edogawa Ranpo è un nome sconosciuto ai più, scomparso nel 1965, ma ritenuto all’epoca, anche in Occidente, dai due cugini Queen, uno dei più grandi autori del mondo per quanto riguarda racconti. Ma Edogawa Ranpo è anche diventato un mito per i suoi romanzi, anche se di essi, in Italia, solo due son stati pubblicati: uno oramai esaurito, “Il mostro cieco”, pubblicato nel 1994 da Marcos Y Marcos; e uno dei suoi capolavori, Inju tradotto in Italia da Marsilio nel 1992 e più volte ripubblicato, col titolo “La belva nell’ombra”. Ed è proprio di quest’ultimo che parlo oggi.
A dire il vero, Edogawa Ranpo non l’avevo mai letto pur avendone sentito parlare; e quando in passato avevo cercato di cercare di beccare uno dei romanzi tradotti in Italia mi ero scontrato con le frasi lapidarie dei librai “E’ un titolo vecchio”, “Forse possiamo fare un tentativo ma poi non le assicuro che arrivi, anzi è più facile che accada questo” etc.. Insomma, avevo dato un taglio. Aspettavo di poter leggere in italiano qualcosa: essendo rimasto folgorato dai racconti del volume Urania, che consiglio a chi l’avesse perso, di procurarsi, ho ridato fiato ai miei antichi desideri, e stavolta mi sono intestardito andando al di là della frasi di prammatica che ho risentito; e stavolta ho tentato di ordinare il volume Marsilio, anche se mi avevano detto che al loro computer esistevano in giro solo tre quattro volumi in Italia presenti in librerie dello stesso circuito, trattandosi di una vecchia edizione; e del resto l’edizione economica era già esaurita. Ho tentato. E dopo una settimana mi è arrivato.
Edogawa Ranpo è un genio: elabora la tradizione occidentale del romanzo giallo inserendolo in una cornice tipicamente giapponese e adattandolo alla società del suo paese. Eredita soprattutto Edgar Allan Poe: infatti, nato come Hirai Taro, cambia ad un certo punto il suo nome e cognome in Edogawa Ranpo (letto in giapponese è molto vicino eufonicamente a Edgar Allan Poe). Ma poi rivaluta tutta la tradizione occidentale, da Conan Doyle ad Agatha Christie, creando delle opere in cui l’abisso della perdizione è totale, e in cui si agitano turbe psicologiche assieme ad orrendi misfatti, e il tutto in un crescendo di angoscia, tutto personale.
La Belva nell’Ombra parla di uno scrittore di romanzi polizieschi, che in virtù della sua predisposizione all’analisi e alla deduzione, viene trascinato in un vortice da cui non si saprà rialzare (forse); e in esso, troviamo  Tutto comincia quando Samukawa, scrittore di romanzi polizieschi, in un museo dove sono conservate varie statue di Buddha, vede una donna bellissima, fermarsi davanti alla vetrina che lui sta guardando. Ben presto cominciano a parlare del più e del meno. Viene a sapere che si chiama Oyamada Shizuko, e che è moglie di Oyamada Rokuro, un uomo d’affari amministratore della Ditta Rokuroku, molto più anziano di lei: la osserva nel suo kimono avanzare con leggiadria, e in cuor suo comincia a provare qualcosa per lei, e decide di scoprire perché sulla sua schiena presume ci siano segni di frustate, di cui si intravedono le estreme propaggini sulla nuca e sul collo. Nei giorni che seguono, egli viene a sapere che la sua amica è perseguitata da un suo vecchio amore, un altro scrittore di polizieschi, che Samukawa conosce per sentito dire: Oe Shundei. Questi non ha perdonato a Shizuko di averlo abbandonato, e nonostante lei fosse riuscita a far perdere le proprie tracce, è tuttavia riuscito a ritrovarla e le ha scritto delle lettere con cui ha annunciato la volontà di uccidere suo marito Oyamada Rokuro e poi lei stessa.
Samukawa sente il dovere di fare qualcosa per lei e si improvvisa detective. Comincia a frequentarla, ad andare a casa sua. E nello stesso tempo decide di investigare su Shundei: decide di avvalersi di Honda un redattore di una rivista che ha pubblicato opere di Shundei e gli chiede notizie e se le lettere che gli ha fatto leggere Shizuko possano essere state in effetti vergate da Shundei, giacchè Honda conosce il modo di scrivere di quello: Honda gli risponde che la calligrafia è la sua e innegabilmente anche il modo di usare espressioni verbali e aggettivi gli è proprio. Anzi Honda gli dice che lui Shundei l’ha visto: è un grassone che un giorno ha visto vestito da clown ad un parco, mentre distribuiva del materiale di pubblicità per Shundei. In realtà quello che si sa di lui è poco: si sa che è grasso e che vive isolato, chiuso ermeticamente in una casa, e che per un certo tempo è stato sposato.
Un bel giorno, mentre Samukawa è a casa di Shizuko, ella improvvisamente gli fa cenno di stare zitto, e allora percepiscono uno strano ticchettio, un orologio che però non si riesce a trovare: il ticchettio, scoprono, proviene dal soffitto della casa, laddove si vede una crepa. Shizuko gliela indica e gli dice che qualche giorno fa ha visto degli occhi feroci che la fissavano: possibile che Shundei si sia potuto introdurre nel soffitto della casa senza che lei e il marito l’abbiano scoperto?
Fatto sta che così viene spiegato il perché Shundei nelle lettere che continuano ad arrivare a Shizuko, possa conoscere tanti aspetti della sua vita intima: forse ha assistito anche ai rituali sadomasochistici di Shizuko col marito, che, nei momenti di passione, ne flagella la schiena con un frustino che ha comprato all’estero.
Samukawa decide di penetrare nel soffitto e capisce pure come Shundei potrebbe aver fatto, all’insaputa dei due coniugi, perlustra la sofitta, trovandola insolitamente pulita e poi..trova un bottone. Da quando quel bottone è lì? Le donne che hanno pulito il soffitto dicono che quando l’hanno pulito tempo prima, quel bottone non c’era. Il bottone sarà l’indizio che porterà  Samukawa ad una stupefacente serie di osservazioni, deduzioni e controdeduzioni fino alla fine del romanzo.
Shizuko gli rivela giorni dopo che lei Shundei l’ha visto mentre la osservava dietro la finestra, come “una belva nell’ombra”. Questa percezione fa da prologo al delitto di Oyamada: un giorno arriva e dopo essersi trattenuto con la moglie, decide di andare a trovare un suo amico; uscito dalla casa di quegli, non ritornerà più a casa: verrà trovato l’indomani sotto una chiatta che naviga nel fiume in un modo orrendo: una signora che è andata nella toilette, un cesso alla turca, vede prima che si appropinqui a ciò per cui in quella ritirata è entrata, un volto apparire dall’acqua, attraverso il buco del cesso. Il corpo verrà tolto da sotto il battello: è proprio Oyamada, nudo o quasi, con una profonda ferita che ha perforato il polmone e ne ha determinato la morte e con una strana parrucca.
Tutti ora cercano Oe Shundei ma non lo trovano: sembra essere svanito, pure dalla sua casa. La cosa strana è che dal momento in cui muore Oyamada cessano anche le lettere di Shundei.
Oyamada è stato ucciso da Shundei? E perché ora che quello è morto le lettere anonime cessano? Possibile che Shundei e Oyamada fossero la stessa persona?, si chiede il lettore sempre più appassionato. Oppure che Oyamada per qualche perverso desiderio abbia impersonato Shundei per terrorizzare la moglie? Oppure Shundei e Shizuko assieme hanno messo su questa storia allo scopo di uccidere Oyamada? Oppure..altro?
Tanti gli interrogativi che Samukawa sviluppa, e quello che scopre gli da la certezza che sia la verità: Shundei ha ucciso Oyamada, non vicino alla chiatta ma a monte, vicino alla casa di Shizuko, e poi l’ha fatto portare dalla corrente. Ma poi scoprirà dell’altro Samukawa, che gli farà capire che qualcuno lo ha usato per giungere ad una verità al fine di celarne un’altra. E intanto si è innamorato ricambiato dalla sua Shizuko e insieme passano giornate di passione lussuriosa e anche lui al climax della passione la percuote con quel frustino che lei gli ha portato perché la frusti come soleva fare Oyamada.
Straordinario romanzo, straordinario poliziesco, tutto giocato sulla psicologia dei personaggi, sul sapersi mettere al posto del criminale e giungere alle sue stesse realizzazioni, attraverso labirintici percorsi cerebrali, giocati sull’alternanza del vero e del falso, su ombre che si rincorrono, su verità che non sa se siano tali o solo bugie abilmente usate; e insieme anche romanzo erotico, morboso, con tratti di perversione che lo rendono unico, e molto attuale. Ma molto, molto raffinato.
Sembrerebbe un romanzo di qualche tempo fa. Poi si legge la data e si rimane frastornati: 1928.
Quando Ellery Queen non aveva ancora scritto il suo primo capolavoro, già Edogawa Ranpo scriveva qualcosa di assolutamente delirante, e..badate bene, molto occidentale. Perché la soluzione (ma è poi la vera soluzione) è quantomai banale, per quanto essa sia cerebralmente il massimo della premeditazione.
Il fatto è che Samukawa, quando avrà distrutto la sua precedente risoluzione a vantaggio di un’altra ancor più contorta, elaborata sulla base del famoso bottone, e anche della parrucca, non sarà neanche sicuro di aver imbroccato quella giusta, perché rimarrà sempre col dubbio, che invece la prima fosse giusta, o meglio la vera verità gli si avvicinasse.
Un romanzo, che non può assolutamente mancare nella biblioteca di un amante della letteratura poliziesca.

