venerdì 10 novembre 2017

Rex Stout : Scacco al re per Nero Wolfe (Gambit, 1962) – trad. Laura Grimaldi – I Classici del Giallo Mondadori N° 999 del 2004


In Italia il romanzo è noto sotto il titolo di Scacco a Nero Wolfe, ma in realtà quello originale è Gambit, che non significa “stratagemma” ma “Gambetto”. Il  “Gambetto” è uno dei metodi che lo scacchista puo utiizzare per indirizzare una partita: in sostanza, è un’apertura con la quale, sacrificando uno o più pedoni, si consegue un certo risultato, guadagnando tempo oppure dei pezzi più pregiati. Perchè Gambit?
Innanzitutto diciamo che il titolo americano inquadra perfettamente il romanzo, mentre quello italiano è più vago, meno allusivo e meno diretto.
Nero Wolfe viene assunto dalla figlia di Matthew Blount, Sally, in quanto il padre, che è stato arrestato per la morte di Paul Jerin, rischia la pena capitale, poichè gli indizi in mano alla polizia sembrano schiaccianti. In realtà è Archie Goodwin a perorare la causa della ragazza e ad accettare l’incarico per il suo principale prima ancora che questi lo sappia.

La ragazza è disperata ed offre 22.000 dollari, il frutto della vendita di alcuni suoi gioielli, a Wolfe perchè riesca a dimostrare l’innocenza del padre. In realtà la faccenda sembra disperata: Blount che è lo scacchista più in vista di un club esclusivo, aveva organizzato 12 partite in simultanea con Paul Jerin, un maestro di scacchi molto noto, mettendo in palio dei premi. Jerin, invece però di sostare nella stessa sala, sarebbe stato a disposizione in una saletta privata, senza una scacchiera, ma formulando mosse e contromosse solo con la forza della mente, sorseggiando tazze di cioccolata calda, di cui è ghiotto. A consentire ciò sarebbero stati 4 messaggeri che si sarebbero avvicendati tra la saletta e la sala delle partite: Dan Kalmus, legale di Blount, e a dirla con le parole della figlia, segretamente innamorato della di lei madre, Anne; Charles Yerkes, vicepresidente della banca presso cui opera anche Blount; Morton Farrow, nipote di Anne Blount, moglie di Matthew; e infine Ernst Hausman, grande agente di borsa, amico intimo di Matt e padrino della figlia.

Disgraziatamente qualcuno attenta alla vita di Jerin versandogli nella cioccolata calda tanto arsenico da provocarne la morte. Siccome il solo ad aver portato la tazza era stato Matt, che aveva pure lavato quella che secondo l’accusa avrebbe contenuto la dose mortale, riempiendola poi di altra cioccolata, e secondo alcuni avrebbe avuto come movente la vendetta per certe avances fatte da Jerin nei confronti di Sally, lui stesso era stato accusato di omicidio di primo grado, e arrestato.
Wolfe, essendo le accuse schiaccianti, decide di partire dal presupposto che Matt sia innocente e che quindi qualcun altro debba aver ucciso Jerin per qualche oscura ragione. In altre parole che uno dei quattro messaggeri sia l’assassino.
Tuttavia sa benissimo che la via sarà impervia. Inoltre deve anche combattere contro Kalmus, che non vuole avere Wolfe tra i piedi, nonostante – essendo non un avvocato penale, ma civilista – non sia il miglior legale per un uomo condannabile a morte.
La vicenda diventa meno scontata quando è lo stesso Ispettore Cramer a fornire la prova di un diverso modo di intendere la faccenda: tutti e quattro i messaggeri non avevano mai conosciuto Jerin e quindi non avrebbero avuto alcun motivo per desiderarne la morte. Partendo dal presupposto che Matt, essendo innocente, non l’avesse ucciso neanche lui, Wolfe formula un’altra ipotesi, ancora più cervellotica: che cioè qualcuno abbia sacrificato Jerin conseguendo al tempo stesso un altro risultato: far incriminare Blount e farlo uccidere con sentenza capitale. Cioè, in termini scacchistici, che abbia utilizzato il Gambetto: ha sacrificato un pedone (Jerin) puntando all’eliminazione di un pezzo più grosso (Blount).

