sabato 28 gennaio 2017

John Dickson Carr : L'Orrore dei Marvell (New Murders for Old, 1939) - trad. Roberto Sonaglia, in "Ellery Queen presenta" Estate Gialla, Mondadori, 1985,



Nell’ambito dei racconti carriani, ce ne sono alcuni conosciuti, tipo La Casa in Goblin Wood, direi anche meritatamente, in quanto trattasi di assoluto capolavoro, e altri meno, tipo Il Problema sbagliato, oppure La Porta sull’Abisso, o ancor di più L’Orrore dei Marvell, un racconto che pochissimi hanno letto in Italia, pubblicato tanti anni fa su una Estate Gialla “Ellery Qeen presenta”  del 1985.
Il racconto dal doppio titolo originale - infatti il racconto, il cui titolo originale è “New Murders for Old”, fu ristampato in altra occasione col titolo  “The One Real Horror”. La prima edizione è quella inglese, col primo titolo citato, apparsa nella rivista “Illustrated London News” nel 1939 e poi ristampata nella raccolta “Department of Queer Complaints” l’anno dopo (precisazioni fornitemi, a domanda, da Mauro Boncompagni) -  è un racconto oserei dire superbo, uno dei rari casi in Carr in cui un doppio finale, lascia aperta la porta all’evento fantastico e non reale, in aggiunta e in contrapposizione a quello più evidentemente logico, tuttavia venato da dubbi.
La vicenda è quella dell’erede di una catena di hotel di lusso andati in malora, fondati dal vecchio Jim Marvell. Ereditati dal nipote Anthony, giovane votato ad una brillante carriera di matematico e costretto invece dalle ultime volontà dello zio che lo amava, ad occuparsi dei suoi hotel, invece di venderli e di ricavarci il più possibile, come avrebbe fatto il fratello Stephen, chirurgo, vi si applica, “mente e corpo” in maniera indefessa, cosicchè dopo due anni di durissimo lavoro ed abnegazione, rischiando l’esaurimento nervoso, riesce non solo a salvarli dal fallimento ma addirittura a portarli ad un clamoroso attivo, a farli diventare meta di tutti i ricconi desiderosi di una vacanza lussuosa.
Ma i contraccolpi sono di natura nervosa. E così suo malgrado, accetta di rinunciare anche alla compagnia della sua fidanzata Judith Gates, una ragazza di umili origini, e di fare una crociera che lo terrà lontano da casa sei mesi.
Tuttavia appena imbarcato, cominciano le sue disavventure: entrato in cabina, non trova più i bagagli che aveva lasciato assieme al fratello Stephen. Denunciata la cosa al commissario di bordo, si sente rispondere che è lui proprio ad aver dato l’ordine poco prima di sbarcare i suoi bagagli, direttamente, allo stesso commissario. Tony non sa che pesci prendere e comincia a dubitare di sé, della propria lucidità mentale. Ordina di andare a riprendere i bagagli, ma poi quando rientra in cabina, trova sul materasso del letto una pistola con i proiettili nel caricatore. E’ sempre più confuso, ma invece di buttarla via dall’oblò in mare, la prende con sé. Dubita persino che sia effettivamente la sua. Ed è sempre più persuaso di essere lui stesso la causa dei suoi guai: una parte cosciente è perseguitata da una incosciente. Non accade più nulla una volta che il bastimento ha lasciato il porto, tranne una cosa che lo fa dubitare delle sue capacità mentali: ha l’impressione in più d’una occasione che il vecchio zio Jim lo spii, intabarrato nel suo vecchio cappotto con un bavero antiquato di pelliccia: il fatto è che Jim Marvell è morto e sepolto.
Dopo circa sei mesi di assenza, perfettamente ristabilito e sentendosi nel pieno delle sue facoltà mentali, decide di rientrare a casa. Ma ecco che nel treno che lo sta riportando indietro, nello scompartimento trova un giornale del giorno prima che parla della sua morte per suicidio. Riavutosi dalla sorpresa, scopre con apprensione che non può trattarsi di un fake: l’articolo è troppo circostanziato, le persone sono quelle della sua famiglia, i luoghi sono quelli della casa avita. Tony non sa che pesci prendere, comincia persino a dubitare di essere lui Tony Marvell. E intanto c’è qualcuno nel treno che non lo perde d’occhio, una persona con un bavero antiquato di pelliccia.
Tony cerca di prendere il taxi, ed ecco quel tale è dietro di lui. Nevica. Il taxi arriverebbe a destinazione e soprattutto lui riuscirebbe a seminare una buona volta quel visitatore indesiderato, ma il taxi ha un incidente avendo dovuto scansare all’ultimo momento un uomo coperto da un pesante cappotto con un bavero di pelliccia.
Tony scende dall’auto ed ecco, il suo accompagnatore indesiderato è dietro di lui. Accelera il passo e quello idem. Tony corre, ma anche quello dietro di lui. Tony ha le chiavi di casa, sta per aprire il portone ma gli sfuggono. Quando vi riesce, quella figura vagamente familiare è alle sue spalle. Colto dal terrore cerca di reagire cercando di impugnare la pistola ma quella cade. Si rifugia al piano superiore ed entra in camera sua. Accende le luci e si accorge che qualcuno giace nel suo letto, coperto da un lenzuolo. Vince la paura, scopre il lenzuolo e si ritrova un altro Tony Marvell.
Sconvolto si volta e vede suo fratello Stephen che gli parla ma mentre ciò avviene ecco che la figura che lo perseguitava è lì. Stephen urla, strepiti, una mano, quella dell’essere chiude a chiave Tony in camera sua in compagnia del suo doppio, e poi, dopo ancora urla di soccorso da parte di Stephen, dopo che la governante è accorsa in tempo per vedere la porta della camera di Stephen chiudersi, ecco un colpo di pistola: Stephen è ritrovato ucciso con un colpo di pistola alla tempia.
E l’assassino ? Volatilizzato: le finestre erano sprangate. Nessuno era presente dentro quando hanno aperto la porta, e fuori c’era la governante che giura che nessuno, proprio nessuno sia entrato. A testimoniare che sarebbe potuto esserci qualcuno, solo una vago odore di pelliccia ammuffita.
Il racconto termina così come era iniziato: il sovrintendente del CID ha raccontato la storia di Tony alla fidanzata Judith. Tony è libero da ogni sospetto e lo deve soprattutto al fatto di essere stato chiuso a chiave in camera sua. Stephen è morto.  Suicida, è il verdetto finale. Nessuno c’era in quella stanza e nessuno poteva esserne uscito. Ma perché mai si sarebbe ucciso? E chi era il doppio di Tony? Ma era veramente Tony, Tony Marvell?
Straordinario racconto di Carr, direi un autentico capolavoro, assolutamente sconosciuto in Italia ( o quasi ), lo sarà ancora per parecchi da informazioni acquisite per via personale. Direi che assieme a The Door To Doom e Blind Man’s Hood compone una triade veramente straordinaria, di racconti con tinte soprannaturali che sconfinano abbondantemente nella letteratura fantastica.