P. De Palma

domenica 16 aprile 2017

Agatha Christie: Sento i pollici che prudono (By the Pricking of My Thumbs, 1968) – traduz. Alex R. Falzon, Oscar Gialli Mondadori N.98 (1543) del luglio 1982.



Agatha Christie non finiva mai di stupire.
Se è diventata una vera e propria icona della Letteratura Poliziesca, guadagnandosi il posto assieme a Ellery Queen e John Dickson Carr in una ipotetica trinità del giallo, un motivo deve pur esserci! Accanto a tutte le ragioni che si possono desumere leggendo i suoi meravigliosi romanzi, c’è anche quella, non indifferente di aver saputo mutare le proprie trame in ragione del passare del tempo, senza perdere in freschezza, e cambiando semmai la forma della sua scrittura, passando cioè dal puro giallo ad enigma, al suspence, al thriller, e facendo anche delle puntate nel genere spy e avventura: insomma un po’ di tutto.
Tra i personaggi fissi, Tommy e Tuppence Beresford, sono tra i meno conosciuti, ma anche tra i più amati, tanto che, nonostante Agatha Christie li avesse inseriti solo in due romanzi (Avversario segreto, 1922; e Quinta colonna, 1941) e in una serie di racconti, nel 1968 si decise a dare loro una terza chance, buttando giù il romanzo “Sento i pollici che prudono”, By the Pricking of My Thumbs.
E’ uno dei romanzi meno conosciuti in assoluto, questo, ma Agatha amava i suoi due coniugi Tommy & Tuppence, al pari dei tanti fans che continuavano a chiederle loro notizie; e così decise di scrivere un altro romanzo ancora, Postern of Fate, “Le porte di Damasco”, che venne pubblicato nel 1973. Non è un romanzo quale un fan di Poirot o di Miss Marple sarebbe lecito che aspettasse; no, è un romanzo ibrido: un romanzo giallo nella prima parte (indagini, deduzioni) che evolve in un romanzo thriller nella seconda, con un finale in crescendo per quanto riguardo l’azione anche se la verità è stata già capita.
Qui c’è un po’ di tutto: bambini uccisi, refurtiva di gioielli, una misteriosa villa, una vecchia signora che scompare da una casa di cura, il tutto affrontato con inimitabile estro.
Da questo romanzo nel 2005 è stato tratto un bel film per la regia di Pascal Thomas, interpretato principalmente da Catherine Frot e André Dussollier, e con la partecipazione significativa di Laurent Terzieff, che commenteremo confrontandolo col romanzo originale.

Due per un Delitto, Mon petit doigt m’a dit …, di Pascal Thomas, con Catherine Frot e André Dussollier, 2005, 103 minuti (tratto dal romanzo “Sento i pollici che prudono” di Agatha Christie).

 Innanzitutto, il film riporta grosso modo la trama del romanzo: Belisaire e Prudence Beresford, coniugi col pallino dell’investigazione, pur anzianotti non dimenticano gli antichi ardori: lui è un alto membro dei Servizi d’Informazione, mentre lei si occupa della casa. Un bel giorno vanno a trovare la vecchia zia Ada che è ricoverata in una elegante casa di cura: rispetto al romanzo, i due in macchina, intonano un’aria che avrà la sua importanza nella trama: si tratta dell’Aria di Nadir, dal 1° Atto de “I Pescatori di Perle” di Georges Bizet: “Je crois entendre encore, Caché sous les palmiers, Sa voix tendre et sonore, Comme un chant de ramier! O nuit enchanteresse! Divin ravissement! O souvenir charmant! Folle ivresse! doux rêve! Aux clartés des étoiles, Je crois encore la voir, Entr’ouvrir ses longs voiles Aux vents tièdes du soir! O nuit enchanteresse! Divin ravissement! O souvenir charmant! Folle ivresse! doux rêve! Charmant souvenir!”.
Arrivano alla casa di cura (un castello ristrutturato) ed ecco che i due esclamano:
-Ah, che tranquillità! Che armonia! Da un profondo senso di pace – dice Tommy
-Che bella vita quieta e serena! – dice Tuppence
E intanto la cinepresa si fissa su una delle finestre semi aperte del castello, nella cui stanza qualcuno sta iniettando qualcosa in una bottiglia del latte( ma dev’essere qualcosa di non buono, perché altrimenti per quale motivo la persona indossa dei guanti?)
-Senti che qui non ti può accadere nulla di brutto – dice Tommy
-E’ come una tomba – dice Tuppence.
Il dialogo, nel romanzo non c’è. E ovviamente laddove nel film la casa di cura è un castello, nel romanzo è una dimora vittoriana. Insomma, il film è romanzato, ha delle cose che mancano nel romanzo (per es. dopo la visita dalla zia, nel film vengono a trovarli la figlia il genero e i due nipoti gemelli), e i nomi di alcuni personaggi sono cambiati: per es. la signora Lancaster (che è una tizia strana che parla con Prudence al castello e le accenna ad una bambina dietro un camino), che aveva regalato alla zia di Tommy & Tuppence (poi deceduta) un quadro con ritratta una villa ( che a Prudence risveglia un ricordo), nel film si chiama invece Rose Evangelista.
Fatto sta che Tuppence investigando, scopre che l’indicazione sull’altra casa di cura è fallace; e allora riparte dal quadro che ritrae una vecchia casa tra due filari vicino ad un canale. E prendendo il treno, da un finestrino la scorge. Allora scende e comincia ad investigare e finalmente riesce con una scusa ad entrare in quella casa, stranamente divisa in due: in una delle due parti vivono i coniugi Perry. Dopo una conversazione, mentre lei sta andando via, ecco che dalla cappa del camino cade una bambola: cosa ci farà mai in un camino?
Prende dimora in un villaggio vicino, e qui conosce il curato (un pastore nel romanzo) e la sua perpetua e comincia a fare domande: viene a sapere che il quadro era stato dipinto da un certo Boscovan, un pittore che aveva dipinto parecchio in passato. Ma capisce anche che non tutti dicono la verità, e viene a sapere che in quei paraggi tempo prima dei bambini erano stati uccisi. E soprattutto capisce che c’è un mistero intorno alle morte di una bambina: mentre cerca la sua lapide nel cimitero del paesino, qualcuno le rifila un colpo alla nuca. E Tuppence, ricoverata, perde la memoria per una commozione cerebrale.
Intanto Tommy ricostruisce la vicenda della bambina: era morta alla figlia della Signora Carrington, una signora che abitava in passato nel villino raffigurato nel quadro; la figlia era andata a Londra per fare la ballerina ma poi aveva conosciuto un tipo equivoco; era poi nata la bambina che era morta, e la signora e la figlia per evitare uno scandalo erano andate via: possibile che la figlia della signora Carrington fosse la signora Lancaster?
Fatto sta che a questo punto se non intervenisse la telefonata della figlia Deborah che comunica al padre di aver saputo dell’aggressione compiuta ai danni della madre e che Tuppence è ricoverata in un piccolo ospedale della contea, Tommy non saprebbe dove andare.
A questo punto interviene una cosa che nel romanzo non c’è e nel film invece sì e che è collegato alla famosa aria di Bizet di cui abbiamo parlato prima: nel film, Tuppence, che ha perso la memoria, la riacquista nell’attimo in cui sente canticchiata quell’Aria da un muratore che sta effettuando un aggiusto lì vicino ed è lei che fa chiamare Tommy; nel romanzo invece, dell’aria non c’è traccia e Tuppence viene aiutata a ricordare tutto dal marito che arriva lì, avvisato dalla figlia. Comunque sia, la nota dell’aria del film, mi pare abbastanza indovinata: almeno dona una vena struggente che fa da leit-motiv per tutta la durata del film.
I due insieme fanno il punto e mentre lei fa vedere al marito la bambola, da essa cadono dei sassolini, che Tommy, dopo averli strofinati, capisce che son diamanti. E allora ricollega il tutto a quello che gli ha detto un suo amico poliziotto: un celebre furto di gioielli molti anni prima, di cui molto poco recuperato, era stato orchestrato da un certo avvocato di nome Eccles; la figlia della sig.ra Carrington si era invaghita di uno dei banditi ed aveva avuto una bambina, nella cui bambola avevano nascosto i diamanti. Poi, lei era andata via e anche i banditi, dopo che erano stati fatti evadere avevano fatto perdere le tracce.
Non dico come va a finire, non sarebbe giusto. Ma.. il finale è notevole, e rivela una cattiveria inaspettata, una malvagità che è figlia della pazzia.
Il grande scrittore britannico Anthony Berkeley Cox, che con l’altro suo pseudonimo famoso, Francis Iles, firmava anche articoli di critica, sul Guardian del 13 Dicembre 1968, così commentava l’uscita del romanzo della Christie: This is a thriller, not a detective story, and needless to say an ingenious and exciting one; but anyone can write a thriller (well, almost anyone), whereas a genuine Agatha Christie could be written by one person only”.
Che somigli più ad un thriller che ad un romanzo giallo, l’abbiamo già notato; certo, se il romanzo vien letto da chi abbia già immagazzinato dentro di sé tutti i Poirot e i Marple, e i romanzi senza personaggio fisso, forse un po’ di delusione può provarla. Ma se invece, affronta la lettura, scevro da ogni riserva, apprezzerà la grandezza di una donna che di lì a cinque anni sarebbe passata a miglior vita e pure anziana, sapeva riservare emozioni mai sopite.
Quanta grandezza possiamo trovare, se la cerchiamo, nelle persone anziane! Che sembrano provate, indifese anche, ma che anche sanno tanto della vita!
Per quanto riguarda il film, l’unica variazione di un certo peso, e che ha sicuramente un certo effetto dal punto di vista cinematografico, è che Eccles ha un fratello gemello, mentre nel romanzo non è così.
Al di là di questo, consiglio chi non avesse letto il romanzo, perché ne vale la pena ; e poi di vedere il film: si trova anche nelle edicole.
Sia la Frot che Dussolier sono irresistibili, e anche Terzieff è molto bravo: direi che se mi sarei aspettato una parte drammatica per Terzieff, che interpreta i due fratelli gemelli,  sono rimasto invece molto colpito dalla bravura e versatilità interpretativa di Dussolier che tanti anni fa avevo notato nel film drammatico di Claude Sautet, “Un cuore in inverno” assieme alla Béart e ad Auteil, e poi qualche anno fa avevo di nuovo ammirato nel capolavoro poliziesco di Olivier Marchal, con Gerard Depardieu e Daniel Auteil, 36 Quai des Orfèvres: è un attore completo che sa affrontare con naturalezza sia parti da commedia brillante, sia da polizieschi anche d’azione, sia da film drammatico.
Un’ultima cosa: il titolo in originale del romanzo della Christie, è tratto da un passo del Macbeth di William Shakespeare, Atto IV Scena 1:
By the pricking of my thumbs,
Something wicked this way comes
che significa:  
Sento i pollici che prudono: certo arriva qualche infame.

