martedì 28 marzo 2017

(Mary Dominic) Paul McGuire : Funerale in Paradiso (A funeral in Eden, anche come Burial Service, in edizione britannica, 1938) – traduz. Carlo Rossi – I Gialli Moderni n.4, Carlo Brighenti Editore, 1948, pagg. 96.



Paul McGuire (pseudonimo di Mary Dominic Paul MacGuire), fu un intellettuale, scrittore e diplomatico australiano.
Nacque nel 1903 a Peterborough, e fu educato in Istituti Cattolici. Nel 1927 sposò Frances Mary Cheadle, biochimico, e come lui, attivista cattolico.
Nono figlio, vide morire attorno a sé cinque fratelli ed una sorella: la sua fanciullezza fu pertanto triste, dominata dalla consapevolezza della fragilità umana, della morte e della ricerca della felicità.
Cominciò a scrivere in versi dall’età di dodici anni, ma alla poesia si affiancò l’impegno culturale cattolico, soprattutto dopo che incontrò la moglie, di famiglia agiata protestante convertita al cattolicesimo. La loro unione fu, al di là del resto, una grande unione di spiriti forti, entrambi accomunati dall’impegno culturale e personale nella loro comunità, di marchio cattolico-irlandese. Questa impostazione, di cattolicesimo inteso come servizio, fu sostituita da una basata sulla visione del mondo ispirato dalla tradizione cattolica, in cui l’apporto prettamente intellettuale era rivolto verso i grandi temi sociali, quando si trasferirono entrambi a Londra, entrando allora nell’orbita di Chesterton soprattutto.
Continuò a scrivere poesie, ma anche opere di critica letteraria, storia, e romanzi polizieschi: ne scrisse ben 16, nella più pura tradizione britannica, dal 1931 al 1940, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale prestò servizio nella Royal Australian Navy.
Dopo la guerra, fu prima giornalista, poi personalità di grande spicco nell’ambito della cultura di stampo cattolico, fondando gruppi e anche una Libreria Cattolica ad Adelaide (Australia), scrivendo poesie, e testi vari. In seguito intraprese la carriera diplomatica, divenendo prima Ambasciatore australiano in Italia, poi primo Ambasciatore presso la Santa Sede. Fu insignito della Gran Croce dell’Ordine equestre di San Silvestro. Fu anche rappresentante australiano alla Conferenza dell’O.N.U.
Morì nel 1978 ad Adelaide.
Paul McGuire fa parte di quella genia di scrittori australiani, più o meno conosciuti: oltre a lui, A. E. Martin, Arthur Upfeld, Arthur Gask, Geraldine Halls( conosciuta come Charlotte Jay), Pat Flower.
I suoi sedici romanzi, si strutturarono soprattutto in due serie, basate sui personaggi dell’Ispettore Capo Cummings e dell’Ispettore (poi Sovrintendente) Fillinger. 

La fama, come autore di polizieschi, la conquistò oltre che con There Sits Death (1933) tradotto da Polillo Editore come "La poltrona e il rasoio", con i suoi due ultimi romanzi: Burial Service (1938), e The Spanish Steps (1940). Tra i due, il migliore, quello che gli assicurò la fama e che fu ottimamente accolto presso il pubblico internazionale, tanto che ebbe due edizioni, americana e britannica fu Burial Service (A Funeral in Eden, nell’edizione americana). Per di più, Jacques Barzun e Wendell Hertig Taylor lo segnalano nel loro A Catalogue of Crime, tra le opere che essi hanno considerato Classici del Crimine dal 1900 al 1975.  Nella fattispecie, gli contendono la segnalazione per l’anno 1938, Georgette Heyer  (“A Blunt Instrument”), Rex Stout (“Too Many Cooks”) e l’altro australiano Arthur Upfield (“The Bone Is Pointed”).
Anni fa ne accennò Mauro Boncompagni nella Prefazione allo Speciale Mondadori “L’Isola dei Delitti”, e mi ricordo che ci fu un intervento sul Blog Mondadori che perorava la traduzione in Italia di A Funeral in Eden. Questo mio contributo a Paul McGuire è anche volto a dimostrare che nel passato del romanzo poliziesco in Italia, non c’è stata solo Mondadori ma una miriade di case editrici, conosciute magari solo dagli appassionati e collezionisti, tra cui appunto Carlo Brighenti Editore.
L’ambientazione del romanzo è quantomai singolare: un’isola, il fantomatico sultanato di Kaitai, nell’Oceano Pacifico, al cui capo è un “sultano” non musulmano, un suddito britannico, tale George Buchanan, erede di colui che scoprì l’isola e se ne appropriò, non essendo essa colonia di un qualsivoglia Stato estero: è lui a governarla e nel tempo stesso ad amministrarne la giustizia, insomma un monarca assoluto. Ma che guarda benignamente alle popolazioni indigene che la abitano e fa di tutto per proteggerle, soprattutto dal mondo esterno. Nonostante ciò, proprio per la lontananza dalle rotte usuali, ha accolto un gruppo di persone che si è ritirato lì, fuggendo dai clamori della vita quotidiana nella società civile: c’è Cooper, il capitano Hawkesbury, la dottoressa Alicia Murray che vi si è recata per studiare una malattia che colpisce gli indigeni, e altri personaggi: Swan, Mitchell, Thompson, Bernard. Ed una pittrice, Dorothy Roper.
La vita scorre mollemente sull’isolotto, fin quando un bel giorno arriva uno sconosciuto, tale Goulburn, a bordo di un battello. I suoi modi, il suo approccio piuttosto disinvolto, i suoi accenni al mondo civilizzato da cui proviene, gli inimicano ben presto tutti i personaggi che lo attorniano. Giunge persino ad inimicarsi il sultano, da cui pretende la concessione per lo sfruttamento dei vasti giacimenti di asfalto presenti sull’isola, minacciandolo di parlare male dell’isola e di farvi arrivare tutte quelle persone che egli non vuole arrivino.
Fatto sta che la notte successiva allo scontro verbale tra Goulburn ed il sultano Buchanan, il primo viene trovato morto, con profonde ferite e mutilazioni provocate dagli squali. Si pensa che ubriaco, si sia imbarcato per ritornare a bordo del battello, e che poi sia caduto in mare, affogato e poi straziato dagli squali. books?id=boK7TfYSQH4C&printsec=frontcover&img=1&zoom=1&imgtk=AFLRE72tq5Ovt_j0sEoSfnHxMhMtTb8CXvfL9_4FtRT5niM84g9R2ozgf8Ie6VOrcK7VbBeioUgq6dkKfsgdqe-rohfy34wKE7hFoSxsQi2dQUfIRY5HtfA
A supportare la prima tesi, quella dell’affogamento è il fatto che la barca si sia capovolta. Ma poi, strano, non viene trovato il tappo della valvola di sentina: in altre parole, la barca si è allagata perché mancava il tappo alla valvola. Che fine ha fatto? Non si trova. E per di più uno dei personaggi presenti sull’isola e che fino a quel momento hanno costituito l’entourage, quasi la corte di Buchanan, Thompson, fa capire agli altri come le pantofole di tela, che il morto ha ancora ai piedi, siano state infilate al contrario, come da qualcun altro che non fosse il morto. A questo punto, la tesi che prende corpo è che sia stato assassinato, si pensa per procurato affogamento. Prima, tuttavia,  che l’autopsia effettuata dalla dottoressa Murray, indichi che è morto a causa di percosse che gli hanno sfondato il cranio, posteriormente. 
Chi mai avrebbe potuto compiere un omicidio, in un Paradiso Terrestre come il sultanato di Kaitai, in cui boschi virginei contendono, a fiumi e laghi cristallini, la vita sull’isola?
Eppure qualcuno ha ucciso, con un oggetto simile per forma ad una staffa: sembrerebbe un poggia remo, ma poi potrebbe essere un bastone a forma di staffa, oppure altro. Fatto sta che le indagini vengono affidate da Buchanan (anche lui sospettato) a Thompson  che interroga i presenti, ne prende le impronte digitali, e svolge le indagini. A complicare la vicenda è il tentativo di sfondare il cranio del povero Goulburn, che poi si è scoperto chiamarsi Smith, ed essere un giornalista, incaricato da un comitato di affari, che è stato informato da qualcuno presente sull’isola dei giacimenti di asfalto, di prelevare campioni e di ottenere una concessione allo sfruttamento dello stesso: qualcuno con un mortaio, ha cercato di confondere il chiaro segno a forma di ferro di cavallo, sul cranio di Smith, maciullandolo. E temendo di essere scoperto, ha tramortito la dottoressa Murray che stava entrando nella camera mortuaria, insospettita dai rumori che da lì provenivano.
Successivamente viene ucciso Thompson, allo scopo di sottrargli la macchina fotografica Zeiss (che verrà successivamente trovata da Buchanan in un cassettone), in cui c’erano delle pose che l’assassino voleva distruggere; e viene anche trovato ferito gravemente Cooper, che nel frattempo era scomparso. Chi mai sarà l’assassino?
Il romanzo è furbescamente ambientato in una sorta di Arcadia, in un paradiso in cui non dovrebbe esserci violenza. Il modo di preludere all’omicidio è quantomai classico: vengono presentati i vari personaggi; poi, il misterioso Goulburn, che rompe l’atmosfera idillica; e infine gli scontri personali che lo stesso Goulburn ha con i vari personaggi prima tratteggiati. Fino all’inevitabile catarsi con il ritrovamento del cadavere. Il personaggio che sconvolge un determinato ambiente, provenendo dall’esterno, è un must, non solo dei romanzi ma anche del cinema : l’erede che ritorna; il figlio che si credeva morto; il soldato che era stato dato per morto in guerra, etc..
L’interesse della trama, sta nell’aver coinvolto tra i sospettati anche il sultano, cioè colui che dovrebbe amministrare la giustizia nell’isola; e soprattutto nel dispensare indizi falsi e veri, e false piste, con una indagine svolta su due percorsi paralleli : la prima, quella di Thompson, si basa su  indizi materiali ( impronte digitali, fotografie, tracce) che ci riportano a Freeman o a Conan Doyle (interessante è notare la posa di Thompson, che fuma pensoso una pipa, quasi fosse Sherlock Holmes); la seconda, si basa sull’esame dei moventi, degli alibi, di chi potesse trarne vantaggio, con un salto nella qualità dell’indagine, di tipo più moderno, svolta da Buchanan.
Infatti, un ulteriore interesse del plot sta nella doppia figura dell’investigatore: quello reale, che agisce in prima persona(e che poi viene assassinato), cioè Thompson; e quello che agisce nell’ombra, che svolge però i fili del movente trovandone il burattinaio: Buchanan.
A rappresentare un’ulteriore forma di interesse è il triplo finale, con l’individuazione di tre possibili diversi assassini, tutti in relazione ad un diverso oggetto usato da loro come arma: l’ultimo sarà quello giusto.
Un bel romanzo, tutto sommato, che ha uno stile fluido, fresco non appesantito per nulla da una traduzione, risalente a più di sessant’anni fa, che pur ricorrendo qua e là ad un italiano ormai vetusto, riesce, con la sua qualità, a renderne la lettura quantomai piacevole.