Già nei primi righi si comincia ad intuire l’orrore della storia: Sir Heargraves, Sovrintendente del CID, sta raccontando una storia ad un’altra persona e stanno in una camera: l’identità della persona è sconosciuta e verrà rivelata solo alla fine, perché se venisse rivelata subito, verrebbe tolto un po’ di suspence alla vicenda. In più Sir Hargraves allude ad una “cosa” che era lì sul letto. Badate bene: sta parlando di una “cosa”. Poi Carr scrive che l’aria aveva un odore vagamente dolciastro. Dolciastro! Quando in un romanzo poliziesco, un mystery, si usa quest’accezione, il rimando è sempre alla decomposizione di un corpo: la putrefazione da origine ad effluvi nauseabondi e dolciastri.
Il modo in cui Carr introduce la storia ha in sé già il tocco del genio: fuori fa freddo e nevica, ma dentro l’atmosfera è soffocante, e si sente ancora un che di dolciastro. Quando parla di una cosa sul letto, a me fa venire alla mente un romanzo di Talbot. Sicuramente questo chiamare il corpo sul letto “cosa”, è un rimando diretto a quell’altra “cosa”, sul letto di un’altra stanza da letto, in The Hangman's Handyman.
Il romanzo di Hake Talbot è del 1942. Talbot e Carr erano amici: è cosa risaputa. A me pare per lo meno strano, e lo sottolineo, che nel romanzo di Talbot compaiano dei caratteri presenti in questo racconto che è precedente.
Cosa voglio dire? Che potrebbe anche essere che Talbot abbia preso delle cose da Carr, da questo Carr, nonostante egli avesse affermato che il suo principale ispiratore era stato il Melville Davisson Post delle storie di Zio Abner: in entrambi i testi si parla di un omicidio impossibile, in ambedue i casi vi entra una situazione soprannaturale (solo che in Carr potrebbe essere vera, in Talbot si dimostra che non lo fosse in realtà), in ambedue i casi vi è un doppio cioè un sosia (nel racconto di Carr è vero, nel romanzo di Talbot no), in ambedue i casi vi è il ricorso al tema della putrefazione dei corpi post mortem (in Talbot è la causa del problema: una maledizione volta a far marcire un corpo in breve tempo; in Carr l’effetto: il doppio si è ucciso qualche giorno prima); in ambedue i casi si parla di una “cosa” adagiata sul letto e coperta dal lenzuolo (in Carr si parla di cosa, termine usato anche da Talbot; Talbot aggiunge che sembrava  un “lumacone”).
Ma Carr a sua volta mi sembra che citi nell’asfissiante pedinamento di Anthony Marvel da parte del supposto zio Jim morto, un racconto di Joseph Le Fanu, in cui un uomo viene marcato stretto dalla sua ombra, che per lui è sinonimo di presagio di morte. Anche nel racconto di Carr,  la marcatura stretta della misteriosa figura in cappotto dal bavero di pelliccia antiquato sembrerebbe essere un presagio, o almeno un’espressione di un potere malefico. Invece, Carr rivoluziona il tutto, perché se Tony teme quel pedinamento perché pensa che voglia in qualche modo attentare alla sua vita, in realtà la figura vuole solo salvarlo. Zio Jim lo amava e non avrebbe quindi neanche da morto voluto la sua morte. Invece è come se la sua asfissiante presenza fosse l’unica mossa per garantire a Tony di restare in vita: infatti egli è stato già vittima, non sapendolo, di un tentativo di “delitto perfetto” non riuscito solo perché è stato scelto un assassino inadatto al ruolo perché incapace di uccidere.
Sarebbe dovuto essere un omicidio perfetto (Tony Marvell sale sulla nave e poi sparisce, e al suo posto si materializza un altro Tony Marvell esattamente uguale a lui, come sarebbe stato un delitto perfetto se “La maschera di ferro” si fosse sostituito a Luigi XIV, condannandolo al posto suo ad una prigionia avita nella Bastiglia). E invece no. Mentre quello di Stephen se non si crede alla teoria del suicidio (per quale motivo avrebbe gridato e per quale motivo avrebbe chiuso a chiave la porta della camera da letto di Tony dall’esterno, perché sicuramente la governante non l’ha fatto?), è sicuramente un delitto perfetto, compiuto però da un morto vivente, dallo zio svegliatosi dal sonno eterno.
Devo dire che la traduzione di Roberto Sonaglia, un antropologo che Mauro conobbe e presentò a Gian Franco Orsi, in quanto sfegatato appassionato di Carr, è magnifica. Lui dice di aver tratto giovamento leggendo le traduzioni di Maria Antonietta Francavilla, che erano sospese tra il divertito e il drammatico dei testi di Carr. A me francamente invece quel suo modo di tradurre, molto nero, lo avvicina più ai traduttori di un tempo, per esempio Laura Grimaldi o Rossana De Michele. 

Proprio Roberto Sonaglia, mi da modo di sottolineare un altro carattere di questo racconto che risiede oltre che nel suo avere un doppio finale anche soprannaturale, anche nell’essere un racconto di genere Gotico. Sonaglia, a questo proposito, scrisse un articolo proprio sul Gotico in Carr, pubblicato - in appendice al G.M. 1821 del 1983, in cui era stato pubblicato l’inedito di Carr He Wouldn’t Kill Patience – assieme a due articoli di Boncompagni e ad uno di Lippi. Ne riporto un breve estratto che si applica anche al racconto in questione:
“Carr fa anche di più; proponendo una particolare dimensione del misterioso, a suo tempo sviluppata da Gaston Leroux, egli gioca addirittura sull'esistenza/inesistenza del soprannaturale, artificio decisamente più adatto alle nostre menti smaliziate che sorridono idealmente dei fantasmi e, tuttavia, non sanno ancora decidere se credere o meno ad una realtà metafisica. Questo gioco elegante, come nei neogotici, presenta tutti i sintomi di un biofilo gusto estetico, ripercorrendo il cammino tracciato dalla ghost story classica dove lo spirito, con la sua incorporeità, sposta già l'indice dal carnale all'impalpabile, dall'orrore al mistero.”
Il pensiero di Roberto  è chiaramente condivisibile, ed è applicabile – anche per quello che ho detto –  quando per esempio si insinua che la figura che si nasconde dietro una pianta sul transatlantico, sia il vecchio Jim Marvel, o meglio il suo fantasma, indicato da un particolare, il collo di pelliccia antiquato del cappotto che usava il vecchio Jim; o quando questa figura si insinua che sia presente sul treno, che segua Tony fino al taxi che lo condurrà a casa, che sia quella che faccia sbandare il taxi perché Tony arrivi a casa non subito in modo che lui, il morto vivente lo possa tallonare, appropriarsi della pistola e poi uccidere. Ma quell’artificio di cui si parla , cioè l’esistenza/inesistenza del soprannaturale che è il quid poi del “genere fantastico” perchè genera una sorta di disorientamento nel lettore, lo abbiamo quando Sir Hargraves parla con Judith a pag.217:
Judith parlò dall’oscurità oltre il fuoco a gas.
"-Questa persona che seguiva Tony, non mi starete dicendo che era…insomma, era…
-Era cosa?
-Morta, completò Judith.
-Non so chi fosse, rispose Heargraves, guardandola fermamente. –Tranne che sembrava qualcuno con un collo di pelliccia sul cappotto."
Ancora di più, con il dialogo con cui si conclude il racconto: anche qui c’è questo gioco a rimpiattino tra l’adombrare il soprannaturale e il negarlo:
"-Ma è assurdo! – gridò Judith. – Stephen non mi piaceva; ho sempre saputo che odiava Tony; ma non era tipo da suicidarsi nemmeno se fosse stato scoperto. Vi rendete conto che non avete chiarito l’unico vero orrore? Devo saperlo. Voglio dire, devo sapere se voi pensate quello che penso io.
“Chi era l’uomo con il collo di pelliccia marrone? Chi ha seguito Tony fino a casa quella notte? Chi gli stava alle costole..? Chi era il suo protettore? Chi ha sparato a Stephen per vendetta?
Sir Charles Hargraves abbassò lo sguardo sul fuoco crepitante, il volto corrugato in un’espressione indecifrabile. La sua mente racchiudeva molti segreti. Era pronto a custodire anche questo, ora che si erano capiti.
-Ditemelo voi- rispose."
Ma perché uccidere Stephen se non si è ucciso ?
Qui gladio ferit gladio perit.
Tuttavia il racconto oltre ai caratteri gotico e soprannaturale che può accadere siano complementari (per esempio la vecchia dimora austera, buia, con rumori e scricchiolii, e uno spettro o comunque un morto vivennte,  sono due soggetti chiaramente abbinabili), ha anche quello fantastico. Infatti il modo come lascia al lettore, percorribile alternativamente, la via dell’omicidio impossibile messo in atto da un essere che entra nella camera e poi vi svanisce letteralmente senza lasciare traccia oppure quello del suicidio altrettanto poco probabile conoscendo la vittima (rintracciabile per esempio negli altri due racconti citati  e nel romanzo The Burning Court), fa sì che il lettore venga interessato da quel tipo di straniamento di cui parla Todorov nel suo saggio sul fantastico:
«Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l'una o l'altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l'esitazione provata da un essere che conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale».