Wolfe arriva a questa sensazionale intuizione, analizzando anche le mosse dei vari giocatori, e scoprendo come alcune erano finalizzate a confondere le acque, senza un apparente fine di gioco mentre altre erano più logiche. La confusione mentale e il blando sedativo versato nella cioccolata, avrebbero dovuto offuscare la capacità analitica di Jerin, consentendo ad alcuni giocatori di vincere più facilmente. E quindi al club di guadagnare in notorietà.
Wolfe inizialmente pensa che l’avversione di Kalmus a lui stesso, sia strumentale: ossia, se fosse lui l’assassino, starebbe facendo tutto questo perchè Nero Wolfe non se ne occupasse e così condannerebbe a morte il suo assistito, e potrebbe poi sposarne la moglie.
Kamus rigetta le accuse, anzi dimostra di aver per primo pensato alla soluzione di Wolfe, non trovando però chi avrebbe potuto commetter il delitto.
Wolfe decide allora di sentire gli altri: oltre Ernst Hausman – che si era presentato spontaneamente, suggerendo a Wolfe una soluzione molto arrangiata e sbrigativa, facendo sì che fosse il cuoco a sopportare il massimo fastidio, avendo preparato lui la cioccolata in tazza – Wolfe convoca gli altri tre, li interroga, e conclude poi che nessuno dei tre, sembrava che non c’entrasse nulla.
Eppure uno deve esser stato, se il dottor Avery, anche lui scacchista, ha soccorso Jerin e gli ha dato l’antidoto senza però fargli la lavanda gastrica, non essendoci gli strumenti adatti allo scopo,  anche se poi Jerin è morto lo stesso.
Persuasosi che ad uccidere Jerin sia stato Kamus, ordina ai suoi uomini di setacciar la casa di Kamus, che vive da solo essendo vedovo e coi figli oramai grandi e sposati, e trovarvi l’arsenico mortale. Ma qual’è la sorpresa di Archie e Sally, accompagnati all’appartamento dal portiere dello stabile, quando ritrovano Kamus morto stecchito e strangolato!
Tutto da rifare? NO. Perchè partendo dal presupposto che  nessuno avesse potuto avvelenare il bricco, e venendo a sapere che Matt qualcosa l’aveva messa nella tazza, anche se non arsenico, cioè un sedativo in grado di obnubilare le facoltà mentali di Jerin e permettergli quindi di avere la meglio scacchisticamente nei suoi confronti (ed è cosa che sapevano almeno altre due persone), capisce (è preceduto da Archie però) chi possa essere il duplice assassino e gli tende una trappola. Wolfe, in una riunione improvvisata a casa sua, finge di essere sconfitto (e restiuisce all’uopo i 22.000 dollari) e nella stessa sede, davanti a tutti gli attori del dramma (i 4 messaggeri, Avery, Sally e la moglie di Matt, Anne) dichiara di avere anche licenziato Archie per negligenza sul lavoro. Il fine della messinscena è che Archie, svincolato dal lavoro di investigatore presso Wolfe, si finga ricattatore, e faccia una telefonata ad uno degli attori del dramma, convocandolo presso un noto ristorante della città, promettendogli di non rivelare certe cose, dietro compenso di 100.000 dollari. Messo alle strette ed ingannato abilmente, all’assassino non apparirà altro da fare se non uccidersi, visto che Wolfe ha fatto in modo pure che i discorsi tra Archie e l’assassino nel ristorante fossero registrati grazie a dei microfoni abilmente dissimulati in vari punti del ristorante.

Romanzo del 1962, Gambit è per certi versi una delle migliori opere di Wolfe e può essere messo alla pari con romanzi famosi scritti prima del secondo conflitto mondiale. E’ un mystery! E che mystery! Mischia abile e cervellotica analisi psicologica ad un’analisi dettagliata degli indizi. Per certi versi è una delle opere di Rex Stout che più si avvicina ai modelli queeniani: l’aver concepito un movente così sottile, è di per se stessto un’opera d’arte.
Io credo che Wolfe pensi al Gambetto e quindi alla possibilità che qualcuno abbia ucciso Paul Jerin per conseguire un fine indiretto, cioè  l’eliminazione di Blount attraverso la morte del primo,innanzitutto pensando al Club in cui è avvenuto il delitto: se infatti il Club è dedicato al Gambetto è lecito supporre che gli iscritti lo conoscano e lo pratichino. E che quindi anche lo stesso assassino, poichè il cuoco ed il maggiordomo sono stati fin dal principio esclusi dal novero dei sospettati, sappia cosa sia. E che siccome l’assassino, senza pensare alle sue parole, in una sorta di autodifesa delle proprie capacità scacchistiche,  rivela in due distinte occasioni, a lui prima, e ad Archie dopo, di aver giocato il contro gambitto di Albin, che Houghtelin aveva usato nella partita con Dodge nel 1905, vincendo alla sedicesima mossa, come sua risposta alla mossa di Jerin che Yerkes gli aveva comunicato ( pagg. 106 e 164), quando ancora Wolfe non sospetta che lui sia l’assassino, fà sì a mente lucida, dopo aver eliminato tutte le altre possibilità, i sospetti si indirizzino nei suoi confronti. Del resto, la stessa risposta dell’assassino sull’ipotesi che lui praticasse il contro Gambetto nei confronti di Jerin, potrebbe anche significare a livello inconscio, una ammissione di responsabilità: come a dire, “scemo che non sei altro, io sono l’assassino e tu non te ne sei neanche accorto!“.