Pietro De Palma

sabato 25 marzo 2017

Peter Curtis : Marcia mortale in tre tempi (Dead March in Three Keys,1940) – trad. Luisa Benassi – Tascabili Martello, I Gialli del Veliero N.8 , Aldo Martelli Editore, Milano, 1950.


Chi dice che le pubblicazioni della Mondadori hanno sviscerato il Giallo e che non ci sia più nulla da far emergere, si sbaglia di grosso: accanto alla Mondadori, si è mosso tutto un mondo di Case Editrici oramai scomparse. Semmai potremmo dire che la Mondadori abbia incarnato un secolo di pubblicazioni e sia ancora in piedi; ed in questo non sbaglieremmo. Anche le altre case, quelle scomparse, però hanno dato un contributo non indifferente al genere: per es. la Aldo Martello Editrice di Milano.
La collana che mise in piedi, I Gialli del Veliero, ancor oggi apprezzata dai collezionisti ed appassionati, proponeva dei volumetti formato tascabile (da qui il nome Tascabili Martello), di autori di nicchia, con delle belle copertine a colori. Tra essi, questo N.8, Marcia mortale in tre tempi, di Peter Curtis.
“Chi sarebbe costui?”, avrebbe detto Don Abbondio.
Peter Curtis era lo pseudonimo che Norah Lofts, nata Robinson (scrittrice molto apprezzata in Inghilterra fino agli anni settanta, e autrice di più di cinquanta opere più che altro di narrativa storica), scelse per le sue storie gialle: infatti pensava che così gli affezionati lettori delle sue opere più romantiche, non rimanessero sconvolti dalla trama di un omicidio. Insomma una scrittrice in qualche modo vicina a Georgette Heyer, anch’essa scrittrice di narrativa amorosa storica e gialli, ma che non aveva abbandonato il suo nominativo più famoso.
In realtà nelle trame, espresse con lo pseudonimo di Peter Curtis, la Lofts introdusse dei caratteri stilisticamente molto vicini alle sue più conosciute opere: per esempio  la grande preoccupazione per le condizioni dei più poveri nella società, incapaci a mutarle; e delle storie di amore.
Dead March in Three Keys, del 1940, fu il primo di quattro romanzi, che ottennero notevoli successi di pubblico tanto da venir trasposti anche in films: per es. You’re Best Alone fu trasposto nel film Guilt is My Shadow (1950), mentre The Devil’s Own (conosciuto anche come The Little Wax Doll e Catch As Catch Can) fu la base della sceneggiatura di The Witches, film del 1966 con Joan Fontane.
Qual è la trama di “Marcia mortale in tre tempi”?
Eloisa è una bellissima ragazza, vissuta quasi sempre protetta dalla sua bambinaia, Emilia; è per di più molto ricca, ed ha una cugina, che le assomiglia come una goccia d’acqua, ed è solo un po’ più “in carne” di lei. Antonia (questo il nome della cugina) a differenza di Eloisa ha pochi mezzi, ma molti pretendenti. Tra questi Riccardo Couwen, un rampollo che ha dissipato la propria fortuna e a cui dell’antica fortuna, rimane solo una vecchia villa. Tra Riccardo e Antonia nasce una passione esplosiva, ed i due diventano amanti: poveri ma belli, avrebbe recitato un famoso film italiano. Ma i due capiscono che senza i soldi non si va avanti e così, Riccardo progetta un piano per accalappiare su suggerimento della stessa Antonia, la cugina ricca di quella, Eloisa, mentre la stessa Antonia accetta la corte di Giosuè Meekin, un cinquantacinquenne ebreo ricco. I due, tuttavia, riescono, in barba ai rispettivi coniugi, a liberarsi dei pomeriggi e vivono infuocate ore di passione.
Un bel giorno, la crisi di Wall Street del 1929 porta alla rovina anche Giosuè che muore di un colpo apoplettico in quanto scopre di aver perso la sua fortuna, e la povera Antonia si ritrova con qualche pelliccia e gioiello, ma senza una casa, per cui si mette a cercare lavoro.
Il buon Riccardo, che nel frattempo è diventato padre, ma i cui rapporti con Eloisa si sono sempre più incrinati, trova così modo per portarla a casa sua e la povera Eloisa, non sospettando nulla della tresca dei due ( ma lo sospetta Emma, la sua tata), è ben contenta di ospitarla. Un bel giorno, anzi una bella notte, un trambusto turba la quiete della casa: Diana, la figlia dei due, sta male e Emma Plumé lo grida nella notte. Il buon Riccardo Curwen, che ha messo su la scusa dell’insonnia per essere più libero dal controllo della moglie, dormendo in altra stanza, e quindi recandosi ogni notte in camera di  Antonia, non pensa lì per lì a fingere, ed invece di uscire dalla porta di servizio, salire in soffitta e ridiscendere dalla parte della sua stanza, apre la porta della stanza di Atonia, trovandosi faccia a faccia con Emma e anche la moglie. Insomma, la tresca è scoperta, ed Antonia deve andare via.
A questo punto Antonia si cerca altra occupazione e la trova in specie di pensione per aristocratici dove trova parecchi amanti. La pensione si trova a poca distanza dalla villa di Eloisa e Riccardo, e perciò i due riescono in stanze d’albergo a rubare dei pomeriggi, uno nelle braccia dell’altra. Le cose però tra Riccardo e la moglie peggiorano quando Antonia deve andare via: Eloisa cade in profonde crisi nervose, Riccardo non resiste alla lontananza di Antonia, e questa è lontana. A questo punto Riccardo concepisce il piano di uxoricidio, piuttosto affascinante, che si conclude magnificamente per lui. Ma quando i due amanti sono sicuri di poter convivere assieme godendo dei soldi di Eloisa, Emma non ci vede chiaro e decide di investigare: sarà lei a far condannare Riccardo.
Magnificamente scritto, opera del 1940, Dead March in Three Keys è un thriller, con una alta tensione, narrato in prima persona, con soggetti che cambiano la prospettiva della narrazione, a seconda dei capitoli, che qui sono delle vere e proprie parti. L’autrice le chiama però “movimenti”. Ce ne sono 5. E’ come se fosse, quindi, una suite: una suite dell’omicidio, in 5 movimenti, di cui i primi tre formano “una marcia mortale in tre tempi”: il primo tempo è affidato alla narrazione in prima persona di Emma, che viene licenziata alla fine dell’estate, e la sua figura assunta da una istitutrice Myra Daffield, assunta per occuparsi di Diana; il secondo è affidato alla narrazione di Riccardo che narra gli antefatti del dramma e di come si sia arrivati a premeditare un uxoricidio; il terzo ad Antonia, che si presta ad assecondare Riccardo ma che è all’oscuro del progetto di assassinio di sua cugina, che si realizza durante la sua narrazione, senza che lei sappia mai come si sia svolto: apparentemente infatti Eloisa è morta per un colpo apoplettico. Causato però da cosa? Lei non lo saprà, ma intanto godrà assieme a lui dei soldi della vittima, ingannandosi che essa sia morta senza che Riccardo ne sia stata cagione.
Gli altri due movimenti sono successivi alla morte: il quarto è di nuovo affidato alla voce di Emma, che non ci vede chiaro ed è intenzionata a vendicare la morte di Eloisa; mentre il quinto, il movimento finale, si conclude, con la voce del condannato, nell’attesa della prossima impiccagione, nella confessione di quello che è accaduto e che lo ha condannato.
Riccardo è presentato come una vittima del destino: infatti, nonostante il suo piano sia perfetto, egli non viene accusato sulla base del ritrovamento dell’arma e dello svelamento di tutto il suo piano (ingegnoso e veramente sottile anche per acutezza psicologica), ma sulla base di una falsa accusa che lo accusa di aver avvelenato progressivamente la moglie con la morfalina, un derivato della morfina, usato come narcotico, di cui paradossalmente lui non sa nulla: la moglie cioè si era imbottita di questo tranquillante per poter continuare a dormire, lei che non vi riusciva più, immaginando che il marito, che l’aveva sposata per i soldi, la continuasse a tradire con la cugina.
Come si vede, la trama del romanzo si basa sulla storia di un uxoricidio premeditato, dentro una grande storia d’amore: la storia dell’amore passionale di Riccardo e Antonia, stravolge le vite di altre coppie: Riccardo ed Eloisa, Antonia e i suoi occasionali amanti. Quello che rimane, fino alla fine, è un grande amore passionale: una storia di passione e di morte.
Scrivendo così, mi si potrebbe dire che io riveli già chi sia l’omicida: è vero, ma del resto è la storia che propone solo una direttrice di marcia. Infatti non ci troviamo dinanzi ad un giallo classico, in cui bisogna scoprire l’assassino in una rosa di sospettati, ma dinanzi ad un thriller, in cui se il piano di assassinio è noto e anche il futuro omicida, l’unica incognita è rappresentata dalla sua individuazione e condanna.
Intelligentemente scritto, con uno stile assai fluido e sottilmente psicologico, il romanzo della Lofts intrappola il lettore in una tensione crescente; stupiscono, inoltre, certe espressioni assai esplicite: Antonia si rivolge a Riccardo e dicendo che non è un miracolo di intelligenza, ammette tuttavia che è “un superbo amante”. Questo negli anni ’40. E per di più in un romanzo scritto da una donna, che evidentemente non aveva paura di esprimersi così direttamente, in quanto scriveva generalmente romanzi che parlavano di amori e di passioni, e si rivolgevano quindi ad un ben preciso pubblico: Norah Lofts, nata Robinson, era già nota al grande pubblico britannico per una moltitudine di romanzi storici, divenuti parecchi dei best-seller.
In un certo senso si potrebbe parlare anche di una inverted story a metà : infatti il primo movimento si riallaccia, completandosi, al quarto, ambedue narrati in prima persona da Emma Plumè, ad assassinio compiuto. In questo, potrebbe trattarsi di una inverted story. Che non lo è però del tutto: infatti, perché potessimo parlare “in toto” di inverted story, sarebbe necessario che il colpevole, per quanto il romanzo tenda ad una sola conclusione, fosse già acquisito e condannato, mentre qui non lo è ancora. In altre parole, l’inverted story che si può dire sia stata resa con un flashback della trama, nella narrazione in prima persona di Riccardo e Antonia, cioè dei due protagonisti negativi, termina laddove comincia la vendetta di Emma, che vuole fare giustizia e si conclude nel racconto di Riccardo, che riprende l’inverted story finendola con l’ineluttabilità di un destino annunciato.
Chissà se un giorno qualcuno non riprenderà questo romanzo e lo ritradurrà in italiano : lo meriterebbe senza dubbio.
Pietro De Palma