 Pietro De Palma






venerdì 27 gennaio 2017

J.J.Connington: Le tre meduse (Tragedy At Raventhorpe,1927 ) – trad. Alberto Tedeschi – Mondadori – I Classici del Giallo N.186 del 1974 – pagg. 207




Gli anni ’20 furono per il Romanzo Poliziesco, un periodo di grande fermento: fu proprio in questi anni che i Gialli, come li chiamiamo noi, divennero un fenomeno di massa; e fu proprio in questi anni che furono poste le basi, perché nel decennio successivo e in pratica sino alla fine del secondo conflitto mondiale, il genere deduttivo assurgesse a vette inusitate, che non ha raggiunto più. Ma, sicuramente, non vi sarebbero stati Carr ed Ellery Queen, se in questi anni per esempio non fosse continuato il fenomeno Chesterton, e S.S. Van Dine in America e J.J.Connington in Inghilterra, non avessero scritto le loro opere.
J.J. Connington fu lo pseudonimo più noto con cui Alfred Walter Stewart, Professore di Chimica e Radioattività prima a Belfast e poi a Glasgow, e inventore del termine “Isobaro” da applicare ad un elemento radioattivo, scrisse romanzi polizieschi. Nato nel 1880 a Glasgow, in Scozia, e morto nel 1947, scrisse parecchi romanzi pubblicandoli a partire dai primi anni ’20 fino all’anno della sua morte.
Ancor oggi Connington è letto con interesse, soprattutto nel mondo anglosassone.
In Italia, son stati pubblicati nove romanzi (sei da Mondadori e tre da Polillo, di cui uno è la ripubblicazione di romanzo già pubblicato da Mondadori).
Tragedy At Raventhorpe, pubblicato da Mondadori nel 1933 nella collana de I Libri Gialli, al numero 73, col titolo “Le tre meduse”,fu ripubblicato nel 1974 nella collana de I Classici Mondadori. E’ un romanzo molto interessante, al pari di Mystery at Lynden Sands, “Orme sulla sabbia” e The Case With Nine Solutions, “Il segreto di una notte”, entrambi del 1928, e pubblicati da Mondadori, rispettivamente del 1931 e 1932.
Le tre meduse, narra di una tragedia avvenuta nel castello di Raventhorpe.
Sir Clinton Driffield, Sovrintendente di Polizia della Contea, viene invitato al Castello di Raventhorpe, per visitare le collezioni d’arte ivi contenute, tra cui spiccano 3 medaglioni attribuiti a Leonardo da Vinci. Proprietario del Castello e della tenuta è Maurice Chacewater. Egli contrariamente ai fratelli Attilio e Johanna è intenzionato a vendere i medaglioni. Per questa ragione, al castello è presente anche un mediatore americano, J.B.Foss (con maggiordomo ed autista), oltre al fidanzato di Johanna, Michael Clifton, ad una cugina dei Chancewater, Ida Rainhill, ed ad un amico loro, Faustus Polegate. Un bel giorno, Maurice organizza nel suo castello una festa a maschera, nel corso della quale i pezzi più pregiati della collezione verranno esposti al pubblico dei presenti. Sir Clinton cerca in tutti i modi di convincerlo dell’estrema pericolosità dell’evento, dato che chiunque potrebbe introdursi nel castello, protetto da una maschera. Ma Maurice è irremovibile. E così, la sera della festa, accade l’irreparabile: vengono rubati i medaglioni. Non però gli originali ma le tre copie che sono state realizzate a partire dagli originali. La cosa è parecchio strana: perché il ladro, ammettendo che non sapesse quali fossero gli originali e quali le copie, non ha rubato tutti e sei i pezzi e non solo tre, le copie? Ma la cosa che più colpisce, e che Driffield deve scoprire, è dove sia finito il ladro, dato che nella confusione dopo il colpo, è stato inseguito, nella sera illuminata dalla luna, ma, arrivati sulla terrazza che è a picco sul lago, tra le panchine e le statue, gli inseguitori, non son riusciti a capire dove il ladro sia potuto fuggire: in altro modo, egli si è volatilizzato. E’ possibile che il tonfo sentito, corrispondesse al ladro che si tuffava nel lago? Sir Clinton non crede. Il lago è pieno di scogli affilati: perché rischiare di sfracellarsi? No, lui pensa ad altro.
Intanto si viene a sapere che il furto in realtà sarebbe stato compiuto da Attilio e da Faustus Polegate, contrari alla vendita del pezzo d’arte. Quanta meraviglia quando si constata che al finto furto si è sovrapposto un vero furto. In pratica il ladro, travestito da Pierrot, è giunto un attimo prima dei due, ha rubato le tre copie, lasciando gli originali, che poi sono stati attaccati sotto il fondo della teca, dai cospiratori, per simulare la sparizione.
E’ una pura coincidenza che i due furti siano avvenuti contemporaneamente? Fatto sta che se il ladro vero non viene trovato, è anche vero che il padrone di casa vien ritrovato rintanato in una delle tante Case di Fate, caratteristica saliente della tenuta: se le fate ritornassero e non trovassero le loro case, una maledizione cadrebbe sulla testa degli appartenenti alla famiglia proprietaria del castello. E così, le case di fate, continuano ad esistere, disseminate tra i boschi intorno al castello. Cosa ci faceva Maurice in una di esse, con una espressione stravolta?
Sir Clinton vuole vederci chiaro, nell’ostilità dei suoi ospiti: perché, anche se oramai sa dell’innocente “scherzo da preti”, vuole continuare ad indagare? La ragione è che il Sovrintendente di Polizia sospetta che qualcun altro, a ragione, sia interessato ai tre pezzi. Viene dragato il lago e vien trovato il costume di Pierrot.
Foss offre ai Chancewater di riduplicare i pezzi, con delle tecnologie che ha con sé, ma, poco tempo dopo viene assassinato, con un colpo di spada giapponese, conservata in altra teca del Museo. Era insieme a Maurice: testimone è Thomas Marden, maggiordomo di Foss, che non afferma che Maurice è l’assassino. Dice solo che quei due erano assieme, poi lui è entrato, ha visto il suo padrone nel sangue, è scivolato infrangendo una vetrina e ferendosi seriamente la mano, ma anche dice che non ha visto uscire Maurice: un’altra sparizione.
Ora c’è un assassinio, su cui Clinton deve dire la sua. E nel mentre deve scoprire se l’assassino sia davvero Maurice, e dove egli sia andato a finire. E nello stesso tempo si sparge la voce che un misterioso Uomo Nero è apparso nel bosco la sera del furto. Insomma, cose da far perdere la ragione. Intanto il guardiacaccia li avvisa di aver sentito uno sparo vicino ai resti dell’antica torre, nel bosco, un po’ dopo dell’assassinio di Foss. Ma non ha trovato e visto nessuno.
Sir Clinton sa che a Raventhorpe esistono dei passaggi segreti: possibile che uno si apra proprio nella sala del museo? Si rivolge ad Attilio, ma quello è fuori. Deve quindi aspettare che arrivi col treno, il giorno dopo, per poter accedere al passaggio segreto, che effettivamente si apre in una nicchia , nel museo. Dal budello, nelle segrete del castello, arrivano ad una cella, dove trovano una macchia di sangue. Attilio ha detto di esser arrivato poco prima, ma viene sbugiardato dall’Ispettore Armadale che sa invece che non ha preso nessun treno. E’ coinvolto Attilio?