Il “contro gambetto Albin”, è una difesa inusuale contro un tentativo di “Gambetto di donna”: se il pedone bianco davanti  al re muove in d4 quello nero del re risponde in d5, causando un avanzamento del pedone bianco davanti all’alfiere in c4 e come risposta quello del pedone nero davanti alla regina in e5. In questo modo il pedone nero si trova ad avere maggiore forza d’urto e campo d’azione davanti alla difesa dei bianchi.
Da varie fonti si viene a sapere che questa difesa scacchistica venne utilizzata per la prima volta in un torneo italiano nel 1881, ma divenne famosa quando un campione della scuola scacchistica viennese, Albin, la usò per la prima volta in America, durante il Torneo di New York, nel 1893, contro Lasker. Fu poi usata da Lasker contro Hodge nel 1905, da Alekhine, e da altri. Recentemente da Nakamura in America.

Nel testo si fa riferimento ad una partita che sembra non si sia mai svolta: non esisterebbe infatti da mie ricerche un Houghtelin contro Dodge, ma un Lasker contro Hodge nel 1905.
Inoltre si fanno altri riferimenti scacchistici.

Nel capitolo 3, quando Archie si reca al club scacchistico nella Sesta Avenue, all’interno vede una scacchiera con i pezzi in avorio e lapislazzuli che pare fosse stata usata nientemeno che da Luigi XIV, e su cui era stata svolta una celeberrima partita rimasta agli annali, nel 1858 a Parigi ,”The Opera Game”, tra il maestro di scacchi americano Paul Morphy da una parte e altri due celebri giocatori dall’altra in coppia: il Duca Karl II di Brunswick e l’aristocratico francese, il Conte Isouard (pag. 42).


Sempre nel terzo capitolo, Archie assiste casualmente ad una partita nel Gambit Club e confessando di non capirci un’acca, dice “conceded that I would never be a Botvinnikk” (espressione che manca del tutto nella traduzione approntata al tempo da Laura Grimaldi): Mikhail Botvinnik fu un grandissimo campione di scacchi sovietico, Gran Maestro e Campione mondiale di scacchi per ben tre volte. Poi nel cap. 7 a pag. 92, Morton Farrow, nipote di Anne Blount, uno dei quattro messaggeri, in merito alle sue qualità scacchistiche, ammette davanti a Wolfe che in sostanza non è che gliene freghi molto degli scacchi e che se li pratica (conosce tutte le aperture ma poi non sa come procedere) è perchè il suo zio acquisito dice che sviluppino le capacità cerebrali. Lui obietta che se ciò fosse vero anche Bobby Fischer dovrebbe essere intelligente,cosa che lui non crede (“I’m all right the first three or four moves, any opening from the Ruy Lopez to the Caro-Kann, but I soon get lost. My uncle got me started at it because he thinks it develops the brain. I’m not so sure. Look at Bobby Fischer, the American Campion. Has he got a brain?“).
Il romanzo è molto interessante anche per altre cose, perchè condivide particolari del plot con 3 racconti scritti da Stout precedentemente.

Innanzitutto, la collocazione del ristorante “Piotti”: in Poison à la carte, racconto del 1960 (tradotto in Italia col titolo “Colpo di genio“) il ristorante è collocato nella 14^ Strada ad Ovest della Seconda Avenue, mentre nel romanzo è posto nella 13^ Strada ad Est della Seconda Avenue (pare che Stout non fosse molto preciso su determinati particolari nei suoi romanzi). E poi… la registrazione tramite magnetofono e microfoni, che avviene dentro il ristorante, condivisa proprio col racconto Poison à la carte; l’assassinio che avviene con la somministrazione del veleno tramite un alimento, che era già stato collocato nel racconto “Cordially invited to Meet Death” del 1942, tradotto in Italia come  “Cordialmente invitati ad incontrare la morte” (contenuto nel volume Orchidee nere); ed infine, il modo di eliminare un avversario attraverso la morte di un innocente, che era già stato usato nel racconto “Method tree for murder” del 1960, tradotto in Italia col titolo “Assassinio indiretto”.