mercoledì 22 marzo 2017

Georgette Heyer : L’Indizio Incompleto ( The Unfinished Clue, 1934) - Traduz. Paola Chiostri Gori. Prima Edizione : Oscar Gialli Mondadori N.113 dell’ottobre 1983; ripubblicato in I Classici del Giallo Mondadori N.808 del 13/1/1998.



Son stato indeciso su che titolo dare a questo pezzo.
Avrei voluto optare per il sempre efficace “a volte ritornano”; ma poi, qualcuno dei lettori, oppure parecchi non avrebbero capito, e magari il titolo non avrebbe catalizzato l’attenzione, che invece un’indicazione più diretta riesce a fare egregiamente. Però, l’espressione fra gli incisi, avrebbe in questo caso sintetizzato meglio di altro le dinamiche del romanzo.
Il romanzo è un tipico esempio del mystery britannico, il mystery che noi diciamo più semplicemente “alla Agatha Christie” : pasticcini, feste di beneficenza, concerti, serate di gala, conversazioni amabili o meno, invidie, gelosie, odio represso, ricatti, eredità e quant’altro e..un bell’assassinio ovviamente. Che nella realtà di ogni giorno non lo è mai. Anzi, vedere una persona in carne ed ossa morta, assassinata, fa sempre senso; ma, assistere ad un omicidio di carta, emulare il detective nella ricostruzione logica dell’evento e concorrere alla risoluzione del caso, deducendo quanto sia di vitale, è altro. Ora, il mystery inglese, di solito è questo; e il sangue è sempre quasi asettico, tanto poco si indugia sul morto. Piuttosto, il romanzo è sempre incentrato sul resto.
Tuttavia questo non è un romanzo “di Agatha”: nei romanzi della Christie c’è più perfidia, cinismo, cattiveria, e spesso gli assassini uccidono pianificando l’omicidio, premeditandolo, o comunque trovandosi in una condizione favorevole, ponendo in atto le condizioni perché sia molto difficile (ma non impossibile, altrimenti Poirot o Miss Marple cosa ci starebbero a fare?) essere scoperti; qui, o comunque nei romanzi di questa scrittrice, tutta la cattiveria della Christie non c’è. Anzi…
Georgette Heyer è famosa in patria più per la narrativa storica che per quella poliziesca: è ancora il nome più celebre per i romanzi sul periodo per es. della Reggenza: amori, intrighi, odi, passioni, il tutto cucito con abile penna. Insomma, una scrittrice straordinariamente brava, che mise la sua penna al servizio dei lettori, perché anche se avesse voluto esaminare altri periodi storici, il successo dei Regency Novels fu tale e direttamente proporzionale alle richieste del suo pubblico, che la Heyer non potè esimersi dal soddisfarlo. Però, accanto a questa produzione caratteristica ed..enorme, ve ne fu anche una..versata al mystery.
Ma, come dice giustamente Anna Luisa Zazo, se la Heyer espresse in più occasioni la sua predilezione per l’ambiente storico medievale, e se il Medioevo fu un’epoca caratterizzata da regole e ruoli precisi, dal rispetto delle classi, da una società estremamente caratterizzata ma nello stesso tempo stremante rigida, definita, è evidente che la Heyer “sentisse l’esigenza di un ambiente retto da norme chiaramente riconoscibili e accettate da tutti, prevedibili, inafferrabili e tuttavia invalicabili, un habitat in cui il codice di comportamento fosse unico e rigidamente definito, nelle stesse trasgressioni”. Quindi, anche il mystery della Heyer, fu concepito in maniera tale che rispecchiasse la sua concezione dell’ordine e del rispetto delle regole, non solo romanzesche ma anche e soprattutto sociali: piccoli gruppi, chiusi, in cui i vari ruoli sono fissi e rigidi, quasi che ogni volta si dovesse recitare un copione il cui sfondo era se non uguale, almeno stranamente simile per concezione.
Perciò, quando mi sono avvicinato a romanzi della Heyer, lo confesso, son stato molto guardingo, tanto più che trattasi quasi sempre di volumi poderosi, con una caratterizzazione psicologica molto accentuata, e in cui gli indizi si trovano, se cercati, nell’ambito delle conversazioni che immancabilmente i presenti si rivolgono: quindi bisogna sorbirsi tutti i dialoghi, proprio tutti, non saltando a piè pari, quando si legge un romanzo giallo, e rivolgendo l’attenzione normalmente ad altri scenari: qui, bisogna davvero essere attenti. E quindi, i romanzi della Heyer, a mio modesto parere, pur se molto interessanti sono anche molto impegnativi, nella mera lettura. E quindi talora, potrebbero risultare anche un po’ pesantucci.
Non si tratta però del nostro caso: The Unfinished Clue, “L’indizio incompleto” nella traduzione italiana, romanzo del 1934, il terzo nell’elenco dei mystery della Heyer, dopo Footsteps in the Dark, “Passi nel buio” (1932) e Why Shoot a Butler, “L’omicidio di Norton Manor” (1933), è secondo me un piccolo delizioso capolavoro. Il romanzo ha leggerezza e nel tempo stesso straordinaria capacità di introspezione, dialoghi che sembrerebbero inutili, se non contenessero, opportunamente vagliati, importanti indizi, che solo il segugio di turno può individuare. Nel nostro caso, è l’Ispettore Harding di Scotland Yard, chiamato in causa dopo l’assassinio di un vecchio militare in pensione, il rozzo, bisbetico e anche dispotico Generale Sir Arthur Billington-Smith: egli è stato trovato, nel suo studio, pugnalato da un tagliacarte; pare tuttavia che nei momenti immediatamente antecedenti la morte, abbia cercato di scrivere qualcosa, una sillaba, nella fattispecie, “LA”, ma che probabilmente significava altro: un nome forse?
Al momento c’erano parecchie persone, nella sua residenza di campagna, la Grange, e parecchi provavano qualcosa nei suoi confronti: da suo figlio Geoffrey, figlio di primo letto, diseredato per la sua unione con Lola, una ballerina messicana di locali di second’ordine, a suo nipote, il Capitano Francis Billington-Smith, così amorale e cinico, e desideroso del suo patrimonio, a Lola, causa della rovina di Geoffrey, e fiera oppositrice del modo di vedere le cose del Generale, a quella specie di cugino del Generale, l’indecifrabile Stephen Guest, innamorato mancato, seppur per due anni di Lady Billington Smith, fino alla provocante Camilla Halliday, ospite insieme al marito e amici di famiglia o all’imperturbabile Emily Chudleigh moglie devota del Vicario Hilary Chudleigh, fiero oppositore dei costumi morali del Generale e del divorzio. Insomma un bel gruppo nutrito di potenziali assassini.E in mezzo a loro potrebbe esserci Laura (Theresa) E. Lamb, prima Lady Billington-Smith, e madre di Geoffrey. La cosa strana della traduzione di Paola Chiostri Gori, è che “per esigenze di traduzione”, il nome Theresa venga sostituito dal nome Laura, senza che si capisca il perché.
Quello che va detto, e che puntualmente accade anche in questo romanzo, è che l’assassino o l’assassina, insomma chi uccide, lo fa non con premeditazione, ma perché si vengono a creare le condizioni perché ciò accada: insomma un accidente qualunque che spinge all’azione, la cui mancanza avrebbe significato la salvezza della vittima. Che poi non è detto che lo sia veramente; come non è detto che l’omicida sia veramente la personificazione del male nelle sue varie sfumature (cupidigia, avarizia, accidia, gelosia, invidia, etc.etc.) come in tanti altri romanzi. Insomma in questo romanzo, come pure in altri della Heyer, niente è sicuro.
Così come se è insicuro il movente, figurarsi l’alibi, anzi gli alibi: vagliarli, non è cosa da poco. Soprattutto se qualcuno mente. L’omicida francamente secondo me in questo contesto la farebbe franca se..non dovesse fare i conti col passato: ecco perché ho detto che “a volte ritornano”. Accetta di dare la prova, o meglio l’indizio determinante all’Ispettore, solo perché sceglie di salvare un innocente dall’accusa di omicidio, Geoffrey Billington.
A dirla tutta, il plot del romanzo si basa sul tempo: l’indizio è connesso con l’ora ed il posto in cui dice di aver visto il giovane: se fosse andato via come ha affermato in un primo tempo, l’omicida sarebbe arrivato a sua destinazione prima dell’ora indicata come prova per scagionare il giovane; per farlo sarebbe dovuto andare solo a piedi. Ma..e qui entra in gioco l’acume dell’Ispettore e la sfortuna dell’omicida: le siepi che attorniano la strada. Esse, nel passato, erano tagliate più rade, ma nel tempo dell’omicidio non vengono più curate, per cui crescono disordinatamente e soprattutto oltre una certa altezza. L’omicida, non alto quanto l’ispettore, se fosse stato a piedi non avrebbe potuto vedere al di là delle siepi, e quindi doveva essere in altra condizione: questo significa che o la sua testimonianza non vale oppure che lui è partito dopo l’ora riferita nei primi interrogatori di polizia.
L’Ispettore deve sbrogliare una matassa insolitamente intricata; e nel frattempo che risolve brillantemente il caso (ma l’omicida,che è un personaggio credibile, a tutto tondo avrà il tempo di suicidarsi “classicamente” col cianuro di potassio), si innamora, ricambiato, anche della giovane cognata del generale, Dinah Fawcett.
Del resto, che Georgette Heyer sarebbe stata se non ci fosse stata anche una simpatica storia d’amore?

Pietro De Palma

sabato 18 marzo 2017

Gwen Bristow / Bruce Manning : L’Ospite Invisibile (The Invisibile Host, 1930) – Trad. Alberto Tedeschi – I Classici del Giallo, Mondadori, N° 188, 1974 / I Bassotti, Polillo, N°2, 2003.