Intanto, ecco il secondo cadavere: Maurice viene ritrovato nel bosco, dietro l’antica torre, con la testa spappolata da un colpo di pistola sparato a bruciapelo. L’assenza di sangue e macchie ipostatiche, fanno sorgere il sospetto che il cadavere si sia irrigidito altrove.
Intanto si viene a sapere da Marden che era stato incaricato dal padrone di inviare un misterioso pacchetto, che poi si scopre contenere un orologio assolutamente nuovo; inoltre sulla scatola non si trovano impronte digitali. E anche che Foss era sul punto di ripartire dal castello senza che nessuno lo sapesse, compreso lui: aveva visto l’autista fermo con la macchina in attesa.
Ma qualcuno poi mette in discussione le parole di Marden. E intanto Driffield e l’Ispettore Armadale, suo contendente in questo caso, vengono a scoprire un misterioso aggeggio, detto “Otofono di Marconi”:  a cosa serviva? Si scoprirà essere un amplificatore di suono.
E anche che Foss non era un mediatore ma un illusionista ed imbroglione.
Sir Clinton tenderà una trappola all’assassino e dopo una nuova fuga sulla terrazza, riuscirà a beccarlo, individuandolo, dopo che questi avrà di nuovo tentato di svanire tra le panchine e le statue della terrazza sul lago.
Diciamo subito che il romanzo di Connington è uno di quelli che più a lungo rimane fisso in memoria: la ragione risiede nella grandissima atmosfera. Connington ne fu un maestro ineguagliato. E anche la tensione è tale che duecento pagine si leggono con un piacere ed un accanimento rari. Quindi, da questo punto di vista, nulla da dire. Inoltre il romanzo è uno di quelli in cui si ravvisa subito la tendenza dell’autore a dare spazio, anche in ragione della professione universitaria esercitata, a tutte le diavolerie e le invenzioni che in quegli anni, la scienza e la tecnologia mettevano a disposizione: lo si vedrà per esempio nella descrizione e nell’uso dell’Otofono di Marconi. Lo stesso marchingegno, unito all’acume scientifico nell’investigazione, avvicina molto Connington a Conan Doyle e allo stesso Freeman, cosicché Sir Clinton Driffield in qualche modo può esser anche paragonato al Dottor Thorndyke: lo si veda per esempio nell’investigazione sulle gocce di sangue trovate, e sulla spiegazione che esse possono dare, sia che siano rotonde sia allungate, sia che esse siano copiose sia che siano spruzzate; e nella spiegazione delle macchie ipostatiche. Particolari che in altri romanzi di altri autori, sarebbero stati spiegati da appartenenti alla Polizia Scientifica, oppure da Medici Legali. Qui, invece, è l’investigatore che desume tutto. Come..Sherlock Holmes.
La cosa principale che mi vien da dire a riguardo delle sue atmosfere gotiche, è che, oltre ai passaggi segreti, nel romanzo mi è balzata agli occhi la scena dell’inseguimento notturno, al chiaro di luna: queste scene notturne, sono un po’ peculiari di Connington e si trovano in alcuni suoi romanzi: se ne trova un’altra per esempio in The Case With Nine Solutions (corsa in macchina con la nebbia, di notte).   Perché mi sembra il caso di metterle in evidenza? Perché Carr, in The Grandest Game in the World, saggio del 1946 (pubblicato in Italia da Mondadori in “La Porta sull’Abisso”, Altri Misteri, 1986), ammise di essere stato grandemente tributario e ammiratore di Connington.
Ve la ricordate la scena in It Walks By Night, in cui, dopo una passeggiata nel parco, in una sera illuminata dal chiarore della luna, viene scoperto il secondo omicidio, quello di Vautrelle? Ne ho parlato in altro articolo di questo blog. Beh, la scena, per me è molto, ma molto simile a quella di Connington, e sicuramente Carr dovette essere influenzato anche da lui, in quel suo primo romanzo. E se questa scena mi sembra simile, se ne trovano altre, sempre di notte, al chiaro di luna, in altri romanzi d’atmosfera carriani, come Death-Watch  o The Crooked Hinge . E le statue sulla terrazza? A me quella scena, fa pensare al carriano, di qualche anno dopo, The Corpse in the Waxworks.
Tante lodi, ma anche delle pecche.
Innanzitutto, il romanzo si apparenta a quella serie che negli anni venti  e prima ancora, parlava di malefatte, di bande di malfattori, di furti, in cui i colpevoli non sono aristocratici o appartenenti alla buona borghesia (cosa che avverrà negli anni ’30), ma delinquenti, soli o organizzati. Per cui, individuato il modus agendi, e la spiegazione di “Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando” (pag.79), sarà più facile del previsto individuare il colpevole, anche perché, a chi non fosse in grado di individuarlo, vien fatto capire chi sia prima della conclusione del romanzo.
Tuttavia la pecca principale e fondamentale di questo romanzo, è il rilievo della figura di Maurice Chacewater e della sua morte: Maurice non muore assassinato ma suicida. Perchè ha assassinato Foss? No, perché è stato colto da una nevralgia, da un malore, o da una crisi di agorafobia!
La cosa paradossale è che questa crisi che ha originato il suo suicidio, avviene dentro la sala del museo, proprio quando è in compagnia di Foss al quale ha fatto vedere le tre meduse originali; e ancor più paradossale è che egli senta la necessità di entrare nel passaggio segreto proprio un attimo prima, ma proprio un attimo prima, che Foss sia ucciso. E che nel passaggio segreto, invece di attendere che la crisi sia finita come altre volte (egli non sa nulla di quello che avviene alle sue spalle nella sala museale), guarda caso, decida di farla finita, uccidendosi. Insomma vengono messi in atto dei meccanismi che solo in un romanzo d’appendice potrebbero realizzarsi. E che quindi sottraggono spontaneità e “verità” all’azione. Per di più, la caratterizzazione del personaggio è alquanto lacunosa: questa agorafobia, avrebbe potuto essere sfaccettata meglio. Giustamente Nick Fuller afferma che “..the agoraphobic suicide of Maurice Chacewater..could (and should) have been used as the central idea of an ingeniously horrible murder along Chestertonian lines ..”
La predilezione di Connington per le psicosi, è d’altronde un fatto incontestabile: sonnambulismo, agorafobia, cleptomania. Chi altro dei grandissimi, manifesterà predilezione per le psicosi? Ellery Queen. Possibile che oltre che su Carr, Connington avesse finito per influire su Ellery Queen?
Possibile direi, anzi.. possibilissimo.
La cleptomania che appare in un certo romanzo queeniano è un indizio incontrovertibile. Come del resto il mancinismo, anche questo presente prima in Connington e poi in Queen.
Peccato solo che “Le tre meduse” non sia ristampato da parecchio in Italia.
Lo sarà un giorno? Sperare..non è un delitto.

