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giovedì 6 agosto 2020

Paul Halter : La fonte delle lacrime (Les Larmes de Sybil, 2005) - trad. Angelo Petrella. Il Giallo Mondadori N° 3102 del 2020

Oramai la fine della serie con Alan Twist è alle porte, e forse è anche un bene, se è vero che prima o poi dovranno per forza rivolgere le attenzioni all'altra serie , quella di Owen Burns, che ha dei titoli molto buoni. Mi viene da pensare che quello che mi disse mesi fa Igor Longo, era sostanzialmente vero: "Io al tempo feci i migliori Halter". Non che quelli ultimi siano stati delle ciofeche, ma è indubitabile che Igor scelse tra quelli che aveva letto, quelli da proporre; ed è altrettando indubitabile, che oggigiorno non vi è nessuno in Mondadori che abbia letto tutti gli Halter e sappia fare opera di discernimento prima di proporre i romanzi da pubblicare. Ci si adagia sull'evidenza del passato senza osare proporre qualcosa di nuovo: ad esempio Le Montre en Or, dell'anno scorso, di cui ha parlato assai bene non solo Gabriele ma  anche Fei Wu, e che sono in procinto di leggere, o qualche romanzo con Owen Burns. Ci sarebbe anche qualcosa da dire sulla traduzione, ma ne accennerò dopo aver parlato della trama.
Nel paese di Chartham, in Cornovaglia, vive la famiglia Kendall: Oliver è un poliziotto, la moglie è Ruth, e siccome non hanno avuto figli, hanno adottato Sandra, diventata con gli anni una gran bella ragazza, preda delle attenzioni dei due fratelli Trevor e Philip Leighton. La loro è una famiglia segnata dalla tragedia: la loro madre Deborah ancora va sulle falesie, gridando nel vento il nome di suo figlio Henry, caduto in mare e mai più ritrovato.
In questo paese molto selvaggio e in cui nessuno capita, un bel giorno invece arriva un tale Patrick Markale: pare che sia un sensitivo, e poi lui ammette di stare lì perchè certa la Fonte di Sybil, una fonte di acqua magica, capace di aumentare il suo grado di veggenza. 
Appena arrivato, si reca proprio a casa Kendall ad acquistare un tavolo rotondo di legno che gli servirà per le sue pratiche, e in quell'occasione fa una predizione di sventura a Ruth Kendall. Questa premonizione in realtà non avrebbe un gran valore se non fosse coadiuvata da una serie di sedute, in cui Kendall, su richiesta anche di alti papaveri della polizia, chiede a Patrick di scoprire gli autori di alcuni reati: si incomincia su un furto avvenuto poco tempo prima e la cui divinazione fa scoprire il maltolto in men che non si dica; poi è la volta di un'ostessa e di un rappresentante di liquori scomparsi nel nulla, di cui Markale, pressato da Kendall che ne vuole dimostrare la cialtroneria, fa trovare i cavaeri, ormai scheletriti, sepolti nell'orto di casa dall'oste geloso della moglie; poi riesce a trovare i gioielli rubati anni prima e mai trovati nella zona, poi ancora riesce a far scoprire l'autore di un  incendio. Più va avanti nei suoi successi, più Patrick Markale diventa famoso, più Kendall schiuma di rabbia e stupefatti sono anche Hurst e Twist che in quel paese sono arrivati per  dare man forte a Kendall. La cosa finirà quando Markale morirà e della morte verrà indicata una persona, che avrebbe pianificato la sua morte, ma che in realtà è stata usata da un'altra, il vero colpevole, il cui scopo era duplice: colpire due piccioni con una fava. Solo che c'è Twist che lo individuerà e ne scoprirà il piano diabolico.
Diciamo subito che questo romanzo di Halter, non è uno, come ci si aspetterebbe, o almeno si spererebbe, con delitto impossibile, ma è più che mystery...una favola nera, come ne abbiamo visto altre nella seconda parte della carriera di Halter, quando invece la prima era stata dettata all'inizio da delitti impossibili, camere chiuse e atmosfere opprimenti e orrorifiche. 