I coniugi Gwen Bristow e Bruce Manning, scrissero solo quattro mystery, ma il più famoso dei quattro fu il primo, The Invisibile Host, scritto nel 1929 e pubblicato nel 1930.
In un appartamento di New Orleans, al 22^ piano di un grattacielo, arrivano alla spicciolata otto persone, tutte rappresentanti a vario grado il gotha cittadino. Ad attenderli non c’è il padrone di casa, come dovrebbe essere, ma la servitù. Man mano che arrivano, i convitati si interrogano sul senso di ciò, sospettando che l’anfitrione sia uno di loro e nello stesso tempo chiedendosi il perché del senso di quel comportamento. Quando l’ultimo invitato è arrivato, una voce proveniente dalla radio, annuncia che gli otto saranno i protagonisti di un appassionante gioco, quale mai si è visto nella loro città. Al primo istante di eccitazione, segue poi un senso di smarrimento e di terrore, quando vengono a sapere che il gioco, non è altro che una partita tra l’anfitrione e uno di loro, a turno, il cui palio è la vita: il prescelto dovrà combattere in astuzia col padrone di casa, per non morire.
Ma perché rimangono lì gli otto invitati? Perché il padrone di casa preventivamente ha dotato l’appartamento di ogni genere di diavoleria atta ad impedire loro di andare via o di alterare il corso degli eventi: nel caso volessero distruggere la fonte dei discorsi dell’assassino, ci sono quattro bombole di gas collegate all’apparecchio radio, pronte a saltare in aria; nel caso volessero scappare, le porte in metallo sono state collegate all’alta tensione; perfino la via di collegamento del giardino pensile sito pure al 22^ piano, viene chiusa; immaginando che dal giardino pensile gli otto potessero pensare di calarsi al piano sottostante, si sono legati i fusti delle piante rampicanti a fili dell’alta tensione; e per di più lo stesso giardino pensile è troppo alto rispetto al sottostante altro giardino pensile, ben 15 metri, per poter pensare di fare un salto; infine nel caso volessero provocare un incendio, ogni stanza è provvista  di un dispositivo che invece che spruzzare acqua diffonderebbe nell’aria gas venefico in grado di uccidere gli astanti
Tuttavia, prima di iniziare i giochi, siccome i convitati non sono tutti convinti delle intenzioni ostili del padrone di casa, quello li convince ad aprire un armadio a muro, da dove cade nella stanza un cadavere già bello freddo. Con un morto già nella stanza, gli altri terrorizzati non sanno che fare: così sono convinti a depositare il cadavere in una delle otto bare, nere con fregi argentati, che sono pronte a ricevere i loro contenuti, lì nel giardino pensile, all’ombra dei palmizi (brr…).
Da allora, in men che non si dica, si verifica un’autentico massacro e ognuna delle morti è preannunciata dal killer con un proclama alla radio, preceduto a sua volta da un gong.
Il primo a morire è il finanziere Jason Osgood, “colui che meno merita di vivere”. Sapendo che la sua sorte è segnata cerca di comprare la sua vita prima coi soldi, poi con la sua disponibilità ad uccidere gli altri, ed infine sospettando che l’assassino possa essere uno di loro, avvelenando con dell’acido prussico i drink che ha in mente di offrire agli altri sette invitati. Non sa però che nell’attimo in cui ha aperto la boccetta contenente il veleno, espediente suggerito dall’anfitrione nel caso in cui qualcuno di loro non avesse avuto la forza per andare avanti e avesse voluto farla finita prima, delle micropunte contenenti acido prussico lo hanno ferito trasmettendogli la dose mortale. Sarà lo stesso padrone di casa a fermare i convitati dal bere gli intrugli avvelenati, non per non farli morire quanto privarsi del piacere di poterli uccidere personalmente.
La seconda è Margaret Gaylord Chisholm, un’esponente dell’alta società, grande pettegola,che viene uccisa solo sussurrandogli all’orecchio un inconfessabile segreto che lei pensava non fosse noto ad altri: era debole di cuore, e l’assassino lo sapeva. Nel caso della seconda a morire, del terzo e del quinto, complice dell’assassino è il buio: quando le lampadine cominciano a perdere in intensità, gli ospiti terrorizzati già sanno che l’assassino sta per colpire.
Dopo questi due primi assassini, compiuti al danno di soggetti particolarmente deboli, si apre la partita nei confronti degli altri sei. Tre muoiono in breve tempo.
Il primo è Tim Slamon, un uomo politico, amico dell’avvocatessa Sylvia Inglesby: complice il buio, viene assassinato, nella poltroncina in cui si era seduto, da degli aghi avvelenati usciti fuori allorché Slamon si è stretto ai braccioli, e inconsapevolmente li ha ruotati, Come ha fatto l’assassino a prevedere che proprio lui si sarebbe seduto lì? E’ svelato dallo stesso assassino: nel suo studio c’era una poltroncina copia esatta di quella, e di cattivo gusto come l’altra. Cattivo gusto che l’assassino accusa Sylvia di avergli fatto apprezzare. Insomma è come se avesse scaricato metà della della colpa della morte del politico su di lei: Sylvia è sconvolta da una crisi di nervi, e senza pensarci corre verso la porta, attraversando il giardino pensile, e rimane folgorata: altra morte prevista ( a proposito..l’immagine di copertina del Classico del Giallo, ritrae Sylvia durante la crisi di nervi che precede il suicidio-omicidio). 
Ultima morte del trittico è quella del professore universitario Max Chambers Reid: anche lui viene ucciso, quando nella stanza cade il buio,con una pistola munita di silenziatore. Questa volta, l’assassino ha quasi colpito in un colpo solo anche uno degli altri tre, rimasto incolume per miracolo in quanto la pallottola lo ha colpito di striscio alla tempia.
Ora sono rimasti in tre a combattere la partita contro l’implacabile assassino: Joan Trent, attrice; Peter Daly, scrittore; Henry (Hank) Abbott, pittore. Ma può anche essere che uno di questi tre sia l’assassino. Il che può benissimo essere, come aveva sottolineato precedentemente in una acuta analisi psicologica, Max Reid. Del resto se l’assassino non fosse uno dei presenti dove mai si sarebbe potuto nascondere? In cucina giacciono addormentati il maggiordomo, la cuoca ed un’altra serva; nel bagno non c’è nessuno, nel giardino pensile pure, eccetto le otto bare, che aperte non contengono altro che, in una, il nono invitato, precedentemente dalla sala portato lì.
Chi mai sarà l’assassino? Uno dei tre. Sarà quello colpito di striscio? O sarà uno degli altri due? In un susseguirsi di dubbi ed incertezze, uno dei tre è sopraffatto da un altro e il terzo, armato di fioretto, è giudice delle opposte analisi finali degli altri due. In un convulso finale (ma poi…mica tanto), l’assassino sarà individuato e gli altri due saranno liberati, in cambio della morte certa, preferita a quella lenta dell’impiccagione.
Questo romanzo si disse che avesse influenzato Agatha Christie, in quanto possiede somiglianze palesi col piu tardo And Then There Were None, che la scrittrice inglese scrisse nel 1939. Tuttavia…