Pietro De Palma

giovedì 26 gennaio 2017

Ngaio Marsh : La medaglia del Cellini (Death in a White Tie, 1938), trad. Ada Salvatore (1^ ediz. I Libri Gialli Mondadori, N.222 del Novembre 1939, Anno XVIII), I Classici del Giallo Mondadori, N. 1270 del 28 aprile 2011

A parere mio uno dei migliori Marsh che abbia mai letto!
E’ presto detto, si fa per dire : un romanzo sontuoso, non semplice giallo, con una trama ed una atmosfera che cambiano completamente e continuamente; un grande romanzo, corposo, di quasi trecento pagine, quando i gialli classici che le raggiungono sono la minoranza; un romanzo che sa unire la trama poliziesca alle storie dei vari personaggi, almeno di alcuni, con grande penetrazione psicologica, e insieme con estrema delicatezza; un romanzo, in cui anche gli uomini, piangono come le donne.
La storia è ambientata nell’alta società, cosa accade comunemente nei Gialli classici anteguerra: un ricattatore si è impadronito di segreti compromettenti, e in cambio della loro non rivelazione, ricatta delle nobildonne. La prima è la fatua giovane moglie del Generale Halcutt – Hackett, che molto ingenuamente si presenta dalla polizia chiedendo aiuto, “per una sua fantomatica amica”; la seconda è Lady Evelyn Carrados, moglie di Sir Herbert Carrados.
A dirigere le indagini è Roderick Alleyn, figlio di Lady Alleyn, e quindi anche lui di nobile lignaggio. Il ricattatore pretende da ogni ricattata che ella lasci la propria borsetta da sera con 500 sterline nei posti da lui indicati, tutti ritrovi del bel mondo: per passare inosservato, quindi, anch’egli deve appartenergli, o comunque gravitarvi intorno.
Una delle particolarità del romanzo è ,oltre i caratteri cui sommariamente ho accennato, la varietà ed il rilevante numero dei personaggi che vengono interessati: c’è il Capitano Maurice Withers, un personaggio dal dubbio passato; il Generale e la Signora Halcutt-Hackett, Sir Herbert Carrados e Lady Evelyn Carrados; Violet Harris loro segretaria; Bridget, figlia di primo letto di Lady Carrados; c’è lo stesso Roderyck Alleyn figlio di Lady Alleyn e celebre Ispettore di Scotland Yard, nobile e fratello di un baronetto; c’è l’ambiguo Dimitri, capo di una azienda che oggi diremmo di “catering”, che si occupa dell’organizzazione, delle vettovaglie e del personale per i grandi ricevimenti; ci sono Lord Robert “Bunchy” Gospell, amico di Roderyck e la nobildonna Lucy Lorrimer; c’è il nipote “dilapidapatrimoni” di Lord Gospell, Donald innamorato di Bridget; c’è la pittrice Agatha Troy; e anche il medico dei Carrados, Sir Daniel Davidson.
Si capisce allora come individuare il ricattatore possa essere una cosa di non poco conto: Roderyck, chiede allora l’aiuto al suo amico Lord Gospell: sarà lui un agente in incognito, durante un ricevimento dai Carrados, e sarà attento ad individuare il ricattatore. Però qualcosa va storto e a ricevimento finito, Gospell viene ucciso, soffocato in un taxi, senza che l’autista se ne accorga e senza che la vittima strepiti poi tanto: come avrà fatto? E chi egli mai sarà?
Roderyck Alleyn si viene a trovare di botto trascinato da una semplice (ma poi mica tanto?), indagine su un ricattatore, ad una su un ricattatore ed un assassinio.
Altra particolarità di questo romanzo è che, molto più facilmente, si trovano trame in cui ad essere ammazzato è il ricattatore, e ad essere ricercato è il ricattato; qui c’è una diversità d’impianto: siccome Gospell noi sappiamo che non è il ricattatore e neanche il ricattato, ma solo un collaboratore volontario delle forze di polizia, se ne desume che l’assassino probabilmente è anche il ricattatore o comunque un suo complice. Ma perché ha ucciso Gospell? Perché aveva scoperto chi egli fosse?
Fatto sta che Roderyck è più che mai determinato: non solo ha ucciso un innocente, ma per di più suo fraterno amico. Leggere e raffigurarsi una scena in cui un Ispettore di Polizia pianga per un amico morto, non è cosa usuale nei Gialli, dove di solito il detective è staccato dai personaggi del dramma, ed è più che “Inter Partes”, “Super Partes”. In questo notiamo una caratterizzazione che fa della Marsh una scrittrice di prima grandezza:  più che una Giallista imprestata alla Letteratura tout court, il contrario.
Il ricattatore, quello che prende i soldi, viene individuato, abbastanza presto: più arduo è stabilire se egli sia l’assassino oppure se abbia un complice, o meglio se egli più che essere il ricattatore, lavori per quegli.
Noto un’altra cosa: Ngaio Marsh, per esprimere la brutalità dell’omicidio, e la sua bassezza, l’aver agito a tradimento da parte dell’assassino, senza che la vittima si accorgesse di quello che gli stava accadendo; e poi essersi appropriato del suo mantello e cappello, cioè dei suoi dati di abbigliamento caratterizzanti (viene paragonato a Chesterton), aver imitato la vocina del morto e aver spedito il tassista ad un certo indirizzo, procede alla descrizione dello stato in cui viene rinvenuto il corpo da Roderyck (infatti il tassista, essendosi accorto dell’omicidio in un secondo tempo, va di corsa alla centrale di polizia chiedendo al piantone di parlare ad un responsabile di grado elevato, che in quel caso è proprio l’Ispettore Capo di Scotland Yard, Roderick Alleyn): “Lui non rispose. Era solo con il suo amico. Le mani grassocce erano immobili. I piedi erano voltati all’indietro come quelli di un bimbo. La testa era piegata sulla spalla, languidamente, come quella di un bambino malato” (op. cit. pag. 65). In altre parole la Marsh per stigmatizzare la ferocia dell’assassinio, paragona il defunto Lord Gospell ad un bambino: chi mai ucciderebbe mai un bambino, un essere innocente, e per di più malato, se non un assassino feroce? Così per caratterizzare psicologicamente l’assassino si serve della descrizione della sua vittima: un procedimento abbastanza interessante.
Roderyck Alleyn dovrà quindi ricorrere a tutta la sua perizia, furbizia e sagacia, per costringere i vari personaggi a rivelare quei piccoli segreti che inconfessati servono solo a distogliere le indagini della polizia dall’acciuffare il vero assassino.
Non sarà cosa facile. Ma alla fine vi riuscirà, grazie ad un cofanetto francese antico e ad un portasigarette pacchiano ma con incastonata tra brillanti, una “medaglia del Cellini”. Che permettono di inquadrare l’assassino nell’affresco dell’assassinio, assegnandogli il ruolo suo proprio e distruggendo il suo alibi.
E in questo tourbillon, verranno arrestati un biscazziere, un ricattatore ed un assassino, il primo per niente complice degli altri due; verrà rivelata una bigamia, una relazione extraconiugale, verrà distrutta un’organizzazione dedita ai ricatti; e infine anche il sensibile ma determinato Roderyck Alleyn troverà l’amore, in un finale a lieto fine.
La ripubblicazione della palmina anteguerra N. 222 del 1939, anche da me più volte richiesta sul Blog Mondadori, è un grande evento per quanto riguarda la pubblicazione dei grandi gialli classici della produzione Mondadori da tantissimi anni dimenticati: l’operazione portata avanti da Mauro Boncompagni, responsabile dei Classici del Giallo Mondadori, è di grandissima portata. Si trattava infatti non solo di riportare i nomi, precedentemente italianizzati, alla precedente forma anglofona, ma anche di dare una rinfrescata all’italiano tutto sommato molto buono della traduzione di Ada Salvatore, modernizzando dei termini, che oggi paiono parecchio desueti: per es. “figlia” al posto di “figliuola” o “aprì” al posto di “aperse”, etc..
Io ho notato un refuso per così dire divertente (tutto sommato innocente e veniale) in prima pagina e che si può apprezzare solo comparando le due versioni, ma quello che sottolineo a margine di questa operazione culturale assai apprezzabile (soprattutto perché trattasi di uno dei più bei romanzi di Ngaio Marsh una delle scrittrici di lingua anglosassone ma di natali neozelandesi, più importanti del secolo scorso) è il fatto che stranamente, nella ristampa, non son state riportate le Note del Traduttore e soprattutto la piantina, presenti nella prima edizione. Invece, rispetto a questa, l’elenco dei tanti personaggi, caratteristico dei gialli Mondadori del dopoguerra, ha il pregio di dare al lettore un riferimento, che in quella mancava.
Un romanzo  che a parere personale, meriterebbe una pubblicazione anche negli Oscar, magari ripristinando la piantina e le Note del traduttore, che non aggiungono o tolgono nulla di importante, ma che sono per così dire “caratterizzanti”.