Pietro De Palma

P.S.
Per chi voglia sentire l’Aria di Nadir da “I Pescatori di Perle” di Bizet, che dona una nota struggente al film (e può anche esser stata inserita, in quanto parecchio melanconica, in riferimento alla vicenda straziante di bambini uccisi, dico io), rimando all’interpretazione di Alfredo Kraus, anche su Youtube.

venerdì 14 aprile 2017

Fredric Brown – Tutto in una notte (Night of the Jabberwock, 1951) – trad. Andrea Ogumbisi – Il Giallo Mondadori N.2233 del 1991.


Fredric Brown è famoso per le trame originali e bizzarri e i finali inconsueti, e ho conosciuto alcune persone che lo amano. Mauro Boncompagni per esempio, si è sempre detto entusiasta di Brown.
Ora, è lampante che le sue trame non siano convenzionali, anzi molto originali, leggendo le sue opere: direi che fosse una cosa anche normale, visto che l’autore era un famoso autore di fantascienza, e che quindi il fantastico futuribile era per lui un modo di vedere le cose di ogni giorno sotto una luce diversa. Tuttavia, al di là che fosse o meno, un autore essenzialmente di fantascienza imprestato alla letteratura poliziesca o un autore di letteratura poliziesca imprestato a quella fantascientifica o tutte e due assieme, Brown cercava sempre di stupire a meno che non fosse una caratteristica così connaturata in sé che non vi potesse rinunciare. Talora la sorpresa è legata all’uso di strumentazioni strane o a fatti che ricalcano la fantascienza (per es. è il caso di Uno strano cliente, romanzo che abbiamo recensito tempo fa), talaltra a situazioni veramente strane. E’ questo il caso del romanzo di oggi.
Tutto in una notte ( Night of the Jabberwock, nell’edizione americana) è un romanzo del 1951.
E’ la storia di un piccolo editore di provincia, che risiede in un piccolo paese dell’Illinois, Carmel City, dove non accade mai nulla. Ciò lo costringe ad accanirsi su quello che avrebbe potuto essere se fosse vissuto altrove, e a procacciarsi purtroppo le notizie più strane nel novero di quelle dozzinali, che possono accadere in un paese dove mai nulla accade di originale, tanto che la gente possa acquistare il giornale che le riveli. Così, tanto per dire qualcosa di nuovo, è riuscito persino a mettersi contro la polizia locale, il cui sceriffo non gli ha perdonato gli attacchi contro di lui. Infatti Doc Stoeger desidererebbe un bel delitto, non per gli scopi per i quali lo desiderava il Gervase Fen di Crispin, cioè come sfida intellettuale, ma per avere materiale per un bell’articolo. Anzi, la cosa che vorrebbe fare, è pubblicare un bel numero, un ultimo numero, in cui potesse scrivere tutto quello che ha sempre voluto, e poi chiudere. Perché si è scocciato (di non vendere nulla) e quindi vorrebbe cessare la pubblicazione della rivista.
Doc ha qualcuno a cui lui potrebbe rivenderlo, ma intanto vorrebbe pubblicare almeno un numero che avesse successo; tanto da chiudere almeno in bellezza.
Ma a Carmel City non accade mai nulla.
Doc ha due amici veri: Carl Trenholm, avvocato; e il barista Smiley Wheeler, e con loro passa gran parte del suo tempo: con il primo riflette, con il secondo beve (è quali alcoolista). Un terzo suo conoscente è Al Grainger, un giovanotto le cui entrate nessuno sa quali siano, ma che conduce di per sé una vita spensierata, e che impegna Doc in estenuanti partite di scacchi.
Un bel giorno accade tutto quello che non gli è accaduto per anni: una serie di fatti talmente fuori dell’ordinario (sempre avendo come riferimento la vita troppo routinaria di Carmel City) che anche uno solo sarebbe bastato a coprire il buco nell’impaginazione, che sta facendo arrovellare Doc.
In sostanza, assiste a quello che sembrerebbe un furto in banca, ma penetratovi attraverso una finestra (si tratta di una banca di provincia, del 1951, non di una dei giorni nostri, dove se hai anche una chiave addosso il metal detector all’ingresso non ti fa passare!) stende in men che non si dica il ladro maldestro, per poi accorgersi che si tratta del figlio adolescente di un suo conoscente, il banchiere Clyde Andrews; viene a sapere che il marito della sua donna delle pulizie, ha avuto un incidente nel reparto delle Candele Romane, di una fabbrica di fuochi artificiali, ustionandosi una mano; si accorge che in città girano dei brutti ceffi : due gangsters, di cui uno ricercato, famosi per la loro ferocia, che per poco non lo gonfiano di botte, solo perché lui per strada, ha tirato dritto senza rispondere su quale città fosse quella in cui stavano transitando, e che ritrova successivamente da Smiley: anche Smiley li ha riconosciuti, anche se solo a lui scappa, ma in loro presenza nel locale, chi siano: si salveranno da morte certa solo per la prontezza di Smiley che approfitterà di un momento di incertezza dei due gangsters per averne la meglio, sparando con la pistola che Doc porta per caso in tasca; un pazzo scappa dal manicomio, e la polizia organizza posti di blocco per acciuffarlo; Ralph Bonney, ricco industriale proprietario della fabbrica di fuochi pirotecnici, e Miles harrison, vicesceriffo, che lo sta scortando per via delle paghe dei lavoratori, da una banca in altra città, scompaiono nel nulla; e infine un ultimo incredibile avvenimento accade davanti agli occhi dell’incredulo Doc che non riesce a credere che tanti accidenti quanti mai sono capitati in quella oscura cittadina in cui lui vive, gli siano passati davanti agli occhi, a distanza di poco tempo. Ma la cosa a cui di più non può credere e di cui non si capacita proprio, è che di nessuna di queste cose per lui straordinarie, lui possa scrivere un pezzo, perché per una ragione o per l’altra, le persone ivi implicate accettano che lui scriva un pezzo sui fatto o su loro stessi.
Tuttavia sono tutte cose che Doc non ha propriamente vissuto, tranne l’avventura assieme a Smiley contro i due gangsters, in cui però ha fatto tutto il barista. Quello che gli accade ora ha invece dell’incredibile.
In un intervallo tra una cosa e l’altra, gli si presenta alla porta non il suo amico Grainger, con cui lui intrattiene sfide scacchistiche, bensì uno strano ometto, che si qualifica come un certo  Yehudi Smith, biglietto da visita alla mano, che lo intrattiene sulle sue conoscenze di Lewis Carroll e di Alice nel Paese delle Meraviglie: pochi lo sanno che lui anni prima ha scritto uno studio proprio su quest’opera visionaria e che ne è un discreto studioso. Ben presto Doc mette a fuoco che quello strano tipo è affascinante per lui, come gli si manifesta, per via delle sue conoscenze dell’opera di Carroll, anche di saggi assai poco conosciuti riguardanti la matematica: così i due familiarizzano e tra un bicchierino e l’altro, drinks e quant’altro, Doc viene da Yehudi invitato ad una riunione di una certa setta in una casa abbandonata e stregata, dove avverrà un rito che dovrà capacitare gli astanti sull’esistenza vera del  mondo fantastico di Alice, in un’altra dimensione.