Nel lavoro della Christie, chiamato prima Ten Little Niggers, poi And Then There Were None e infine Ten Little Indians, l’idea è quella dalla riunione di persone che non si conoscono in una magione su un’isola. Una volta là convenuti, fatti arrivare con un telegramma, non troveranno ad accoglierli il padrone di casa ma la servitù. Il misterioso anfitrione si annuncerà tramite dischi messi sul grammofono e ben presto capiranno che lo scopo di quella riunione è..ucciderli, vendicando la morte di coloro di cui essi stessi son stati la causa. Finchè non rimarrà nessuno, tranne l’assassino, uno degli invitati creduto morto precedentemente.
Si capisce subito quali possano essere le somiglianze: i convitati vengono invitati con un telegramma; sono raccolti in un ambiente chiuso (l’appartamento nel primo romanzo, l’isola nel secondo); in entrambi vi sono servitori che non conoscono il padrone di casa ma che sono stati assunti tramite terzi; in entrambi ad accoglierli non è il padrone di casa; in entrambi il padrone di casa si presenta tramite un mezzo audio (la radio nel primo, collegata a dei grammofoni; il grammofono nel secondo). Le differenze sono invece ravvisabili: nel numero degli invitati (8 nel primo, 10 nel secondo); nella conoscenza reciproca (nel primo gli invitati si conoscono, nel secondo no); il movente (nel primo si capisce solo alla fine che il movente è quello tipico di uno che vuol diventare padrone del mondo, accumulare il maggior potere e la maggior ricchezza possibile; nel secondo è la vendetta, ma in un certo senso nobile: sostituirsi al Giudice Finale per comminare una pensa che nessun giudice ha assegnato a ciascuno dei dieci); infine vi è una differenza più sostanziale di tutte: nel primo romanzo si salvano due invitati perché riescono a sconfiggere, nella partita con la morte, l’assassino; nel secondo nessuno si salva. Ed fu  proprio il fatto che nessuno si salvasse, a sancire il successo dell’opera di A.Christie, che si è sempre ripetuto negli anni.
Quindi la Christie alla fine si afferma sui primi per un maggior estro, per aver qualitativamente puntato su un maggior spessore psicologico degli invitati (quello del primo romanzo è appena sfaccettato) e per aver dato un maggiore respiro alla vicenda, ampliando anche le possibilità che le stesse vittime venissero colpite in posti diversi, rendendo quindi la possibilità di beccare l’assassino meno possibile. In più magistrale fu il modo come Agatha Christie fece girare la vicenda attorno ad un’innocente filastrocca, che invece nel primo romanzo non esiste. Tensione molto alta è bene dirlo in entrambi i romanzi.
Il primo può dirsi a ben donde un misto di Thriller e di Mystery: la vicenda si svolge claustrofobicamente in un appartamento, dal quale i convenuti non possono in alcun modo fuggire, a causa di marchingegni mortali posti qua e là. In questo il romanzo segue i richiami di autori precedenti ed anche il periodo (gli anni ’20: il romanzo fu pubblicato nel 1930 ma scritto l’anno prima!): Connington, Crofts, Freeman e persino Abbott aveva inserito nei loro romanzi delle diavolerie elettriche e meccaniche. Proprio l’azione claustrofobica dell’appartamento dal quale non si può in alcun modo uscire, acuisce la tensione dei personaggi (e del lettore), e li spinge ad un’azione contraria, che però è impossibile ad attuarsi a meno di conseguenze immaginabili (il che accade a Sylvia Inglesby, perché è stata spinta a farlo dal suo anfitrione).
Laddove tuttavia pare che il romanzo abbia i suoi punti di forza, lì segnala le sue mancanze: tutte quelle diavolerie elettriche e meccaniche, a me paiono un riempitivo, oltre che un segnale del fatto che il romanzo fosse un romanzo degli anni ’20 più che degli anni ’30. Proprio la mancanza di marchingegni atti a procurare la morte, fa sì che, nel lavoro della Christie,  l’assassino entri in azione direttamente e quindi, sfidando l’azione investigativa, fornisca automaticamente alla controparte gli indizi atti a fermarlo. In altre parole, nel romanzo degli anni ’30, per certi versi, l’azione delittuosa e l’azione investigativa, si contrastano sullo stesso piano: assassino e detective combattono alla pari. Ecco perché in azione e psicologia il romanzo della Christie è superiore a quello di Bristow & Manning.
Però, abbiamo detto, la principale differenza tra i due sta nel fatto che nel primo romanzo scritto, l’assassino viene scoperto; nel secondo no, perché sostanzialmente si ritiene che egli sia stato ucciso: ha fatto in modo che gli altri pensassero che lui fosse morte, per sviarli e quindi per esser libero ( da morto) di uccidere gli altri. Ma questa, che è la differenza a vantaggio della Christie, non fu elaborata da lei. Infatti, come si sa, Agatha Christie non disdegnò mai di utilizzare idee prese da altri autori, ma non è del tutto vero quello che alcuni dicono, cioè che l’idea per il suo lavoro del 1939 Agatha Christie la prese solo da The Invisibile Host : indubbiamente l’opera la conosceva (quella originale dei due coniugi precede la relativa della Christie di nove anni), ma se avesse preso solo l’idea base di Bristol & Manning, il lavoro di Agatha Christie non avrebbe avuto quel successo incredibile che ebbe. Infatti, se proprio vogliamo parlarne, il fenomenale successo fu dovuto all’altra idea base, quella tratta da Six Hommes Morts, di André Steeman, opera del 1931.
Nel romanzo di Steeman, sei amici non avendo fortuna, decidono di partire ognuno verso una sponda diversa, giurando che qualora uno di loro avesse fatto fortuna, avrebbe dovuto dividere con gli altri. Fin qui la trama è quella di tanti altri romanzi. L’originalità di Steeman fu invece nell’avere previsto che uno ad uno, gli amici morissero, una volta che si fosse avverata la promessa fatta prima del loro distacco, e che poi non rimanesse alcuno in vita. E che poi si scoprisse che uno di quelli che era stato creduto morto, in realtà non lo fosse, e avesse così avuto la possibilità di uccidere gli altri. Questa è la vera differenza tra i due romanzi, quello di Bristow & Manning, e quello della Christie (copiata da Steeman).
Un’altra differenza tra i due romanzi sta nel fatto che mentre quello della Christie, come abbiamo detto, è ampio nell’azione e dello spessore psicologico dei personaggi e quindi ha un maggior respiro, ha la profondità del dramma, il romanzo del 1930 non è altro che un Divertissement, un gioco all’assassino, un whodunnit puro e semplice, anche piuttosto scarno, anche se come abbiamo detto, teso. Il mordente lo perde alla fine, perché troppo presto si giunge a scoprire l’omicida, mentre la tensione nel romanzo della Christie arriva sino agli ultimi righi con un effetto spasmodico. Anche la trovata del cappuccio della penna piena di acido prussico è un espediente vecchio stampo; a parte poi che non si capisce per quale motivo l’omicida accetti la morte breve alla possibilità di rimanere lì con gli altri due finchè i servitori si fossero svegliati l’indomani mattina: messi davanti ad un’azione inquisitoria sarebbero stati alla pari, nessuna delle due parti avrebbe potuto avere maggior fortuna dell’altra perché nel momento in cui i due fortunati riescono a ridurre all’impotenza l’assassino e quegli dice loro tutto circa le diavolerie contenute nella casa, e si sa che i servitori non conoscevano il proprietario, chi mai avrebbe potuto dire che l’assassino era proprio xxx invece che yyy o zzz? No, c’è qualcosa che non quadra. C’è una ingenuità di fondo, nel dare tutto per assunto.