Per certi versi questo plot mi ha ricordato L'Homme qui aimait les nuages, una trama tutto sommato leggera, inframmezzata qua e là da spunti misteriosi, che ha ancora una volta cone nota dolente (è l'unica, ma oramai è ben presente) di non presentare all'interno del romanzo, una struttura ben articolata di indizi che possono trasformarsi come prove e che anche il lettore può ben utilizzare per crearsi il suo colpevole cercando di rivaleggiare con l'autore (e quindi con il suo personaggio principale). Per di più, Alan Twist,  man mano che passa il tempo, perde le sue caratteristiche di personaggio leader, assurgendo sempre più ad una figura di comparsa che solo nell'ultima parte del libro catalizza l'attenzione del lettore, e perde nel contempo lo spessore di figura a tutto tondo, che invece era presente nei primi romanzi: servirebbe per me, perdere qualche parola in più per descriverne il personaggio, dal punto di vista fisico e anche psicologico, un po' come il vecchio Carr anche nei romanzi tardi non mancava di tratteggiare in maniera anche fracassona il personaggio di Gideon Fell.
Man mano che Halter è andato in là nella sua produzione, essa ha perso sempre più la connotazione di mystery classico, di whodunnit, trasformandosi in favole nere: questo perchè la trama tende sempre più a trasformarsi in una nebulosa, in cui qua e là appaiono gli indizi, che non sono mai del tutto definiti e spesso cadono dal cielo, e che quindi non possono essere presi in esame dal lettore; che sta sul palco, non riuscendo mai a salire sul palcoscenico della trama, e assiste trasognato a qualcosa che si svolge sotto i suoi occhi e di cui non riesce quasi mai a venire a capo: è il limite dello stile halteriano. Questo modo di scrivere, che si è inspessito col passare del tempo, ha una debolezza sostanziale dalla sua: il lettore tende a sottvalutare col tempo l'opera letteraria del Nostro che invece ha i suoi punti di forza nelle atmosfere tratteggiate con grande perizia e nei delitti impossibili che quando ci sono, sono talvolta così impossibili da non venir talora sufficientemente spiegati razionalmente (un po, l'errore di Talbot). Quando però i delitti impossibili, che sono il suo marchio di fabbrica, mancano, ecco che le mancanze si rivelano in tutto il loro spessore: se gli indizi fossero tangibili e l'autore accettasse di confrontarsi col lettore, molto probabilmente l'utente finale rimarrebbe più soddisfatto e il romanzo acquisterebbe in considerazione.
A questa sua deficienza stilistica, a parer mio, contribuisce talora anche la traduzione: Halter quando scrive, di solito ha una scrittura un po' monotona, che per essere rivitalizzata avrebbe bisogno di qualcuno che traducendo, creasse un ritmo che talora non c'è, allungando o accorciando le frasi. E' da un po'di tempo a questa parte, che la lettura è sempre un po' difficoltosa, non nel senso di difficoltà di terminologia quanto nel ritmo: si fa fatica a leggere e portare a termine il libro, non si è invogliati, come quando traduceva Igor Longo. Certo può essere anche che sono i romanzi un po' deboli, e questo lo è, ma...
Infine ecco Twist che scende dal cielo come un deus ex machina e spiega quello che mai uno avrebbe potuto capire, perchè non c'è stata mai la minima possibilità che si potesse supporre tutto quell'ambaradan, che certo stupisce, ma che stupirebbe di più se il lettore assistesse di più, durante il romanzo, allo svolgersi del pensiero di Twist.
Anche qui c'è come in altri romanzi, il personaggio che scompare: francamente, ho pensato durante la lettura, fino ad un certo punto, che il figlio dei Leighton, caduto dall'alto della scogliera, fosse Patrick Markale, e si rinnovasse qui una delle caratteristiche della narrativa halteriana: quella delle sostituzioni di persona, delle doppie identità e del ritorno dell'erede, che invece qui non ritorna. La natura professionale dell'assassino, ha un trait d'union con un altro romanzo più giovanile, anche se lì l'assassino risulta meno abbietto di questo.