Doc ne è rapito. Vanno assieme, penetrano in una soffitta, trovano il tavolino con una chiave e una bottiglietta con una etichetta con la scritta "Bevimi" (come in Alice nel paese delle Meraviglie), Yehudi beve dalla bottiglietta e…stramazza avvelenato e stecchito.
Doc fugge dalla casa, si reca al posto di polizia dove denuncia tutto allo sceriffo il quale non gli crede, ma manda il suo secondo vice alla casa, dove non trova alcunché; tuttavia dal bagagliaio dell’auto di Doc cola qualcosa che viene accertato potrebbe essere sangue: con la chiave Yale che Doc ha trovato sul tavolino in soffitta, essi aprono il bagagliaio dell’auto (ne è la chiave) e trovano l’industriale e il vice sceriffo scomparsi, morti, massacrati con calcio di una vecchia pistola.
Doc dev’essere stato!E’ chiaro: è impazzito, e tutto per colpa di tutto il liquore che ingurgita!
Lo sceriffo Kates che lo odia, sta per ucciderlo, quando lui riesce a scappare e a nascondersi nel bar di Smiley: nei fumi dell’alcool, vede seduto ad un tavolo Yehudi che gli parla e che risponde alle sue domande. Non c’è nulla si soprannaturale: è Doc che mette in bocca ad un’ estensione del suo subconscio, le risposte che cerca, e finalmente capisce come il tutto possa essere accaduto, chi possa essere stato a organizzare quel complotto contro di lui, e per quale motivo abbia ucciso tre persone:  E con l’informazione avuta da Smiley, circa una fobia di cui soffrirebbe il presunto assassino, la pirofobia (la paura del fuoco), riesce a costringerlo a rendere piena confessione.
Accade altro in questo romanzo e il finale è quantomai estroso, anche se senza sconvolgimenti dell’ultimo rigo.
Innanzitutto il romanzo, come tanti altri nella produzione di Brown, è un ibrido: mischia ambientazioni e situazioni hardboiled, con un enigma di tipo deduttivo. Potremmo dire che è molto vicino alle atmosfere di Jonathan Latimer o di Craig Rice: gangster e cazzotti, alcool e pistole; ma anche atmosfere fantastiche alla Carroll, un avvelenamento, un cadavere che scompare, e due che appaiono nel bagagliaio dell’auto, una chiave che dovrebbe aprire una porticina ed invece apre un bagagliaio, e un piano cervellotico per accusare un innocente e nello stesso tempo ereditare una fortuna.
In sostanza ci troviamo dinanzi ad un Pout-pourri, ad un minestrone di situazioni spassose e ironiche, bizzarre e sconclusionate, ma anche drammatiche e tese e soprattutto ad una serie di circostanze assolutamente paradossali:
una situazione paradossale, un soggetto paradossale, un’ambientazione paradossale, un avvelenamento paradossale, una scomparsa ed una ricomparsa paradossali, e soprattutto un assassino paradossale ed un movente paradossale. Quasi potremmo dire che se il romanzo non l’avesse scritto Brown e non l’avesse confezionato in tale maniera, fintamente arrangiata ma stilisticamente assai ricercata, potremmo attribuirla alle fantasie pazzoidi di uno scrittore alcolizzato.
Il fatto è che movente e assassino, spuntano fuori come un cavolo a merenda: perché mai proprio quella persona dovrebbe essere l’assassino e  come mai Doc riesce a capire quale possa essere il movente? Semmai immagina quale possa essere, ma…senza l’ombra di una prova.
Sembra quasi che i drinks, i cocktails, rimettano in moto le sue cellule nervose. Doc è alcolizzato e come tutti gli alcolizzati ha bisogno di bere per riuscire a stare meglio: nel nostro caso usa i drink per riuscire a capire come sia stato ordito il disegno, perché e da chi. E il delirium tremens gli procura la soluzione sdoppiando la sua identità in due diverse: lui e Yehudi. Yehudi, oramai morto, appare come un alter ego di Doc, il suo subconscio. Questo colloquio assurdo, onirico e irreale tra la parte cosciente di Doc (Doc stesso) e il suo subconscio (Yehudi) non incarna altro che la ricerca della verità in se stessi, la maieutica socratica: come Socrate attraverso il dialogo trovava la verità (Metodo di indagine filosofica altrimenti detto metodo socratico), così Doc, attraverso il dialogo con una parte di se stesso a cui pone delle domande, coglie il nesso. In altre parole,  Γνθι σεαυτόν.
Il bello è che tutto questo viene incarnato in Doc, un uomo che per riflettere ha bisogno di “bere”.
Ma il “bere” oltre che essere la molla per conoscere, fa sì che Doc arrivi alla verità in un modo assai strano: cioè supponendo, senza avere indizi; sulla base di un teorema assurdo, per cui se tutto quello che è accaduto in quella notte è assurdo, anche la verità deve esserlo.
Voleva forse dire Brown che la verità non sempre la si raggiunge con metodi assolutamente razionali e che talora anche il caso e la fortuna hanno importanza negli avvenimenti umani? O forse che alla verità, per davvero vera che sia, talora ci si possa arrivare anche senza prove certe, basandosi su assurdi costrutti mentali?
Ecco allora che il finale di Brown, per me  il vero pugno nello stomaco: sulla base di quale indizio o ancor meglio, sulla base di quale prova, Doc inchioda il suo nemico, l’assassino? Nessuna.
La rivelazione avviene attraverso la tortura: ponendo davanti alla minaccia di essere arso, l’omicida rivela tutto quello che già Doc ha pensato. E non potrebbe essere avvenuto che l’omicida non fosse quello vero e che ha ammesso di esserlo solo perché vittima di una tortura psicologica (che per lui è anche reale)?
Perché non pensare che Doc per salvarsi, abbia inventato un finale di comodo, creando anche lui un colpevole ideale, che lo decolpevolizzi a sua volta? E che il finale abbia rappresentato per Brown un Je t’accuse della tortura ?
Che lo si veda per i suoi significati nascosti o perché sia un omaggio affascinante ad Alice nel Paese delle Meraviglie (ogni capitolo è introdotto da una strofa del libro di Carroll), questo è uno delle opere migliori, forse, di Fredric Brown, per me.

Pietro De Palma

mercoledì 12 aprile 2017

Marion Mainwaring : Delitto a bordo (Murder in Pastiche o anche Nine Detectives All at Sea, 1954), traduz. Sem Schlumper – I Classici Del Giallo Mondadori N.1272 del 26 maggio 2011.