Pure la stessa reazione dell’assassino: quando viene neutralizzato, per quale motivo rivela le sue armi? Avrebbe potuto non dire nulla e sfruttare in mille modi le stesse per eliminare i due, pur legato.
E’ un divertissement senza dubbio, ma anche piuttosto ingenuo. La natura di divertissement è legata anche alla sua genesi: secondo me, era un modo per farsi anche quattro risate, facendo morire in una festa alcuni personaggi connessi al mondo del poliziesco. E’ una cosa di cui mai nessuno si è accorto:
Alla scuola di chi i due si sarebbero rifatti? Mah, questo dubbio mi è venuto solo rileggendo il romanzo. In quel tempo, il maggior esponente americano, del romanzo poliziesco, era S.S. Van Dine: è possibile che i due fossero vandiniani? Apparentemente no. Non c’è per esempio alcun investigatore che si rassomigli a Philo Vance, e qui in pratica manca. E non c’è neanche la spalla di Philo Vance, che c’è in tutti o quasi i vandiniani eccellenti. Però…però c’è un’introspezione psicologica alla Van Dine: l’analisi che fa il professore universitario Max Chambers Reid, è degna di Philo Vance; inoltre pur non essendoci un detective enciclopedico, qui c’è un assassino enciclopedico, che conosce tutte le manie dei suoi avversari, che le ha studiate e ha trovato la maniera per far sì che siano esse a portare i vari personaggi alla morte. E poi…tanti piccoli particolari: i messaggi diffusi dalla radio, nascono invece da quattro grammofoni posti in vari angoli dell’appartamento, e in un romanzo vandiniano c’è il trucco del grammofono; l’omicidio di Reid ucciso in poltrona, mi ricorda quello del Maggiore Benson ( e anche la traiettoria del proiettile della pistola); l’omicidio-suicidio di Osgood è una variazione della morte del colpevole nel finale de Il caso dell’Alfiere: così come in The Bishop Murder Case, il colpevole prepara un bicchiere di liquore avvelenato per un altro sospettato ed invece muore al suo posto, così in The Invisibile Host, la prima delle vittime, per eliminare il suo potenziale assassino, avvelena i drink di tutti gli altri sospettati con dell’acido prussico, ma poi non riesce nel suo intento perché lo stesso assassino lo fa scoprire e nel tempo stesso ne dichiara la morte essendosi quello avvelenato a sua insaputa, in quanto stringendo tra le dita  il tappo della bottiglietta contenente il veleno, le micropunte dello stesso imbevute dello stesso acido ne hanno provocato la morte; la stessa morte di Sylvia, causata dalla tensione nervosa, che la rende poco prudente e ne provoca la morte per folgorazione, è simile a quella dell’omicida in The Greene Murder Case, che muore per poca prudenza a causa di un incidente automobilistico; e infine la morte di Tim Slamon che “si suicida” perché l’assassino conosce un suo tic e lo mette nella condizione di uccidersi a sua insaputa, è simile all’espediente utilizzato per uccidere Rex Greene in The Greene Murder Case: l’omicida conosce un cassetto segreto che conosce anche la vittima e predispone una trappola omicida che scatta allorché la vittima viene messa a sua insaputa dall’assassino nella condizione di causare il suo suicidio.
Così pur non avendo con certezza definiti vandiniani i due autori, posso però senza ombra di dubbio affermare che essi presero parecchio, copiarono da S.S. Van Dine. Quasi la pena del contrappasso per chi aveva affermato che il romanzo della Christie era stato copiato dal loro.
Parlando della Christie, mi vien da dire che il testo originario era stato accusato di razzismo e per questo il primitivo titolo Ten Little Niggers,“Dieci piccoli negri”, era stato cambianto in And Then There Were None. Tuttavia anche il romanzo di Bristow & Manning contiene elementi di razzismo ben maggiore, un odio di classe, e un razzismo rivolto ai rappresentanti delle classi inferiori che lascia attoniti e che si apprezza quando l’anfitrione /omicida, per spiegare il fatto che la servitù sia stata drogata e narcotizzata e dorma in cucina, dirà che non è di classe confrontarsi in duello con la servitù anzichè con…
Oltre a questo, nel romanzo della coppia, ci sono moderati ma interessanti spunti di critica sociale, che nel romanzo della Christie, invece non compaiono.
Infine vorrei poter dire la mia su un aspetto che non è stato per nulla individuato sinora.
Il romanzo di Bristow & Manning si è detto essere un Divertissement, e questo è indubitabilmente vero. Al di là del romanzo, puro divertimento cerebrale, senza pretese di altro genere, comunque, i due coniugi, secondo me vollero probabilmente confezionare un Divertissement doppio: Divertissement del lettore e Divertissement loro,  scrivendo un romanzo in cui i personaggi principali del dramma, che sarebbero dovuti morire in mille atroci modi, fossero personaggi, fittizi o reali, dei loro tempi:
Margaret Gaylord Chisholm: esiste un Dudley Chisholm, personaggio del romanzo di Le-Queux, in Under-Secretary, 1902;
Sylvia Inglesby : in questo caso, Inglesby potrebbe richiamare Appleby, il personaggio principale di Innes.
Joan Trent : esiste un Philip Trent, in Trent’s Last Case di Edmund C. Bentley (1913); ma anche una Joan Bennett, attrice già famosa in Bulldog Drummond e Disraeli, 2 film del 1929.
Max Chambers Reid: si riferisce forse a Reed McKinley Chambers, pioniere dell’industria aeronautica ed eroe della Prima Guerra Mondiale?
Peter Daly scrittore : se cambiamo la y finale in i, otteniamo Dali o anche Dalì: Salvator Dalì, pittore già famoso in quegli anni.
Henry (Hank) Abbott pittore: è Anthony Abbott, scrittore vandiniano?
Tim Slamon
Jason Osgood : John.C. Osgood è stato uno dei grandi industriali e capitalisti americani di inizio ventesimo secolo. In America è considerato da alcuni un Baron Robber.
Nel caso di questi due ultimi personaggi possiamo osservare una caratteristica singolare: cognomi e professioni sono invertite a formare un chiasmo, una X :                    
Abbott                  pittore
 X
      Daly                    scrittore.
In questo caso la X , essendo posta tra i due, è come se avesse già indicato, ad lettore che avesse guardato più in là della semplice lettura, già chi potesse essere X, cioè the Invisible Host, l’assassino: Abbott, o Daly, secondo un procedimento che useranno i Queen, laddove ne “The Twin Siamese Mystery” nel nominativo di alcuni personaggi inseriranno delle tracce: Carreau per Quadri, e soprattutto il 6 di picche ad indicare che l’assassino era legato ai furti perchè in francese Picche= Pique, e Piquer= Rubare, come pure Pique è molto vicino come suono a Pica. E Pica Pica è il nome scientifico della Gazza, un eccello che ruba”.
Per di più, anche se i nomi non fossero stati scritti nella lista dei sospettati all’inizio del romanzo, uno dopo l’altro, comunque i due personaggi sarebbero comunque stati assimilabili l’uno all’altro, in quanto sono forse i due peronaggi, i cui nominativi sono maggiormente conosciuti. Per di più sono tra i tanti, gli unici personaggi maschili che rimangono fino alla fine.