P. De Palma

sabato 21 gennaio 2017

DEI ROMANZI APOCRIFI SHERLOCKIANI E DI VARIE ALTRE JATTURE


Il "primo" romanzo della serie Sherlock
Riapro il discorso cominciato un mesetto fa, sulle sorti attuali del Giallo Mondadori, per affrontare tra il serio e il faceto un’ altra questione: le perniciose jatture.
Di quali iatture intendo parlare? Di quelle che noi, appassionati, collezionisti, seguaci della storica testata, anche estremisti della prima ora (estremisti nel senso di essere attaccati in senso viscerale alle sorti del Giallo Mondadori, che ci ha assicurato e ci assicura ancora – a tratti – la gioia di leggere cose a noi congeniali) evitiamo: le serie di letture che per quanto è di nostro gusto potrebbero benissimo essere evitate.
L’ultima di queste jatture (notate che metto la j invece che la i) è la serie delle già trenta uscite di apocrifi sherlockiani, che ogni mese ci stiamo sorbendo con atarassica sopportazione in attesa che qualche accidente ne decreti la fine definitiva, in quanto quella prematura è già stata superata non so quante volte. Oramai il buon Sherlock Holmes – che aveva solo un grande nemico in quel Moriarty che con lui sarebbe scomparso nel vortice delle Cascate di Reichenbach – purtroppo si salvò,  e riapparve tre anni dopo ne L’avventura della Casa Vuota (The Adventure of the Empty House): peccato! Dico purtroppo perché se fosse morto, noi non ci saremmo sorbiti già più di trenta apocrifi – e per apocrifo non intendo il semplice racconto che anch’io ho scritto, ma un intero romanzo – concernenti avventure di Sherlock Holmes, presumibilmente inquadrabili dopo la sua “resurrezione”.
Oramai Sherlock Holmes l’abbiamo visto: tentare di salvare i Romanov, indurre Watson a giocare a golf, agire ne “La casa della seta”, divertirsi con delitto a Singapore, improvvisarsi agente segreto per salvare un’improbabile corona europea, combattere il narcotraffico dell’oppio (ma Sherlock Holmes non era anche lui un dogato, un cocainomane? Avrebbe senso che un cocainomane combattesse contro il mercato dell’oppio? Mah..), scontrarsi con Jack lo Squartatore ( e addirittura abbiamo ben due romanzi di autori diversi in cui Holmes lo avversa: due !!! Il mostro dell’East End e Il marchio del terrore!!!), viaggiare in Afghanistan, scontrarsi con il Conte Dracula (figurarsi se non poteva mancare!), paventare il ritorno di Jack lo Squartatore a causa di una catena di strangolamenti (..e basta!!!), agire assieme a Irene Adler (questo forse sarebbe potuto passare), combattere un avversario in cerca del Libro dei Morti egizio, muoversi nell’Irlanda sconvolta dalla guerra civile.
Basta tutto questo? NO. Perché addirittura un altro apocrifo ha parlato dello zio di Sherlock Holmes, Jeremy (La vedova del Dartmoor): basta, ve ne prego: anche i parenti ora?
C’è altro? Sì, i topi. Siccome si è oramai a corto di avversari, S.H. lo si è fatto combattere persino contro il ratto di Sumatra, portatore della peste a Londra.
Poi ovviamente si è cimentato in altre avventure (sennò la jattura sarebbe finita: e invece NO!!!): innanzitutto sempre con Irene Adler deve investigare in Sussex sulla scomparsa di Mr. Phillimore e del suo ombrello (ma non era un soggetto di Ellery Queen?), deve barcamenarsi con l’oro boero e con una certa Lady Beatrice, riscontrarsi con Moriarty, investigare su api avvelenate e sui segreti di Londra, scontrarsi con il Barone Nero (ma non c’era già il Barone Rosso? Qualcuno deve aver pensato alla serie dei Corsari di Salgari: vuoi vedere che un giorno spunterà anche un Barone verde?), e infine condurre indagini sulla scomparsa di un certo Signor Crane. Compresi i 2 volumi di Sherlock Holmes in America e il solo attualmente di Sherlock Holmes in Italia (ma Sherlock Holmes in Italia non era già un’ antologia uscita in casa Delos anni fa contente i nove racconti presentati e altri sette?), il numero complessivo di volumi ad oggi è di 29. Ma non basta, perchè in realtà gli apocrifi sherlockiani sono 30. Già!  Ve n’è un altro che uscì prima del settembre 2014, inizio della serie: Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo (pure Ippolito Nievo!) dell’italiano Rino Camilleri (almeno per questo non si è pagata la traduzione!).
Il "vero primo" romanzo della serie Sherlock