Premetto che tutto ciò che viene creato mettendo insieme più generi, non è che incontri la mia approvazione incondizionata, perché molto difficilmente vien su un’opera intelligente e creativa. Mi vien da pensare, a questo proposito, a tutte quelle Melanges o Fantasie o Pot Pourri musicali, in cui i musicisti “à la page” del primo ottocento, mettevano di tutto: dagli inni nazionali alle melodie e canzoni più in voga a quel tempo, dai temi delle opere liriche più gettonate a quelli delle opere dei musicisti più noti. Potevano beninteso essere anche delle composizioni piacevoli e alcune avere l’estro del genio, ma tutte avevano un unico denominatore: riutilizzavano temi di altri o preesistenti, secondo i propri stilemi.
Tutto ciò talora è stato applicato anche alla Letteratura di genere: pur in misura molto minore, anche qui, i Pastiches quando son stati creati, hanno utilizzato ambientazioni di altri o temi preesistenti: sovente, alcuni scrittori hanno utilizzato per esempio le ambientazioni “alla Christie” e il suo modo peculiare di risolvere i delitti, per propri romanzi; altri hanno preso a prestito singoli detectives, inventando delle parodie (es. “Un caso per tre detectives”, di Leo Bruce); e si sono creati anche dei pastiches originali, affidando un capitolo o paragrafo ad un diverso autore, così da creare dei collages in cui ciascun capitolo per stile e prospettiva, fosse diverso dagli altri (es. i romanzi del Detection Club).
Le Parodie e i Pastiches furono scritti soprattutto tra i due conflitti mondiali: i migliori sono quelli di Anthony Berkeley (il grande autore inventore del detective Roger Sherringham), che prese in giro Gaudy Night della sua amica Dorothy Sayers nel suo Greedy Night, e le sconosciute Margaret Rivers Larminie and Jane Langslow che sempre dallo stesso romanzo della Sayers trassero il loro Gory Knight. Nel novero delle migliori opere, è poi ricordata una piccola parodia, scritta dal fratello di Monsignor Ronald Knox, E.V. Knox ,The Murder at the Towers”. E poi, proprio il romanzo che questo mese Mondadori ci propone nella sua collana storica da edicola de I Classici del Giallo Mondadori : “Murder in Pastiche Or Nine Detectives All at Sea”, di Marion Mainwaring.
Il titolo originariamente fu pubblicato nella mitica serie Garzanti de “Le tre scimmiette” col numero di serie 105, nel 1957: la serie Garzanti al tempo raccoglieva alcune delle opere migliori in circolazione, molte delle quali sono poi riapparse in Mondadori (alcuni Ellery Queen, Boileau & Narcejac,  Frederic Brown, etc..), e le traduzioni erano molto buone.
Questo romanzo poliziesco della Mainwaring (il secondo, dopo Murder at Midyears  del 1953), scrittrice famosa soprattutto per aver completato il romanzo The Buccaneers di Edith Wharton, è uno splendido esempio di Pastiche, anzi, tra tutti quelli letti, è forse il migliore.
Parla di una traversata in mare a bordo del Florabunda una splendida nave da crociera. Oltre molti altri passeggeri, per un caso vi si trovano radunati alcuni dei migliori detectives in circolazione. E neanche a farlo apposta, vengono coinvolti ovviamente, quando a bordo viene assassinato un cronista, tale Paul Price, ucciso con un mortale colpo di sfollagente alla testa: particolarità rilevante è che sotto al cadavere, viene trovata una sciarpa gialla e rossa ed una pipa; nella sua cabina un assegno firmato da altro passeggero; e poi possibili ricatti dello stesso assassinato ad altri personaggi, tra cui la nobildonna Lady Chip-Ebberly; e ancora altri possibili indiziati, tra cui la nipote del cronista, il commissario di bordo, il capitano della nave (un pazzoide), il primo ufficiale Waggish, il medico di bordo (che compone e declama improbabili versi), un’attrice di costumi alquanto facili.
Due vecchiette credono di aver sentito intorno alla mezzanotte ed un quarto, il rumore come di qualcosa che veniva trascinato (probabilmente il corpo): sono queste le prime testimonianze. Poi sono trovati degli appunti che fanno pensare a del contrabbando di armi nucleari, salvo poi accorgersi che si trattava solo di giochi riservati ai bambini.
Intanto c’è gente che cade per le scale, gente che scivola, gente che incespica; l’assegno di quindicimila dollari firmati da Anderson, un uomo d’affari americano, viene da questi buttato controvento in mare, per venire poi ributtato sulla nave; la sciarpa, trovata, viene rubata.
Ai nove detectives il compito di fare chiarezza, ma..come? Ecco allora la trovata della Mainwaring: non solo ogni detective si vedrà riservato un capitolo, e condurrà le indagini a modo suo, scovando col proprio metodo d’indagine, ciò che gli altri hanno tralasciato, ma di ognuno di essi cioè Trajan Beare, Spike Bludgeon, Mallory King, Sir John Nappleby, Jerry Pason, Atlas Poireau, Lord Simon Quinsley, Miss Fan Sliver, Broderick Tournier, sarà imitato alla perfezione lo stile letterario, utilizzato dai rispettivi autori; così la immedesimazione dei personaggi parodistici è totale: essi parlano, si muovono e investigano, utilizzando la stessa padronanza lessicale e gli stessi procedimenti deduttivi delle copie da cui prendono le mosse.
Una mimesi stilistica in cui emergono prepotentemente le figure, argutamente tratteggiate, di Miss Fan Sliver che come Miss Silver della Wentworth, sferruzza a maglia; di Atlas Poireau che riserva alle sue cellule grigie il compito di fare ordine nel caos, come il Poirot di Agatha Christie; di Sir John Nappleby che come l’Appleby di Michael Innes, è versato ad una cultura non di maniera, citando a piene mani scrittori e poeti; fino al Mallory King, che come il suo originario Ellery Queen (King-Queen), vede l’indagine come una concatenazione di indizi, spesso segreti, magari legati da una filastrocca. Accanto a questi vi sono gli altri: efficacissimo è lo stile con cui Mainwaring, imitando lo stile Hard Boiled, descrive Spike Bludgeon (che come il suo Spike Hammer vorrebbe sistemare tutte le cose solo con la propria pistola e i suoi cazzotti), e il mondo che lo circonda (“la nebbia era simile ad un sudore grigio..l’oceano ad una brodaglia unta..che danno alla Bowery con lo spezzatino da due soldi”, pag. 156); le verità e mezze verità che solo un grande avvocato come Jerry Pason (ovviamente deriva dal Perry Mason di Gardner) riesce a distillare; o anche il rigore con cui i fatti vengono esposti e riassunti dal mastodontico Trajan Beare che come l’originario Nero Wolfe ( Bear= Orso, Wolf=Lupo) di Rex Stout, è allergico al movimento fisico e neanche parteciperebbe alle indagini se Ernie Woodbin (Archie Goodwin) non gli ricordasse che se il delitto non potesse essere risolto la stessa nave verrebbe messa in quarantena e quindi non potrebbe attraccare allo scalo.
Molto efficaci anche gli stili con cui vengono tratteggiati Broderick Tournier (dal Roderick Alleyn di Ngaio Marsh) e Lord Simon Quinsley (dal Lord Peter Wimsey di Dorothy Sayers). Anzi sarà proprio quest’ultimo a riunire le esperienze deduttive maturate dagli altri: la sciarpa di lana gialla e rossa era stata fatta a mano ed era di proprietà di un giovane cameriere che poi, persala e vistala sotto il cadavere, per timore di essere collegato alla vicenda l’aveva rubata; la sciarpa era stata trovata dall’assassino e posta sotto il cadavere perché potesse ispirare qualcuno dei detectives (la vittima era stata paragonata ad un topo, e allora viene alla mente il Pifferaio di Hamrin che col suo piffero uccideva i topi buttandoli in mare: egli aveva una sciarpa gialla e rossa con attaccata ad una estremità una pipa; su un articolo che viene attribuito alla stessa vittima, c’è un pezzo apocrifo che fa riferimento a Gib, un tale criminale che Price avrebbe scoperto a bordo, che poi si scopre essere un modo per dire Gatto. Il gatto mangia i topi, cioè Price. C’è un tentativo di contrabbandare dei diamanti ed anche questo Price aveva scoperto e stava utilizzando per altro ricatto: il tentativo viene rivelato grazie ad un gomitolo di lana grigia, etc etc.
Lord Quinsley individuerà l’assassino, il meno individuabile ( dopo aver sentito declamare il medico di bordo, ma non è lui), che riuscirà a scappare e rifugiarsi su un’isola fuori delle rotte e nota solo a lui, grazie ad una scialuppa di salvataggio.
Il romanzo è assai godibile, e come detto, godibile è soprattutto la maniera con cui la Mainwaring imita lo stile che gli scrittori originari hanno usato per rappresentare le storie dei propri eroi.
Direi però, ai lettori che si accingessero a leggere il romanzo, di non leggerlo in una botta sola, ma capitolo per capitolo: perché solo così possono godere della mimesi stilistica di ciascuno dei personaggi originari, immergendosi e gustando, vorrei dire centellinando, l’atmosfera artificiosa ma splendidamente ricreata da Marion Mainwaring.
E anche per un altro motivo, molto più legato alla lettura: il continuo salto di stile da capitolo a capitolo può tendere a far perdere il filo logico del ragionamento, che non è mai uno, ma molteplice. Quindi secondo me, in un romanzo quale questo, andare piano e leggere con attenzione, magari facendo il punto ogni volta che si passa di palo in frasca, è quantomeno utile. In questo modo, il finale, che sembra cadere dal cielo (Quinsley individua delle cose che solo lui vede, mentre il povero lettore può solo accettare la soluzione così come viene prospettaa, senza tentare minimamente di batterlo sul tempo), non coglierà del tutto impreparati.   