Pietro De Palma

martedì 7 novembre 2017

Margery Allingham : L’ora del becchino (More Work for the Undertaker ,1948) – trad. Diana Fonticoli – Il Giallo Mondadori N.2987 del 2009


Margery Alligham è una delle esponenti più famose della della Golden Age del romanzo poliziesco, formando assieme a Agatha Christie, Ngaio Marsh e Dorothy Sayers le cosiddette 4 “Crime Queen”
Nacque a Londra nel 1904, in una famiglia in cui il pane quotidiano era la letteratura: i genitori erano scrittori, una zia possedeva una rivista letteraria. Durante l’infanzia la famiglia si trasferì nell’Essex dove lei attese agli studi. Tornata nel 1920 a Londra, frequentò studi recitazione e conobbe il futuro marito, che la aiutò sempre nella sua attività editoriale, progettando molte delle copertine di suoi libri.
Esordì nel 1923 con Blackkerchief Dick, un romanzo in cui c’erano elementi di occultismo, senza avere un folgorante successo, e stessa cosa si ripetè più tardi, nel 1928, quando il suo primo poliziesco fu pubblicato sulla carta stampata a puntate, The White Cottage Mystery. Tuttavia il vero successo lo ebbe quando dette alle stampe il suo primo romanzo, The Crime at Black Dudley, 1929, in cui introdusse il suo personaggio fisso, Albert Campion, una via di mezzo tra vari personaggi di altri autori : il Lord Peter Wimsey (della Sayers) e il Roderick Alleyn di Ngaio Marsh (è un personaggio che oscilla nell alte sfere della nobiltà) e  Philo Vance di Van Dine (l’upper class della borghesia). Dipana misteri, ma vive anche avventure. Inoltre, confezionando i personaggi di Campion e Lugg, Allingham dimostra di aver assimilato l’idea base, seguita molte volte dagli scrittori degli anni venti e trenta, di un investigatore assistito da un suo collaboratore.
Il primo come si sa fu Sherlock Holmes col fido Watson. A rompere le scatole dello schema non fu però Leblanc, che confezionando Arsene Lupin e mettendolo a confronto con un sedicente Herlock Sholmes,  aveva messo in ridicolo il personaggio di Doyle e lui stesso, ma Chesterton che inventò il prete-detective Padre Brown dandogli come assistente collaboratore un ex ladro, Flambeau, diventato poi detective. La Allingham mi pare che attinga proprio da Chesterton e da questa idea base, per creare la coppia Campion-Lugg, non dimenticando che Flambeau è una derivazione stessa di Lupin, ladro e detective (per fini propri) nello stesso tempo.
Spesso, a differenza di altre esponenti, che fanno agire i loro personaggi solo entro contesti ben assestati di alta borghesia (in cui vittime e assassini rientrano in questo organigramma), l’Allingham non disdegnava far convivere elementi di criminalità comune nelle sue storie, in questo ereditando un clichè che era proprio dei primissimi polizieschi quelli degli anni ’10 ma anche inizio degli anni ’20 (Meirs, Wallace, Holt, Rohmer, Farjeon, etc..). Proprio in risposta a questa tendenza che si vede più volte espressa nei suoi romanzi, cioè di far convivere detection pura e una specie di hard-boiled all’inglese, le sue storie sono spesso non convenzionali e hanno notevoli punti si sorpresa.
Come appunto nel romanzo “Il giorno del becchino” (More Work for the Undertaker ,1948), un’opera che si situa nella secondà metà della sua produzione ( la prima che va grosso modo sino al 1938, comprende dieci romanzi scritti in nove anni, in cui il personaggio di Campion è predominante nella storia e ha caratteri spiccati di whodunnit; la seconda che va dal 1941 al al 1968 comprende 8 romanzi in 27 anni, in cui il personaggio principale tende a essere sminuito da altri via via presenti, e i romanzi stessi sono spesso molto più strutturati che quelli dei primi anni), con le sue più che 200 pagine, molti personaggi, molti subplots, e anche elementi di criminalità comune che rendono l’orizzonte del romanzo ancor più variegato e ricco, di quanto non appaia nelle prime pagine.