E ancora una volta, le violenze in età infantile, appaiono, e hanno una parte determinante nel plot: questo spessore psicologico, mette Halter nell'Olimpo degli scrittori contemporanei, per la sua capacità di introspezione in un mondo, di cui molti non colgono la valenza, per la sua attenzione alle motivazioni drammatiche infantili, che vengono presentate sempre o quasi con grande finezza. Che se fosse accompagnata da una capacità introspettiva anche nella struttura  indizaria, collocherebbe sempre le sue opere tra i massimi esempi contemporanei di crime fiction.

Pietro De Palma

giovedì 4 luglio 2019

Paul Halter : L'uomo che amava le nuvole (L’Homme que aimait les nuages, 1999) - trad. Angelo Petrella - Il Giallo Mondadori N. 3180 del 2019


L’Homme que aimait les nuages, è il 21° romanzo di Halter dal suo inizio, e il 14° con Alan Twist, il suo più celebre personaggio. E come molti altri con Twist, propone un delitto impossibile.
Il romanzo si apre con la coppia Twist/Hurst che dibatte sull’assenza di qualche caso stuzzicante, se non fosse per lo strano racconto che Twist ha sentito la sera prima da un giovanotto che ha conosciuto, circa le strane proprietà divinatorie di una ragazza, che, come accaduto altre volte, ha divinato su qualcosa, e in questo caso, sulla morte imminente di un conoscente del giovane, che a ragione è preoccupato.
Il giovane, un giornalista, Mark Reeder, ha una strana passione: è innamorato delle nuvole, che segue di territorio in territorio. Stavolta è capitato a Pickering, dove ha fatto la conoscenza di un certo Cherles Trent, che, al Cigno Nero, l’osteria nella quale è solto essere notato, gli racconta una strana storia: quella di una ragazza, Stella, che, orfana di madre prima e poi di padre, vive con la sua madrina, una violinista.
Stella ha dei poteri tutti suoi:
ha il potere di rendersi invisibile, scomparire davanti a dei testimoni: addirittura la polizia, che aveva circondato il boschetto dove lei suole ripararsi, per mettere fine alle storie si presunte sparizioni, non era riuscita a capire come potesse sparire, giacchè davanti a tutti gli agenti, era sparita: ovvio che poi, gli agenti fossero stati derisi;
ha il potere di divinare, non cose accadute nel passato, ma cose che accadranno: premonizioni;
e ha infine il potere di materializzare monete d’oro da un ammasso di rocce.
Va a finire che Mark conosce Stella, che sembra una fanciulla eterea, tanto da evaporare in un alito di vento, e se ne innamora, ricambiato. E come accade, vuol sapere di più sul suo conto: è lei, che con le sue monete d’oro, ad essere la principale benefattrice della chiesa del villaggio; a Joseph Wilder, un pescatore divenuto amico di Mark, aveva un giorno predetto una pesca miracolosa, e così era avvenuto. Le premonizioni accadono in un modo tutto singolare: nel boschetto, quando si alza il vento, le foglie della quercia, vibrando, trasmettono parole alla ragazza, come nel santuario di Dordona in Grecia.
La ragazza è ancora innamorata del ricordo del padre, morto tempo prima, suicidatosi quando gli affari erano cominciati ad andare male, e aveva venduto persino il vecchio maniero nel quale viveva con la figlia Stella, dopo la morte della madre. Per un tozzo di pane, la sua casa e tutti i suoi ricordi, erano stati acquistati da un certo Usher, un eremita misantropo che nessuno al paese può sopportare, che vive ramingo e solitario nel suo castello. Stella aveva previsto la morte del padre, prevedendo il giorno del suicidio.
Usher è odiato anche dalla ragazza. Pare che ci abbia pure provato con lei.
Per di più conserva maniacalmente le foto della madre di Stella, alla quale pare che fosse legato prima dell’apparire di John Deverell, il padre di Stella.