Pietro De Palma

giovedì 6 aprile 2017

Andrew Garve: Un alibi di troppo (Frame-Up, 1964) – trad. Paola Garini -I Classici del Giallo Mondadori N.1271 del maggio 2011



L’autore del romanzo la cui copertina è indicata, Andrew Garve,  non si chiamava così in origine, giacchè esso era solo uno pseudonimo, al pari di Roger Bax e Peter Somers: il suo nominativo vero era invece Paul Winterton, ed era un giornalista specializzato in economia. Al suo attivo parecchi romanzi anche di spionaggio, e vari di essi incentrati sulla Russia, di cui era un discreto conoscitore, favorito anche dalla conoscenza di varie lingue straniere.
Mondadori ne pubblicò alcuni di romanzi: questo, “Un Alibi di troppo”, Frame-Up, è del 1964, pubblicato in Italia solo due anni dopo, l’11 settembre del 1966, nella collana Il Giallo Mondadori, col numero 919.
Il romanzo snocciola la storia del pittore John Edward Lumsden, ricco e felice ma complessato, che viene ritrovato morto, strangolato, a casa sua. Dopo il suo assassinio, spunta un testamento in base al quale a contendersi la bella cifra di 200.000 sterline, 100.000 procapite, sono il nipote Michael Ransley, dipendente del Foreign Office, e l’amico e protetto George Otway, che con l’aiuto di Lumsden ed anche il suo sostegno economico ha avviato un’attività di mercante d’arte. Nessun altro parrebbe ricavarci nulla dal suo assassinio; neanche la bella Kathie Bowen, governante di casa Lumsden, e segreta fidanzata di Lumsden, che proprio con lui si sarebbe dovuta sposare di lì a 15 giorni.
E’ evidente quindi che l’attività investigativa concerne esclusivamente i beneficiari dell’eredità, e già in questo notiamo una certa limitazione del numero dei sospettati, due al momento, che ovviamente ha una ricaduta sulle stesse aspettative del lettore: una cosa è leggere un romanzo in cui i sospettabili sono un certo numero, e altra cosa è leggerne un altro in cui sono solo due, almeno all’inizio.
L’indagine, condotta dall’ Ispettore Capo di Scotland Yard, Charles Blair, e dal suo sergente maggiore, Harry Dawson, ben presto sbatte contro i due alibi prodotti dai due beneficiari: uno, quello di Otway, si basa sulla testimonianza del suo dipendente James Whybrow, che assicura di aver telefonato al suo datore di lavoro a casa sua, dal Northern Hotel di Edimburgo, addebitandogli il costo della chiamata, per comunicargli l’esito di un’asta (testimonianza confermata da altre persone presenti nell’Hotel, e dalla centralinista, che ha sentito distintamente il dialogo telefonico tra due persone, il trasmittente ed il ricevente); l’altro si basa su una certa telefonata che Michael Ransley dice di aver ricevuto, proveniente da un ospedale in cui egli è donatore di sangue, che lo allertava in merito ad una emergenza, visto che lui è portatore di un gruppo sanguigno raro: ma, una volta recatosi in quel posto, nessuno del personale medico, infermieristico e delle suore afferma di averlo chiamato: uno scherzo di pessimo gusto o…altro?
In realtà dei due alibi, questo è il meno potente, tanto più che Michel Ransley avrebbe potuto avere dei motivi di rancore nei confronti dello zio, visto che quest’ultimo non accettava per il nipote l’unione con la giovane e bella tedesca, Irma Felding, figlia di un giudice, con un passato nazista; e l’Ispettore cerca in tutti i modi di scalfirlo, non riuscendoci. In più accade una cosa che sembra destabilizzare l’indagine: tra i vetri rotti di un portaritratti trovati vicino al cadavere, si trova un’impronta di Otway: tuttavia la circostanza che dovrebbe incriminarlo, finisce per farne una vittima, quando si scopre che i frammenti di vetro insieme formano un lato che è incompatibile con quelli del portaritratti. Insomma qualcuno vuol far incolpare Otway dell’assassinio dell’amico: Ransley? Tuttavia c’è anche da mettere a fuoco il fatto che qualcuno ha chiamato con l’inganno Ransley all’ospedale: una messinscena oppure c’è qualcuno che vuol fargli del male, per es. Otway?
Insomma, Blair deve cercare di smontare i due alibi, ma non vi riesce; e a quel punto è portato persino a considerare che i due abbiano potuto commettere l’assassinio assieme, o almeno coprendosi e inquinando le prove e creandone altre false, vicendevolmente.
Ma proprio in questo momento ecco un nuovo accadimento che rivoluziona il tutto: l’Ispettore viene a sapere dalla sorella di Kathie Bowen, che il futuro marito di Kathie, poi assassinato, avrebbe intestato alla futura moglie i propri soldi, sostituendo il precedente testamento da un altro, olografo, nascosto nel cassetto segreto di un mobile: in questo modo, ai due sospettati viene ad aggiungersi anche la bella Kathie, che avrebbe potuto anche desiderare di sbarazzarsi del futuro marito, acquisendone l’eredità senza doverlo sposare; ed il tutto viene messo in discussione.
A questo punto però finiscono le novità ed il romanzo prende una china obbligata che si concluderà con l’individuazione dell’omicida.
Il romanzo è fresco, anzi in talune sezioni è addirittura frizzante, e così pure molto fluido lo stile: Garve per accendere l’interesse del lettore e mantenere uno stato costante di tensione, individua un modus agendi interessante: innanzitutto, inquadrando in un capitolo troppo lungo, una causa dell’appiattimento dell’interesse del lettore, crea delle sezioni molto corte, anche solo di due pagine, in cui molto spesso scrive l’essenziale; inoltre, nel momento in cui crea questi capitoli così succinti, li collega non da un filo consequenziale, ma secondo piani di azione diversa, che si intersecano, divergono e si toccano, creando così fratture sia temporali che di ritmo, e nello stesso tempo accelerandolo dal cambio di registro. E’ sicuramente un tipo di narrativa di origine prettamente giornalistica, basata su una presentazione dei fatti che rimanda immediatamente alla realizzazione di un articolo su giornale.
Tuttavia, mi pare di inquadrare anche delle pecche, più di natura squisitamente narrativa. Infatti Garve, crea un classico romanzo alla Crofts, basato sull’analisi minuziosa degli alibi al fine di smontarli: nell’azione investigativa, il segugio, non è un investigatore che si trovi opposto all’azione della polizia, bensì proprio un poliziotto. Il lettore pertanto vede dall’inizio, lo svolgimento delle indagini, passo dopo passo, le congetture e le contro-congetture, in quello che mi pare quasi un procedural, direi un procedural annacquato. Comunque che sia un procedural annacquato o altro, al romanzo manca un elemento di tensione nella mancata contrapposizione dell’azione investigativa della polizia rispetto a quella dell’investigatore principe: qui invece, l’indagine scorre su un binario unico. Inoltre, l’indizio del vetro rotto, ad un lettore smaliziato può parere subito quello che verrà svelato alla fine.
Ma, la cosa che, secondo me, toglie qualcosa di importante all’atmosfera del romanzo, è il fatto che non venga creato nessun colpo di scena finale: in altro modo, ciò significa che l’individuazione del colpevole avviene circa trenta pagine prima della parola fine all’ultima pagina, e nelle successive trenta pagine, se ancora qualcuno potrebbe sperare che avvenisse un qualche accidenti che potesse riaprire i termini della questione accendendo l’interesse a favore di un finale pirotecnico, deve amaramente ricredersi, giacchè nelle restanti trenta pagine, viene solo spiegato come il muro dell’alibi sia stato spezzato.
In altre parole, è come se qualcosa ad un certo punto si fosse inceppato, dico io, nella costruzione fantasiosa del romanzo: certo, però, basarne uno solo su due possibili assassini è alquanto rischioso, e così ad un certo punto l’autore deve necessariamente aver pensato a rimpolpare il parco dei possibili assassini, anche con la bella Kathie Bowen, prima fidanzata inconsolabile e poi fredda.
Nonostante ciò, il finale, così si presenta piuttosto appiattito. Anche perchè, pensandoci sopra, aver scritto un romanzo basandolo sull’analisi degli alibi di due soli sospettati, se da una parte fa sì che l’indagine investigativa analizzi tutte le possibili soluzioni al fine di confermare o smontare gli alibi, dall’altra restringe notevolmente il campo dell’indagine, e quindi in sostanza riduce le possibili alternative anche sensazionali.
E la trovata, legata al telefono, oggi ci sembra alquanto risibile, visto che l’espediente usato è alquanto noto, anche se sempre in certo modo suggestivo (io c’ero arrivato parecchio prima che Blair lo rivelasse nel corso del suo ragionamento).
Al di là di ciò, è comunque un romanzo che vale l’acquisto.