Sullo sfondo c’è una famiglia, i Palinode, un tempo il fulcro di un intero quartiere,  ridotta sul lastrico, i cui appartenenti, tutti fratelli, si comportano, alcuni come se il tempo non fosse passato, cioè con esagerata dignità di classe, trattando l’ambiente circostante come delle nullità (Evadne e anche Lawrence), altri con dignità quasi o del tutto assente, comportandosi come un indigente della massima specie, che viva di espedienti, mangiando e bevendo cose prese dai boschi o utilizzando le erbe, solo allo scopo di risparmiare (Jessica), altri ancora vivendo la propria situazione a metà, facendo parte della casa ma nel tempo stesso rigettandone le finalità, innamorata com’è di un proprio coetaneo (la nipote Clizia). Questa famiglia dimora nella propria casa, venduta nel tempo e di cui ora non sono più i proprietari ma solo dei pensionanti; condividono la loro vita, assieme ad altri inquilini, tutti un po’ strani: l’ex attore Carrie e l’ex militare, cap. Seaton. A dirigere il pensionato è Reneé, una conoscente di Campion.
Campion a malincuore si trova invischiato nella storia dei Palinode, invitato ad occuparsene anche dal cognato del suo maggiordomo e braccio destro Lugg, il becchino Bowlers.
E’ morta Ruth Palinode, ed una lettera anonima accusa il medico che ha stilato il certificato di morte, di averlo fatto frettolosamente: è una lettera velenosa, scritta da chi vuol far credere o è veramente, poco avvezza a scrivere bene. Ruth viene esumata e i resti degli organi sottoposti ad analisi, rivelano un’esagerata quantità di scopolamina, un veleno tratto da Giusquiamo, una pianta che cresce nel parco cittadino. In quest’ottica, si dispone anche l’esumazione della salma dell’altro fratello Edward, morto presumibilmente di colpo apoplettico. Ma siccome il certificato di morte, l’ha firmato lo stesso medico di famiglia che aveva attestato la causa di morte per ragioni naturali di Ruth, poi scoperta dovuta invece ad avvelenamento da scopolamina,  si dispone la riesumazione della salma anche di quest’altro fratello, che però fornisce esito negativo: è morto davvero per questioni cardiache.
Intanto però altri eventi si annodano a quello principale: in una cantina, i Bowlers fabbricano bare. Cosa trafficano con le bare, che escono di notte, da quella cantina? Apparentemente sono puliti, padre e figlio, ma Albert Campion non ci vede chiaro. Ancor più per il fatto che in fondo lui è stato invitato a occuparsi della faccenda per interessamento dei Bowlers, di Jas Bowlers, padre.
Tuttavia, questo strano e macabro traffico di bare, che avviene di notte, neanche che trasportassero morti di peste, cadaveri in decomposizione, fà da sfondo ad altri eventi che si sovrappongono, ad esempio eventi di cronaca nera che non c’entrebbero nulla col tronco principale dell’avventura, ma che qua e là appaiono e scompaiono; e in aggiunta a ciò, anche l’aspetto patrimoniale della vicenda, giacchè i Palinode sono diventati poveri anche per le vicissitudini legate alle disastrose speculazioni finanziarie di Edward che hanno spremuto le risorse finanziarie di famiglia, destinandole all’acquisto di azioni reputate da lui ottimi acquisti, ma poi rivelatesi niente più che carta straccia. Così in definitiva, perché mai qualcuno avrebbe voluto uccidere la vecchia Ruth, appartenente ad un’antica famiglia decaduta e in condizioni finanziarie pessime? Fatto sta che però Campion e la polizia scoprono che proprio pessime non sarebbero queste condizioni finanziarie, perché, anche se loro stessi non lo sanno ( o qualcuno invece lo sa?) alcune delle azioni in loro possesso e gestite dalla banca cittadina, sono legate allo sfruttamento di determinate miniere, vitali per certi interessi nazionali.
Il ginepraio in cui deve barcamenarsi Campion è quantomai arduo. A tutto ciò, si aggiunga anche che deve vagliare i moventi tra i potenziali assassini esterni e quelli interni alla casa, tra attori falliti e militari in pensione, tra cameriere pettegole e familiari superbi ma nel tempo stesso ridicoli nei loro tic, tra i quali emerge per esempio la voglia di economizzare, creando decotti e tisane che a loro modo dovrebbero fare bene apportando principi utili all’organismo, ma che invece sono estremamente tossici, quando non allucinogeni: quando per esempio, per curare un mal di denti, Jessica propina al malcapitato di turno una tisana a base di fiori di papavero che sì addormenta il mal di denti, ma che al tempo stesso lo imbottisce di oppio.