Pietro De Palma

giovedì 16 marzo 2017

Michael Innes : Meglio erede che morto (The Gay Phoenix, 1976) – trad. Antonio Ghilardelli – I Classici del Giallo Mondadori N. 1306, 2012 (2^ ediz.) ; Il Giallo Mondadori N. 1580, 1979 (1^ ediz.)



“I fratelli Povey si guardavano negli occhi. Lo sguardo di Charles Povey era più fisso di quello di Arthur Povey, il che era nell’ordine naturale delle cose, poiché Charles era morto.”
Così comincia lo straordinario romanzo che è in edicola questo mese, nella collana I Classici del Giallo Mondadori: The Gay Phoenix, di Michael Innes. Al lettore distratto od occasionale Innes dirà molto poco. Ma a quello più attento e frequentatore assiduo delle librerie, lo stesso nominativo avrà ricordato la straordinaria opera prima, dal titolo “Morte nello studio del rettore”, Death at the President’s Lodging (1936), pubblicata anni fa nella collana “I Bassotti”, da Polillo.
In realtà di Innes, vero nome John Innes Mackintosh Stewart, nato nel 1906 e scomparso nel 1994, in Italia son stati pubblicati in tutto oltre ai romanzi citati, anche altri tre: uno pubblicato da Rizzoli, nella serie I Gialli di Qualità; un altro da Feltrinelli, e l’ultimo dalle Edizioni Paoline.  Si tratta comunque, eccetto quello pubblicato da Polillo, di opere tarde, in cui il protagonista delle storie di Innes, Sir John Appleby, risulta esser stato messo a riposo, dopo una vita passata nella Polizia, dalla funzione iniziale di Ispettore, a quella finale di Capo della Polizia.
Appleby, forse, è l’investigatore più colto in letteratura in assoluto, tanto quanto Philo Vance lo è nelle arti figurative e scultoree. Del resto, mentre Philo Vance fu la creatura di Willard Huntington Wright, grande critico d’arte newyorkese e profondo conoscitore dell’opera di Nietsche, Appleby lo è stata di John Innes Mackintosh Stewart, che solo per divertimento, come diceva lui, scrisse gli oltre cinquanta titoli, con lo pseudonimo di Michael Innes. In realtà John Innes Mackintosh Stewart era un cattedratico, imprestato al romanzo poliziesco, come Cecil Day-Lewis (alias Nicholas Blake), o come Alfred Bennett Harbage (alias Thomas Kyd): insegnò, a Oxford, Letteratura Inglese. Della sua professione universitaria, nei suoi romanzi vi sono molte testimonianze dotte: citazioni di Shakespeare, di altri poeti inglesi, citazioni di poeti e letterati latini, oltre che una prosa estremamente forbita e raffinata. Tuttavia, se nei primi romanzi, queste caratteristiche sono amplificate, esse tendono progressivamente, con il fluire del tempo, ad attenuarsi, pur comparendo qua e là. Il romanzo che analizziamo oggi, The Gay Phoenix, è del 1976, anche se in Italia fu pubblicato nel 1979: allude al nome della barca, su cui accade un avvenimento che ha ripercussioni sull’intera trama.
Arthur e Charles Povey sono due fratelli, minore e maggiore. Essi si sono imbarcati su una barca a vela e stanno attraversando l’Oceano. Non ci sono altre persone su quella barca, solo loro due: due personalità a confronto. Nell’infanzia non si son mai voluti tanto bene, se Arthur in una legnaia ha mozzato il dito indice della mano sinistra di Charles. Al di là di questo, e al di là del fatto che Arthur sia il minore, i due fratelli da giovani se la son spassata. Rampolli di una famiglia molto conosciuta, non stati mai degli stinchi di santi: furtarelli, violenze, sopraffazioni, espressioni più di una vita annoiata che non di personalità inclini al delitto. Tuttavia, qualcosa di non onesto deve essersi insinuato, se è vero che le loro attività son state inclini sempre alle situazioni legali non chiare. Ed è per questo motivo, che si comprende come Charles abbia ad un certo punto deciso di prendere il largo, di fuggire cioè, di far perdere le proprie tracce, a bordo di una barca. Ma, non essendone pratico, ha chiesto ripetutamente ed ottenuto dal fratello minore Arthur, che lo accompagnasse, giacchè più esperto di lui nel guidare una barca a vela. Fatto sta che non viene spiegato, per quale motivo Arthur si sia imbarcato anche lui, e perché nessun altro stia a bordo: si potrebbe anche ipotizzare che, fuggendo da una situazione economica non chiara, non volessero avere dei testimoni. Durante una tempesta, un albero della nave si rompe e precipita sul povero Charles, fracassandogli il cranio. Arthur, povero ed indifeso, e anche succube della propria situazione finanziaria non rosea rispetto a quella del fratello, erede delle sostanze di famiglia ed abile e spregiudicato affarista, diventa improvvisamente erede dell’intero patrimonio fraterno. Tuttavia, mentre cambiano le sue prospettive economiche di base, si rende conto che la sua situazione personale diventa più delicata: come farà a convincere di non aver deliberatamente ucciso il fratello per carpire primogenitura e proprietà di famiglia, oltre che le sostanze di Charles di cui è diventato erede ? Innanzitutto deve disfarsi del cadavere prima che cominci a decomporsi. E così butta a mare il corpo. Poi mette a punto il suo capolavoro: si comporterà in maniera che le persone con cui possa aver a che fare, al suo rientro (apparirà come un naufrago che ne ha passate tante), lo convincano di essere quel Charles, che lui ha deciso di impersonare dal momento dell’incidente: per far ciò si mozza deliberatamente (e che atto di coraggio! o di disperazione!) l’indice della mano sinistra. Curioso (e geniale da parte di Innes) che uno possa diventare un’altra persona, solo mozzandosi un dito! Ma è così perché i due fratelli, grosso modo si assomigliavano parecchio. Dirà di essere Arthur che è rimasto solo senza Charles, perché un albero della nave gli è caduto addosso fracassandogli il cranio (che poi è la verità), solo che gli mancherà un dito, quello che mancava prima della partenza a Charles, non ad Arthur. E dirà di soffrire di forti dolori di testa e di amnesie (ma anche questa è la verità). E gli psichiatri si affanneranno a convincerlo che lui non è Arthur ma Charles. Quando si sarà convinto di esserlo, lo lasceranno andare. Che capolavoro! Arthur raggiunge la vetta e l’agognata felicità economica con un sotterfugio degno di una mente brillantissima. Ma lui non sa che uno degli psichiatri, essendogli rimasto il dubbio che quello in fondo fosse Arthur e non Charles, ne parla ad una riunione di conoscenti ed amici, e tra loro almeno due sono più dubbiosi degli altri: un giudice, ed il Capo della Polizia. Che poi è Appleby. La storia in pratica intreccia vari piani di finzione: quella in prima persona, e quella che viene narrata da altri, alternativamente. Nella stessa maniera in cui, nella povera mente distrutta da quell’incidente, si alternano le due personalità dei due fratelli. Il povero Arthur soffre, cioè, di uno sdoppiamento di identità, una questione attinente alla schizofrenia: quando è in sé, è Arthur che deve però comportarsi come se fosse Charles; quando la sua personalità soggiace a Charles, egli sa di essere lui, ma non capisce il resto. Insomma è una situazione disarmante. Il povero (o ricco, a seconda dei punti di vista) Arthur, comincia a fare la vita del nababbo. La sua sfortuna tuttavia sta nell’incontrare un giorno, l’unica persona che non avrebbe mai dovuto incontrare: un suo servitore, che nella casa paterna svolgeva funzioni anomale, recandosi in giardino o in casa a seconda delle necessità, lo aveva aiutato in più occasioni quando era giovane, come quando lui, Arthur, aveva sottratto un portasigari dalla casa di un ricco possidente della sua zona. Il servitore, che nell’albergo in cui sta Arthur, svolge il compito di svuotare i portaceneri, lo riconosce da un particolare a cui nessuno fino a quel momento aveva fatto caso: i capelli che, diversamente dal fratello, crescevano in un modo tutto loro. Fatto sta che da quel momento, Butter diventa una palla da piede, se non il vero padrone di