Pietro De Palma

P.S.
Il titolo “Un alibi di troppo” individua anche un romanzo di C.Daly King.

martedì 4 aprile 2017

John Bingham – Mi chiamo Michael Sibley (My Name Is Michael Sibley, 1952) – trad. Vittoria Comucci – Classici de Il Giallo Mondadori N° 1295 del 12 aprile 2012



John Michael Ward Bingham non dice alcunché in Italia, eppure è un autore molto conosciuto in Inghilterra.
Di origine nobile (fu il settimo Barone Clanmorris of Newbrook), nacque nel 1908. Fu educato nelle migliori scuole e poi durante il secondo conflitto mondiale, volle arruolarsi come volontario, ma fu scartato per un difetto alla vista. Tuttavia fu arruolato nel MI5, Il Controspionaggio militare britannico, nel quale servì non solo durante la guerra, ma anche per parecchio tempo dopo, fino agli anni sessanta inoltrati.
La sua figura fu presa ad esempio da John LeCarrè per il personaggio di George Smiley.
Scrisse parecchi thrillers, gialli classici e storie di spionaggio.
In Italia è stato parecchio tradotto nei primi anni ’50 (Romanzi de Il Corriere della Sera), poi è seguito un periodo di oblio, dal quale è riemerso con la pubblicazione per Mondadori, proprio del suo primo romanzo. Alcuni suoi lavori sono stati adattati per il piccolo schermo da Alfred Hitchcock. E’ morto nel 1988.
My Name Is Michael Sibley, 1952 è una storia in prima persona.
Michael Sibley è un giornalista che è fidanzato con Kate Marsden. E’ stato amico di John Prosset, sin dai tempi dalla scuola. Strana amicizia quella con John! Più che amicizia, dovremmo chiamarla una sorta di vassallaggio, un riconoscimento della propria debolezza spirituale ed un riconoscimento della forza altrui. John gli è stato amico ma anche nemico: insomma un’amicizia strana in cui amicizia e odio hanno formato un connubio strano ma duraturo, almeno sino a quando Michael si è allontanato dall’ambiente di casa. Ma Prosset si ì rifatto vivo per caso, più tardi: i due si rivedono per caso e l’occasione fa sì che i due ricomincino a frequentarsi. Michael fa lo sbaglio di presentargli la fidanzata e allora il falso amico, per scherzo, uno scherzo di pessimo gusto, insomma per ridere alle sue spalle, gli insidia la fidanzata, non perché voglia conquistarla ma solo per il gusto di rompere le scatole all’amico. Insomma, l’amicizia o quel che sembrava, presto cede il passo al vero e proprio astio, all’odio di Michael per John e i due hanno un violento alterco.
Michael va via. L’indomani viene a sapere che John è morto in seguito all’incendio della sua villetta. Fin qui nulla di anormale, e la cosa sembra destinata ad essere archiviata come un incidente, fin quando qualcuno comincia a sospettare che l’incendio abbia coperto un assassinio.
Michael era stato dall’amico poco prima che questi morisse, e allora inspiegabilmente, per una irragionevole paura, ai funzionari di Scotland Jard, Ispettore e Sergente, recatisi da lui per interrogarlo in merito alla sua passata amicizia con Prosset, Sibley comincia a mentire. E man mano che dice delle bugie, deve inventarne altre che rendano plausibili quelle precedenti. Questo incastro traballante, lo porta anche a chiedere alla sua compagna di sostenere le sue bugie, nate anche in seguito a una sua superficialità nel lasciarsi alle sue spalle tutta una serie di azioni che lo rendono se non colpevole almeno fortemente sospettabile.
Per cui cerca a questo punto di sapere cosa possa una sua passata fidanzata Cynthia Harrison aver detto alla Polizia e ne ricava la certezza che quella ha raccontato alla Polizia delle cose che possono metterlo in cattiva luce; per di più egli inspiegabilmente ha avuto con sé da parecchio tempo un tirapugni ed ora ritiene che il possesso di quell’oggetto potrebbe arrecargli dei fastidi; infine, un altro trascurabile fatto lo fa assurgere a colpevole perfetto agli occhi di Scotland Yard: pensando che lui sia l’assassino di Prosset, la polizia pensa che di frugare tra le sue cose e così viene a sapere dalla domestica di Joh  che i suoi abiti completi non sono più 5 ma 4: quello mancante può spiegarsi con la sua distruzione perché sporco del sangue di Prosset? Scotland Yard pensa di sì, ma non sa che Michael ha regalato uno dei suoi cinque abiti, il più liso, ad un  reduce di guerra che gli ha ispirato sentimento di carità. Fatto sta che tutte queste circostanze unite alle bugie colossali che ha inventato, fanno sì che egli sia arrestato per l’omicidio dell’amico.
Sulla base di uno specifico odore, egli pensa che il socio in affari di John , che egli immagina poco puliti e legati al contrabbando, sia il vero assassino dell’amico ma non ha nulla per dimostrarlo.
Intanto si celebra il processo per omicidio a suo danno. Il dibattimento prende una piega ostile e a suo danno, e quando Sibley si dà oramai per spacciato e ritenuto di omicidio di Joh  Prosset, ecco che l’avvocato difensore di Sibley, mettendo in seria difficoltà una testimone a carico dell’accusa, la cui testimonianza era ritenuta decisiva per l’incriminazione del suo assistito, causa l’assoluzione di Sibley, la sua libertà, e il successivo sposalizio con Kate rallegrato dalla nascita di due figli.
Strano ma affascinante romanzo.
Innanzitutto il debutto di Bingham non è un classico romanzo di detection ma qualcosa di innovativo, anche per l’epoca in cui fu scritto: prende le distanze da tutti i romanzi che fino a quel momento erano stati scritti, e non propone affatto una storia in cui il fine sia l’acciuffamento del colpevole, ma invece la sua liberazione. Non è importante cioè che la polizia arresti l’assassino quanto che non becchi una cantonata arrestando e facendo condannare un innocente. Questi, da par suo però fa di tutto perché la polizia pensi che lui davvero sia il colpevole, comportandosi in un modo che dire superficiale è dire assai poco.
Sibley è uno qualunque, neanche poi uno stinco di santo (se davvero fa la corte alla prima sua “fiamma” non per trasporto emotivo ma per ben altro), ma è comunque un innocente, travolto dal peso degli eventi, che comincia a comportarsi in maniera irrazionale in quanto non ha la benché minima considerazione o fiducia della polizia. Al tempo il romanzo fece sensazione perché descriveva il modo non sempre leale delle polizia di svolgere un’indagine.
La cosa interessante della storia è che essa alla gfine non è altro che una singolar tenzone, un duello che combattono Sibley e i due poliziotti che lo braccano: lui nel dire panzane sempre più grosse e i poliziotti nel metterne in luce le grossolane velleità. Ma anche..un duello tra comportamenti: quello di Sibley di nascondere la verità, quello della polizia nel non rendere manifeste le proprie vere intenzioni. Sullo sfondo c’è un vero assassino che non viene mai sfiorato dall’inchiesta, e neanche quando Sibley scampa alla condanna che lui ritiene certa, la polizia ritiene di avviare indagini serie che portino all’individuazione dell’omicida.
Il romanzo è un devastante ritratto psicologico di quello che noi diremmo “un borghese piccolo piccolo” parafrasando un celebre film di Monicelli interpretato da Alberto Sordi, l’uomo comune che sospettato, pur essendo innocente, proprio perché sospettato finisce per costruire la rete in cui alla fine incappa: per paura di essere sospettato, finisce per esserlo davvero.
La struttura del romanzo si basa su due piani temporali che si incastrano vicendevolmente: il presente, in cui avviene l’omicidio e la relativa indagine che poi si indirizza nei confronti di Sibley; il passato, presente in forma di un flash-back prolungato, cui induge Sibley per spiegare il sentimento di vassallaggio, quasi un rapporto masochistico suo nei confronti di Prosset; e le sue donne.  Ogni volta che lui mente alla Polizia e ritiene di aver finalmente dissolto i dubbi, la trappola si stringe; e ogni volta che la tenaglia parrebbe riaprirsi, ad una nuova bugia, si stringe ancor di più. Ed è il suo inconscio a guidare le azioni dei due poliziotti: è come se Sibley cercasse inconsciamente di essere incolpato per pagare il fio delle proprie azioni, per essersi comportato in maniera indegna con Cynthia che ha trattato sino a quando la sua compagnia non si è trasformata in un qualcosa di veramente serio (per lei).
Capolavoro di introspezione psicologica, il romanzo è narrato in prima persona: proprio la mancanza di un’azione narrante impersonale in terza persona, conferisce al discorso la qualità di una riflessione profonda, intima, quella che chiunque di noi potrebbe avvalorare trovandosi nella stessa situazione di sospetto: il ritmo serrato, e privo di pause, l’attesa di nuove bugie, che puntualmente vengono presentate , rende la lettura quantomai tesa, con una tensione molto hithcockiana. Non a caso molti soggetti di Hitchcock riguardano non tanto il colpevole da acciuffare, quanto l’innocente da salvare, che è poi il motivo dominante di questo straordinario romanzo: una corsa contro il tempo, di cui si crede di conoscere l’ineluttabile fine, e che invece riserva un finale dolce. Senza però che l’assassino di Prosset venga acciuffato.
Perché il cattivo per antonomasia qui, non è il colpevole ma la vittima, l’assassinato. E quindi, in ultima analisi, la fanno franca, sia il falso colpevole che il vero.
Se dovesse essere rivelata la morale del romanzo, questa sarebbe la seguente: conviene sempre dire la verità. Le bugie, quasi mai, non vengono scoperte.

Pietro De Palma

sabato 1 aprile 2017

Ngaio Marsh : Il guanto insanguinato (Death at the Dolphin, 1966) – traduz. Lia Volpatti – I Gialli di Qualità Rizzoli N.15 dell’ 11 settembre 1975.