L’assassino, proprio approfittando di questo tic, cerca di eliminare un altro dei Palinode, Lawrence, facendo in modo che beva un decotto a base di cicuta, durante una festa, in cui agli invitati vengono propinati tisane di ortica e decotti di tanaceto o di erba mate; solo che il fratello, trovandosi dei frammenti di foglia in bocca e sapendo che la sorella è fissata in merito al filtraggio delle sue schifezze per ricavare dai residui altro materiale utile e quindi capendo che quella cosa che ha trangugiato non può esser stata preparata dalla stessa, fa in modo da vomitare, salvandosi la vita.
Ad aggravar il quadro della vicenda, di per sé caotico, si deve aggiungere il tentativo di omicidio del giovane  Dunning, amante di Clizia, colpito pesantemente al cranio da un corpo contundente, di cui non si capisce il fine, fino a che non viene acciuffato l’assassino, e scoperto un’ incredibile ridda di submoventi, che abbracciano la criminalità comune, le azioni ritenute nulle ed invece ricchissime, e i traffici notturni di bare e becchini. E che si collegano persino alla scopolamina usata dal dottor Crippen.
All’assassino Campion arriverà, ricordandosi dei bicchieri di sherry in cui erano inseriti dei fiori finti che aveva visto da qualche parte, e di cui qualcun altro ne conservava altri, assieme allo sherry e ad una boccetta contenente il veleno, perché costituiva attrazione per i visitatori, interessati alle vicende delittuose del dottor Crippen.
A differenza dei primi romanzi in cui il sentiero è dritto e definito, e quindi più classicamente il lettore ha in mano quasi tutti gli elementi per riuscire a valutare la vicenda nel suo insieme, qui, al lettore molto spesso vengono taciuti importanti elementi che poi portano o a scoperte nel corso del romanzo o addirittura alla scoperta finale dell’assassino, dei suoi complici e dei moventi. In questo, la Allingham si discosta palesemente dalle 20 regole elaborate da Van Dine, che erano state pedissequamente seguite nel corso degli anni ’30.
Anche lo stesso assassino arriva come un fulmine a ciel sereno, perché seppure sorprendente, forse lo è troppo, perché non è stato mai messo in rilievo nel corso del romanzo. Semmai lo è stato l’impiegato di banca, che al pari dei becchini, ha apparizioni oscure e spettrali, mischiandosi alle ombre: Congreve, fratello di una sedicente medium (amante di uno dei pensionanti) che ha inviato lettere anonime a vari personaggi della vicenda, tra cui il farmacista, un’altra delle vittime della mattanza, suicidatosi col cianuro. Ma Congreve, pur avendo conosciuto alcuni particolari della vicenda, non è l’assassino ma solo un volgare ricattatore: l’assassino è impalpabile nel corso del romanzo, fino alla sua scoperta finale: sembrerebbe che la Allingham volutamente l’abbia taciuto così da accrescere il suo ruolo nel finale.
Molti buoni propositi in questo romanzo, e tracce ereditate da altri autori: potrei citare La Rovina di casa Usher di Poe o anche La fine dei Greene di Van Dine o anche La Tragedia di Y di Queen, per quanto riguarda la serie di morti più o meno sospette tra i Palinode. Al di là di questo,
il romanzo è molto difficile da leggere, prolisso, pieno di giochi di parole, riferimenti, citazioni: non è certamente il romanzo che un lettore alle prime armi che si avvicina al genere, dovrebbe leggere. Per di più, parecchie delle citazioni e dei giochi di parola, che si perdono talora nella traduzione italiana, finiscono per appesantire la vicenda, già di per sé difficile da inquadrare. E alla fine si arriva più per forza di inerzia, e per voler davvero capire chi cavolo sia il responsabile e cosa c’entrino tutti questi subplots e submoventi, che per una effettiva tensione generata consapevolmente dallo stile della scrittrice.
Un romanzo estremamente affascinante per la trama e i personaggi surreali, ma poco adatto a chi lo voglia leggere per passare un pomeriggio: spesso, bisogna rileggere per riuscire a capire i nessi.
Un capolavoro (in inglese, la qualità stilistica dell’opera è altissima) per giallofili.

Pietro De Palma