Trenta? No, Trentuno. Sì perché il prossimo mese ne esce un altro di David Stuart Davies! Spero solo che non ne scriva un altro, altrimenti anche quello verrebbe pubblicato, statene certi! Sembra che stia facendo il verso ad un romanzo di Giulio Leoni: Trentuno con la morte (quello sì un bel romanzo! A proposito non esce più nulla di Leoni sul G.M.?).
Già perché con il prossimo mese, raggiungeremo le trentuno uscite. Ah già dimenticavo, nell’ambito delle trentuno uscite abbiamo esaurito tutti i romanzi di David Stuart Davies: infatti sono stati pubblicati tutti i suoi sei romanzi. Saranno contenti “i numerosissimi” aficionados di Davies immagino. Pensate un po’: Mondadori da tre anni a questa parte ha pubblicato tutti i romanzi di Davies, e nessuno dei romanzi di Halter. Solo che Halter è un nome riconosciuto a livello mondiale, Davies è un nome riconosciuto tra gli aficionados di Sherlock Holmes!
Punti di vista.
A questo punto chiunque dei miei lettori potrebbe ipotizzare una mia avversione completa nei confronti di questo genere: assolutamente sbagliato signori miei! Io non sono contrario in generale agli apocrifi ma a parecchi di questa operazione commerciale che, a meno di aver incontrato un clamoroso successo ( non credo proprio se prendo in esame le copie che vedo rimanere ogni mese invendute sugli scaffali dell’edicola sotto casa mia), sta utilizzando risorse che altrimenti si sarebbero investite per ben altri progetti.
Il discorso degli apocrifi è complesso.
Già molti anni fa, fu affrontato quello degli apocrifi queeniani  che una parte molto tradizionalista degli appassionati di Queen non accettò di buon grado. Ma si trattava pur sempre di apocrifi che per il 50% della ditta Ellery Queen (cioè Lee) erano validi in quanto i vari autori che li approntavano, prima di pubblicarli li sottoponevano al giudizio, e al raffinamento da parte di uno dei due cugini. Questi apocrifi sherlockiani, invece, e ovviamente (ci mancherebbe solo che venisse fatta qualche seduta spiritica per chiedere l’approvazione di Conan Doyle! Che era per giunta un grande spiritista!) sono interamente frutto altrui.
Sarei un idiota se non riconoscessi la grande valenza riconosciuta nel campo del genere poliziesco da Sherlock Holmes; e sarei parimenti un idiota se non sapessi che ogni grande fenomeno è passibile di copia. Nel caso specifico, Sherlock Holmes è stato il personaggio della letteratura poliziesca più copiato in assoluto, da molti autori che ne hanno creato anche dei cloni. E molti di questi autori, lungi dall’essere sconosciuti o quasi, come sono gli autori dei romanzi mondadoriani, erano volti noti del panorama giallistico internazionale, che ne hanno fatto la storia.
Prima di ricordare brevemente quegli autori che crearono cloni dai nomi curiosamente affini, sarà il caso di ricordare a chi non ne sia a conoscenza che lo stesso Sherlock Holmes fu una versione definitiva utilizzata da Conan Doyle dopo aver pensato ad altri nomi indicativi del suo personaggio: il primo fu Sherrington Hope (che non c’entra una pippa con Sherlock Holmes!) a detta di H. Douglas Thompson, nel suo Masters of Mystery (1931). Vincent Starrett affermò che il nominativo di Thompson era frutto della sua cattiva memoria, dimostrando come il primo nome scelto da Conan Doyle fosse stato Sherrinford Holmes sulla base della riproduzione del vecchio taccuino di Conan Doyle inserita nel suo Vita privata di Sherlock Holmes (1933). Il fatto che l’altro autore avesse affermato la forma Hope, per alcuni sarebbe stato il risultato di una sintesi con l’assassino di Uno Studio in Rosso, Jefferson Hope. A parte questo la forma definitiva Sherlock Holmes fu il risultato secondo alcuni di scelte casuali: Holmes sarebbe derivato da Oliver Wendell Holmes saggista e medico americano amante di romanzi polizieschi, mentre il nome Sherlock sarebbe  stato adottato dopo una partita di cricket nella quale Doyle avrebbe battuto un battitore dal tale nome. Tuttavia questa genesi  del nome non pare sia stata confermata in alcun modo da Doyle, a ribadire che molti autori hanno scritto su Holmes ( e molti lo hanno copiato).[1]
Sarà qui il caso di ricordare alcuni di questi autori creatori di cloni, dai nomi curiosamente affini a Sherlock Holmes, molti dei quali assolutamente sconosciuti :
Sherlock Abodes di Bob Higgins : risultato di una trasformazione di significato. Togliendo la L centrale Holmes si trasforma in Homes = Case, dimore come appunto Abodes.
Fetlock Bones, cognato di Sherlock Holmes (accompagnato dal dottor Potson) in The Pekinese of the Basketville, originale radiofonico CBS del 1944.
Oilock Combs (Watson= Spotson) di William Kahn (1905)
Picklock Holes in otto parodie di Cunnin Toil (1901)
Hemlock Holmes, di James F. Thierry (1918), batte l’ispettore Letstrayed
Loufock Holmes (1895) di Cami.
Raffles Holmes di Joihn K. Bangs (1906)
Hemlock Jones di F. Bret Harte (1902)
Sheerluck Ohms ( in parodie) di Thomas B. Dowdall (1946-1950).
Oltre i citati (ed altri) illustri sconosciuti, ci furono anche altri autori molto conosciuti che scrissero cloni.
Tra questi  Maurice Leblanc che propose il suo Holmlock Shears prima versione del definitivo Herlock Sholmes che combatte contro Arsese Lupin;  August Derleth che propose un proprio eroe sherlockiano di nome assolutamente diverso, Solar Pons (accompagnato dal dottor Lyndon Parker); prima ancora Il Principe Zaleski inventato da Matthew Phipps Shiel (amico di Oscar Wilde, 1895). Anche George Meirs  creò un personaggio direttamente influenzato da S.H. : “William Tharps, il celebre poliziotto inglese” accompagnato dall’avv. Pastor Lynham.
Quindi non avrebbe alcun senso che io avversassi il genere, tanto più che anch’io ho scritto racconti apocrifi sherlockiani (uno è inserito nella prima versione di Sherlock Holmes in Italia, quella Delos uscita anni fa: anzi è uno dei due più lunghi!). Ma i racconti sono una cosa, i romanzi sono un’altra! E io critico la scelta di una serie che arriverà a 31 uscite perché di essa faranno parte 28 romanzi di autori semisconosciuti (o sconosciuti proprio o conosciuti solo tra frange di fissati di S.H.) e solo 3 raccolte di racconti (i racconti avrebbero contribuito a dare internazionalizzazione al genere restando tuttavia in un ambito ristretto).
La mia è una critica non campata in aria: io critico innanzitutto la modalità alla base della creazione della collana. Che io sappia e abbia sentito in giro, l’uscita della collana è stata decisa, come atto monocratico, senza che altri potessero esprimere il loro punto di vista. Questo, a dirla tutta, può essere anche in un certo senso una cosa buona da parte di chi non è stato interpellato, perché in caso l’iniziativa vada a carte e quarantotto, si potrà sempre dire “a me nessuno ha chiesto nulla”, oppure “io non ero d’accordo” oppure anche “io non avrei mai dato il via ad una collana di apocrifi sherlockiani!”. E se lo dico è perché c’è gente che è convinta di questo!
Nessuno dice che non possa essere nelle corde dell’editor assumersi la responsabilità della nascita di una collana, se lui pensa che possa avere successo. Il fatto è però, sulla base del pregresso, tutti gli editor che hanno voluto tentare qualcosa di nuovo, hanno dovuto poi approntare la ritirata, dopo aver fatto sfracelli. E siccome poi alla lunga nessuno dei responsabili superiori si assume mai la responsabilità di avere assunto lui l’editor ma scarica tutto sull’editor medesimo, alla fine dei conti, chi paga alla lunga una iniziativa finita in un certo modo, è sempre il lettore, che non ha più a disposizione quel parco scrittori che aveva prima che l’iniziativa cominciasse e poi finisse. A dirla tutta, a denti stretti. Cioè in parole povere… prima che Altieri avesse la brillante idea (sicuramente supportato da alcuni) di inaugurare la collana “Il Giallo Mondadori presenta”, una sorta di vetrina in cui sarebbero dovuti essere presentati al pubblico gli autori emergenti italiani, ricorderò ai lettori freschi e ignari, che anni fa il lettore del G.M. aveva 4 inediti e 2 classici AL MESE. E in più c’erano due testate trimestrali: Lo Speciale del G.M. (che ancora esiste, ma non so fino a quando) e il Supergiallo Mondadori – che presentava una silloge di racconti, erede delle mitiche stagioni “Ellery Queen presenta” – che NON ESISTE PIU’.