Arthur. Arthur gli prospetta il prezzo del silenzio in cambio di diecimila sterline, ma Butter non è dello stesso avviso: ha capito di aver acciuffato la gallina dalle uova d’oro e non vuole lasciarsela sfuggire. Per un momento Arthur pensa anche a sbarazzarsene. E’ quando per un caso fortuito, in un pub sul molo, viene scambiato per un altro, e viene a sapere che Butter è in una brutta situazione: dei suoi compari, credendo che lui voglia tradirli, hanno deciso di ucciderlo. Pensa in un primo tempo di stare al gioco, e di fornire loro il modo per ucciderlo: i suoi problemi così saranno risolti. Ma, all’ultimo momento…decide di aiutare Butter: non è un assassino, nonostante Butter crede che egli abbia ammazzato il fratello, e così facendo Arthur firma la sua condanna a vita. Qui sono a confronto due perone: il furfante, che riesce a farla franca (Butter) e la mezza tacca (Arthur) che non riesce proprio a diventare quel furfante che è Butter. Butter lo convince a costruirsi la personalità del ricco magnate, che non vuole avere rapporti col mondo e a ritornare nella sua casa natale. E’ un grosso sbaglio. Perché se prima cercava solo di districarsi nella rete di società e di affari non puliti di Charles, e di una possibile bancarotta, fuggendo dai creditori, rifugiandosi in un posto come Brockholes, con la personalità di Charles, viene a confrontarsi con una realtà non ipotizzata: quella delle tante avventure sessuali di Charles. Come Arthur potrebbe non conoscere “le signorine” amiche di Charles, ma come Charles dovrebbe saperle riconoscere. Charles non solo aveva impalmato serve e servette, non solo aveva fatto sesso con “innocenti fanciulle” di campagna desiderose di compiacere il possidente della zona, ma anche, in virtù dei tanti soldi che possedeva, aveva collezionato una serie di avventure pagate con squillo e prostitute d’altro bordo, con mantenute, che avevano rimpinguato il suo carnet di playboy ma di cui egli non ricordava più nulla. Figurarsi come dovesse sentirsi Arthur, che le aveva sentite menzionare nelle confessioni del fratello, ma che non le aveva mai incontrate! Fatto sta che un giorno ne incontra una, che a sua volta, lo riconosce non essere il fratello, nonostante il dito mozzato, dal modo come lui faccia sesso: un’altra palla al piede. Intanto le voci si rincorrono nel paese, e giungono anche all’orecchio di Appleby e di sua moglie. Sulla base di quel che ricorda del conciliabolo con lo psichiatra di Adelaide (Australia), e di quello che gli arriva alle orecchie ora, decide di investigare. Si ritroverà dinanzi un uomo che cerca in tutti i modi di sembrare un altro: ma lo è veramente? E fino alla fine non saprà se Arthur sia vittima di amnesie (come egli dice) o se sia un abile truffatore. Fatto sta che Arthur… 
Non è un Innes primna maniera, ma un romanzo di indubbio fascino, The Gay Phoenix, con una forte tensione psicologica, scaturente dalla maestria di Innes, che gioca con le infinite possibilità che la fantasia gli propone. Inoltre anche qui inserisce il tema della sostituzione di persona, che è una delle sue caratteristiche. Questa volta la associa ad uno sdoppiamento di personalità, che lascia interdetti sino alla fine. E’ un contorcimento, un arrampicarsi sugli specchi che mi ha ricordato, per certi versi, Cat and Mouse di Christianna Brand, in cui una situazione è nota fin dal principio, ma poi c’è per tutta la durata del libro un rincorrersi estenuante, ed un ribaltamento continuo delle situazioni, come in questo caso. Il romanzo di Innes, però, non ha un omicidio: c’è un incidente, che da tutti vien ritenuto omicidio, ma che non lo è. Alla fine del romanzo viene paventata la possibilità che la scomparsa di una persona possa esser inquadrata in un omicidio (quello che noi diremmo “una morte bianca”), ma è una possibilità che svanisce così come appare. In bilico tra situazioni da feuelliton e romanzo d’avventura, The Gay Phoenix, sembra quasi ripercorrere le atmosfere dei romanzi di Henry Holt o Sax Rohmer, con il corollario di personaggi e il tourbillon di avventure che attornia l’azione principale. In questo romanzo c’è tutto: la banda internazionale, la truffa, la sostituzione di persona, lo sdoppiamento di personalità, un omicidio-incidente, un doppio ricatto, l’appropriazione indebita, l’indagine e la soluzione sul filo di lana, il bluff. Insomma, situazioni che tengono sempre alta la tensione. Marcate sono le connotazioni sessuali delle situazioni che la trama propone, e mai come in questo mystery, il sesso acquista una sua valenza: se Charles non avesse collezionato incontri occasionali e rapporti con prostitute d’alto bordo e mantenute, e non avesse ossessionato Arthur con il racconto delle sua gesta amatorie, questo non avrebbe gettato la prudenza al vento e proposto ad una di quelle “sgualdrine”, Perpetua Porter detta “Pops”, che “..ci sono momenti in cui i fatti sono più urgenti delle parole”; e se non ci fosse stato questo rapporto sessuale, sull’erba del parco, Pops non si sarebbe mai accorta che Arthur non era Charles, come gli rinfaccia : “ Però, credo che dovresti essere molto prudente quando vai a letto con una qualunque delle gentili signore che sono state amiche di Charles. In pratica, e per essere franchi, io ti consiglierei fortemente di andarle a fare altrove certe cose”. E prima gli aveva detto : “ E’ stato abbastanza carino, buon uomo, ma non bello com’era con Charles Povey”. Insomma è come se l’avesse pugnalato con uno stiletto, tanto le sue parole erano taglienti, dice Innes “.. studiate con malizia”. A dirla breve, Charles l’aveva fatta godere, Arthur no. E quindi, se Pops non si fosse mai accorta che Arthur non era Charles, non ci sarebbe stato il successivo ricatto di Pops nei confronti di Arthur. E ancor di più, se Charles non avesse collezionato rapporti sessuali con le ragazze del villaggio, nessuno avrebbe mai rinfacciato presunte paternità ad Arthur. Per di più c’è anche una certa connotazione gay: la barca a vela sulla quale si consuma la vicenda si chiama The Gay Phoenix. In Italiano possiamo tradurlo in due modi sostanzialmente: “La Fenice Allegra” o “La Fenice Omosessuale”.
A me sembra che la seconda traduzione sia la più pertinente, perchè il titolo potrebbe indurre a pensare ad una certa valenza omosessuale di Arthur, che quando ci prova con le donne, non ottiene grandi risultati ed è come se il sesso per lui fosse una cosa obbligatoriamente da fare, per dimostrare qualcosa (magari a se stesso o agli altri), piuttosto che qualcosa da scegliere di fare. In questo caso, “La Fenice Gay” sarebbe non altro che un modo elegante (raffinato nella scelta dei termini) con cui Innes marca l’omosessualità latente di Arthur: la Fenice è il mitico uccello che risorge dalle sue ceneri, ed in questo caso Charles risorge dalle sue ceneri, nella persona di Arthur. Arthur quindi è la Fenice. La sua omosessualità richiamata in più parti della storia, con la sua sfortuna con le donne, si potrebbe ricavare anche dai rapporti che si dice intrattenesse quando era giovane con il suo servitore Butter, che poi lo riconosce, e diventa, come Pops, il suo padrone. Peraltro, il fatto che Arthur diventi lo schiavo di entrambi, volontariamente (lui potrebbe agevolare l’assassinio di Butter da parte dei suoi ex complici, ma non lo fa, pur sapendo che così firmerà la sua condanna; lui si butta tra le braccia, ancor meglio si dovrebbe dire, tra le gambe, di Pops. E così facendo si consegna inconsciamente alla sua dominazione), potrebbe far insorgere il dubbio che egli masochisticamente in fondo desideri essere dominato. Ma, il fatto che poi cerchi in tutti i modi di liberarsi dal loro pesante giogo, e ci riesca alla fine, potrebbe star a significare che solo una, delle due personalità che in lui agiscono, è passiva, mentre l’altra non lo è.
Pietro De Palma