Quando lo trovai, tempo fa, in una libreria antiquaria, venduto ad un euro, avevo già letto qualche recensione di lettori cui non era piaciuto. Ma si sa “De gustibus non disputandum est” e quindi..contemplavo anche la possibilità che il libro in realtà sarebbe potuto piacermi.
Non so, ma evidentemente anche il fatto che fosse un romanzo di Ngaio Marsh, fece il resto, e così lo acquistai.
Non l’ho preso in mano fino agli inizi di luglio, quando, per 9 giorni, sono stato su una spiaggia anche sotto un ombrellone: devo dire alla fin fine che aver acquistato il Marsh, è stato una scelta azzeccata.
Ngaio Marsh, neozelandese, è stata una scrittrice di grande talento e di gran gusto, molto raffinata nella sua scrittura, che ha privilegiato nei suoi romanzi le atmosfere pittoriche e ancor più teatrali, conseguenza del fatto che lei stessa per gran parte della sua vita è stata un’apprezzata regista teatrale, avendo ancor prima studiato pittura, e che solo nel tempo che le avanzava scriveva polizieschi; nonostante ciò, in un periodo che va dal 1934 con da A Man Lay Dead al 1982 con Light Thickens, ha consegnato alle stampe 32 romanzi, alcuni dei quali trattano tematiche legate agli ambienti teatrali o artistici (pittorici). Tra i primi è compreso il romanzo in oggetto, che tratta di un teatro e di una recita shakespeariana (non scordando che molte delle produzioni dirette da Ngaio Marsh erano di drammi o commedie di Shakespeare), e che nel 1967 fu finalista dell’Edgar Allan Poe Award (l’Edgar Award quell’anno fu vinto da The King of the Rainy Country di Nicolas Feeling: Come il re d’un paese piovoso, Garzanti R 66 N.12).
In Death at the Dolphin si parla di teatro e di Shakespeare; tuttavia il delitto non arriva subito, ma dopo un’ elaborata introduzione che, diversamente da altri romanzi, non serve tanto per rendere visibile al lettore una situazione di odio o invidia o gelosia che possa sfociare in un omicidio, quanto creare il presupposto perché si abbia il delitto.
Peregrine Jay, commediografo e regista teatrale, ha un sogno: salvare dall’oblio e dalla distruzione completa il Delfin, un teatro liberty che sta andando in rovina, abbandonato e rovinato dall’incuria e dal tempo. Un bel giorno vi si reca e dopo aver ammirato le forme, le sculture, la linea della platea e dei palchi e aver respirato l’aria, ora polverosa, di un grande teatro dell’epoca, riempito da una folla di appassionati un tempo, mentre ora lo è da ragni e topi, volendo provare il palco, laddove si erano esibiti attori importanti, non si avvede di un grosso buco, provocato da una bomba sganciata da un aereo tedesco, riempito ormai di acqua putrida, e vi cade dentro, senza possibilità di uscirne, con la prospettiva reale di morire annegato, senza che nessuno possa sapere che lui è lì disperato a cercare di non morire in quell’acqua fredda e puzzolente. Quando ormai le sue speranze sono svanite ed è lì intorpidite che sta quasi per cedere la propria volontà all’abbraccio della morte, una mano lo afferra e lo trae in salvo: è la mano di Vassily Conducis, un favoloso miliardario greco, proprietario del teatro, che si sente in colpa per quanto accaduto a Jay. Fatto sta che, portato a casa Conducis e lì cambiatosi, lavatosi e rifocillato, Conducis gli fa vedere una cosa estremamente rara: un guanto che si ritiene sia appartenuto al figlio morto di William Shakespeare, di cui è venuto in possesso; e gli racconta la storia legata ad esso. Jay, reso alquanto brillo dai punch che gli son stati dati per scaldarsi dopo l’avventura gelida del teatro, comincia a fantasticare, e durante un’appassionata filippica, contagia Conducis con i suoi sogni, di far rivivere il Delfin legandolo ad una commedia basata proprio sulla storia di quel guanto. Fatto sta che Conducis, quando lui è ritornato sul terreno della realtà, gli offre una possibilità più unica che rara: finanzierà a sue spese la ricostruzione del teatro, a patto che Jay vi rappresenti, con un’adeguata compagnia, una vicenda legata al guanto di Shakespeare. E in cambio, la pubblicità che verrà creata allo scopo di rilanciare il teatro, servirà anche a rendere appetibile la vendita del guanto a collezionisti stranieri: il guanto dopo adeguatata perizia, tesa a confermare l’autenticità almeno del tempo di creazione, verrà riposto in una cassaforte collegata a sistemi di sicurezza, posta all’interno del teatro.
Intanto Jay deve allestire lo spettacolo sulla base di un testo che lui stesso ha inventato, ma gli attori che formano la compagnia fanno di tutto per appesantire il suo compito: tra capricci da prima donna di Gertrude Bracey e scocciata voglia di ripetere le parti fino alla perfezione da parte di Marcus Knight, tra punzecchiature continue di Hartly Grove, e patriottica rivendicazione del cimelio del guanto all’Inghilterra da parte dello scenografo e amico di Peregrine, Jeremy Jones, le prove dello spettacolo che deve essere allestito vanno avanti. Ma ben presto soprattutto Marcus e Hartly arrivano ai ferri corti per reciproci affronti: una notte qualcuno ruba il guanto e nello stesso tempo uccide il guardiano e tenta di uccidere l’attore più giovane della compagnia, che normalmente impersona il figlio piccolo di Shakespeare, quello cui viene regalato il guanto e che poi muore: il bello è che anche nella realtà il ragazzo rischia di dipartire affrettatamente, cadendo (lanciato o inciampato per errore dopo una lotta con l’assassino) da una balaustra. Il fatto strano è che il guardiano aveva addosso un cappotto a riquadri marroni che gli aveva regalato proprio Hartly: si insinua quindi il dubbio che qualcuno abbia ucciso il guardiano avendolo scambiato per Hartly Grove.
A questo punto entra in scena Sir Roderick Alleyn, Sovrintendente di Scotland Yard, che dovrà investigare in un ambiente in cui spesso gli attori continuano a recitare anche nella realtà di tutti i giorni, sondare anche i più piccoli particolari, e arrivare alla fine all’individuazione dell’assassino, che sarà ancora una volta il meno probabile : sarà uno degli attori, o lo scenografo? O forse sarà lo stesso Conducis o la collezionista americana Constantia Guzman sotto mentite spoglie?
Dopo una caccia al topo, con numerosi colpi di scena, l’individuazione del colpevole arriverà in virtù di un piccolissimo particolare, che sfugge all’attenzione ma che ha un valore fondamentale per la soluzione finale, anche se il movente verrà rivelato alla fine ed sarà anch’esso una sorpresa.
Quello che si nota immediatamente, leggendo il romanzo, è che l’atmosfera teatrale non è finta, non è stata inventata da chi non conosce quel mondo, ma è stata costruita basandosi su tante esperienze personali: i rimbrotti, gli screzi, le rivalità, le invidie, le gelosie tra attori, sono resi con grande maestria, da chi probabilmente li viveva quotidianamente. Inoltre, l’attaccamento a quel mondo è reso in maniera intensa: si sente l’amore per il teatro, unito ad una voluttà che può essere capita da chi vive una passione per qualcosa: quando Peregrine è nel teatro in rovina e immagina come quel teatro sarebbe dovuto essere, vede con gli occhi della mente i palchi, il palcoscenico, la galleria, i corridoi, le pitture, le sculture lignee, i marmi, è come se li stesse vedendo in quel momento Ngaio, perché Peregrine Jay regista teatrale è Ngaio Marsh regista teatrale. Solo che Ngaio è anche scrittrice, e così state pure sicuri che Peregrine non sarà certo l’assassino; e che in fin dei conti, accanto a Roderick Alleyn, sarà il personaggio più vivido e più simpatico, fra tutti quelli presentati.
E’ questo che rende il romanzo una lettura estremamente appagante e per niente noiosa.
Inoltre Ngaio Marsh si conferma scrittrice di razza e di finissimo gusto nella costruzione del plot, invero piuttosto complesso: non è affatto semplice individuare il filo di Arianna in questo intricato labirinto di odii e bugie. Man mano che si snocciola l’indagine, si assisterà a rivelazioni che possono avere una propria importanza come pure possono non averla; oppure possono addirittura imbrogliare le carte, oppure possono ordinarle. Basta solo inquadrare l’indizio determinante, tra i tanti forniti, e si avrà la soluzione: solo che non sarà per nulla facile superare Ngaio Marsh in quanto ad acutezza!
Non aggiungo altro perché questo è un romanzo da leggere e da gustare. E si tenga presente che è un romanzo del 1966, cioè quando la Marsh aveva 71 anni: eppure fa specie che tutto sia così fresco e immediato, anche se velato da una melanconia struggente.
Una riscoperta.

Pietro De Palma