Dopo il tracollo della collana neonata, che determinò una tracimazione di titoli inadatti per il bacino ormai abituato al mystery di qualità nel Giallo Mondadori, anche il G.M. andò in crisi, con il conseguente effetto che molti lettori storici abbandonarono la testata. Risultato ? Da 6 inediti AL MESE si è passati a 2 Inediti AL MESE. Da DUE collane trimestrali si è passati ad UNA collana in pratica quadrimestrale.
Altri effetti? Altieri esonerato e lettori infuriati e disorientati.
Chi ha pagato degli alti ranghi per delle operazioni commerciali finite in un disastro? Solo l’editor. Ma non posso pensare che l'editor non debba rendere conto a qualcuno che sia più in alto di lui senza necessariamente arrivare subito al presidente. Eppure alla fine chi ha subito sulla propria pelle i disastri combinati da gente che è saltata, sono solo i lettori. Siamo sempre noi che subiamo. Noi siamo il popolo e loro i governanti. E’ una metafora dell’ambiente politico. L’effetto di tutto ciò quale sarà che ad un certo punto il popolo dei votanti/lettori, perché i lettori votano una politica editoriale acquistando i libri, non voterà più per determinate persone, preferendone delle altre.
Cosa significa la ripresa di Polillo secondo voi?
NON che Il Giallo Mondadori è inutile perché in perdita di consensi, ma che il Giallo Mondadori se gestito diversamente – E NON PARLO DI EDITOR ma di chi anche sta sopra E DI TUTTO IL MECCANISMO CHE GIRA ATTORNO (vedi per esempio affidare la curatela delle collane a consulenti di provata esperienza e ripristinare la Redazione) – produrrebbe MOLTO DI PIU’.
I responsabili del crollo di consensi non possono essere solo i lettori, ma soprattutto chi ha gestito le cose cosicchè i lettori diminuissero. I lettori sono solo la cartina di tornasole di una situazione di boom o di crisi o di andamento costante. Dico cavolate forse?
Ora l’abolizione della redazione, basata sul fatto che a uscire sarebbero dovuti essere solo due volumi al mese, in realtà non troverebbe più alcuna base, perché ad uscire sono tre volumi: uno di approvazione diretta dell’Editor (l’inedito del G.M.), uno basato su un piano presentato da Mauro (il Classico) ed uno sembrerebbe basato su un piano presentato da Pachì. Per questa serie tuttavia, siccome Pachì e Forte sono amici da sempre e sono tra i soci fondatori di Delos, i titoli proposti da Pachì suppongo che abbiano l’avallo di Forte. Cosa voglio dire? Che nel caso di una serie di romanzi nuovi cioè di inediti sherlockiani affiancati a quello di genere generale mensile, romanzi che procurano una spesa sensibile, a mio modo di vedere, se vi fossero state più voci a dire la loro nell’ambito del progetto, forse si sarebbe visto anche qualcos’altro. Invece così, mah, mi sembra che una visione esclusiva, limiti la qualità dell’intera serie: su che base i romanzi scelti sono meglio di altri? Chi lo dice? E’ questo il punto. Una decisione collegiale avrebbe avuto un peso maggiore.
Tenendo conto sempre che questi apocrifi sono romanzi nuovi, e di autori stranieri, per cui sono stati pagati diritti (immagino poca cosa essendo autori poco conosciuti) e sono state pagate le traduzioni, il loro peso editoriale è effettivo: non si tratta di racconti di autori italiani che rinunciano a compensi pur di vedere pubblicati i loro lavori che non bisogna ovviamente tradurre, né tantomeno di  ristampe per cui bisogna pagare solo i diritti ai traduttori, a patto che esistano ancora, e agli agenti detenenti, i diritti degli autori.

Con i soldi spesi in questa operazione commerciale si sarebbero potuti tradurre o ritradurre molti capolavori che restano lì ad aspettare Godot: Il Mostro del Plenilunio, L’ultima Carta, Piazza pulita di Carr, avremmo potuto vedere tradotti i racconti di Mr. Tarrant di Daly King, altri romanzi di Doherty, Gaudy Night di Sayers o Sudden Death di Crofts, alcuni romanzi di Ngaio Marsh di cui resta solo l’edizione della Casini super tagliata, tipo Off with his Head (Rito macabro) o The Nursing-Home Murder (Tra bisturi e siringhe) o ancora A Man Lay Dead (Giochiamo all’assassino). Non parlo più dei romanzi di Paul (anche se lì una mia personale speranza è data dal fatto che lui non ha mai detto espressamente che i suoi romanzi non si sarebbero più fatti, per cui potrei anche sperare in una pubblicazione futura), e figurarsi dei Boileau (già abbiamo visto Sei delitti senza assassino) o Vindry o Le Quattro Vipere di Pierre Very, una delle Palmine più belle in assoluto che attende il ripescaggio da troppo tempo. .
Si sarebbe potuto pubblicare anche in un’edizione speciale l’ultimo lavoro radiofonico di Carr non tradotto (perché lunghetto): Speak of the Devil ; o l’ultima fatica di Ellery Queen rimasta incompiuta.
Insomma…penso di essermi spiegato a sufficienza.
Il discorso sugli apocrifi per di più si potrebbe anche ampliare:
per quale motivo – dico io – invece di questi romanzi che ci stanno proponendo da quasi tre anni (la più lunga serie di jatture è ancora quella famigerata dei gatti di Lilian Jackson Braun: 29 romanzi + alcuni Speciali coi racconti, ma credo che preso, se questa serie di romanzi apocrifi continuerà, potrebbe essere surclassata; mentre quella incentrata sulle gesta di Amelia Peabody di Elizabeth Peters, pseudonimo di Barbara Mertz, convenientemente mollata a Editrice Nord, si è attestata sulle 13 uscite e grazie a Dio si è bloccata) non si sono proposti altri apocrifi, ma di qualità straordinaria?
Perché cioè non hanno pensato a ripubblicare Le Nuove Imprese di Sherlock Holmes di Adrian Conan Doyle (il figlio) e John Dickson Carr (antologia già pubblicata da Mondadori nel 1966) ? O La soluzione sette per cento di Nicholas Meyer? O Il mistero della sala Egizia di Val Andrews? O I passatempi di Sherlock Holmes di René Reouven? O ancora I segreti di Sherlock Holmes di Enrico Solito che è il più grande autore italiano riconosciuto di apocrifi sherlockiani? Questi sono tutti libri già editi da Fabbri, pubblicati del 2003, per cui sarebbero stati pagati i diritti, ma non certo le traduzioni. E si tratta comunque di romanzi di valore riconosciuto: Val Andrews è stato un grande scrittore di apocrifi e un mago illusionista; non credo sia necessario parlare di Carr e del figlio di Conan Doyle; e pure Reouven è un grande scrittore francese vivente, per di più autore di romanzi con delitti impossibili (presenti alcuni anche nella lista di Lacourbe).
E si sarebbe potuto presentare anche The Misadventures of Sherlock Holmes di Ellery Queen (Dannay), o – anche in due volumi – una delle più straordinarie raccolte di racconti ispirati da S.H., Le avventure di Solar Pons & Le memorie di Solar Pons di August Derleth, originariamente pubblicata nel 1970 da Longanesi. Invece…
Devo aggiungere altro?
Non credo.

Pietro De Palma


[1]Molto altro si può leggere nella interessantissima prefazione di Ellery Queen alle Avventure di Solar Pons, di August Derleth