Twist e Hurst appaiono in scena quando viene vaticinata dalla ragazza la morte del pescatore amico di Mark. Ma prima che muoia lui,  è già morto Charles Trent. E nel giorno prefissato morirà Joseph Wilder. In tutti e due i casi si dice che l’assassino sia stato il vento, che soffia impetuoso sulla scogliera e nei pressi del castello, e che ha provocato la morte di tanti anche nel passato di Pickering. Ma ora pare che la chiaroveggente abbia avuto anche un altro messaggio dall’al di là, in cui si annuncia la morte dopo tre giorni di Usher. Quindi tutti vanno a trovare Usher per metterlo al corrente e vedere di impedire che anche lui muoia: prima Reeder, che non si chiama così ma Reeve ed è legato al passato di Usher, poi Hurst e altri poliziotti.
Ma il giorno fatidico, Usher davanti agli attoniti poliziotti, prima viene strappato da qualcosa di invisibile, e poi precipita dalla scogliera.
A quel punto Twist, spiega la meccanica dei delitti ed inchioda l’assassino, rivelando anche la macchinazione dei falsi annunci divinatori e della produzione di oro.
Mi vien da dire che man mano che Paul Halter ha pubblicato romanzi, la materia narrativa è divenuta meno densa, più fumosa ed impalpabile. In certo senso il vento è la metafora della carriera letteraria di Paul: man mano passa il tempo,  l’inventiva e la fantasia via via son venuti meno, e al posto di quelle trame così bizzarre e terrorifiche, e ancor più…macabre, che caratterizzavano i primi romanzi (La mort vous invite, La Quatriéme Porte, La septième hypothèse, Le diable de Dartmoor, A 139 pas de la mort, L'image trouble, Le Brouillard Rouge, Le Chambre du fou) se ne sono sostituite altre più vaporose, più leggere, da fiaba (Le cri de la sirène, Meurtre dans un manoir anglais, L'homme qui aimait les nuages).
Lo stile è sempre quello di Halter: sa come evocare una certa atmosfera, a seconda dei plot essa è sviluppata in vari modi, ma sempre in modo da generare in chi legge, almeno per un attimo, la compartecipazione alle vicende, per quanto inverosimili esse possano essere. A differenza di Carr, però, queste atmosfere tendono a sparire, perché le storie sono sempre più impalpabili, con il prosieguo delle pagine, mentre in Carr, nei Carr fino agli anni ’40, le atmosfere sono pesanti e grevi, e permangono tali sino alla fine del romanzo. Forse anche per questo motivo, nei Carter Dickson con Merrivale, Carr sentì il bisogno di sgravarle dalla loro stessa materica densità, inserendo delle battute dissacranti, quando non addirittura delle macchiette (come in Patience per esempio).
Anche in questo romanzo notiamo due caratteristiche peculiari di Halter:
la prima è il ricordo dell’infanzia, che è un po’ il suo marchio di fabbrica, ancor più delle camere chiuse, perché ricorre in tutta la storia della sua narrativa: il ricordo di una infanzia perduta, e come nel caso di Stella, la volontà del padre di crearle intorno un mondo pieno di fascino e magia, tanto da farle dimenticare la morte della madre;
la seconda è il soggetto di cui conosciamo una certa identità all’inizio del romanzo, ma che viene poi ribaltata in un’altra, quella vera, tenuta celata per varie ragioni. Questa è una classica caratteristica halteriana, presente in molti romanzi e che ricorre anche qui. Qui però è presente anche un’altra peculiarità, che potremmo definire una sorta di variazione della prima: il cosiddetto “ritorno dell’erede”, una delle caratteristiche del giallo all’inglese: nell’ambito di un certo parco di soggetti, uno può non essere lui, cioè il nominativo che ha dato può non essere quello vero, perché lo collegherebbe ad una certa situazione che vuole tenere celata, quella di una eredità che in qualche nome reclama. Questa è una caratteristica certamente del giallo “British” ma non di quello francese: è evidente quindi che Halter lo abbia ereditato da qualche autore britannico che ha molto amato, cioè Agatha Christie.
L’evento impossibile, cioè l’azione del vento prevista con largo anticipo e poi verificatasi puntualmente, il vento visto come un soggetto attivo, dotato di intelligenza e volontà, tanto da strappare Usher al poliziotto che lo vuole trattenere, è risolto con grande intelligenza e in maniera abbastanza plausibile, tenuto conto che Halter spesso, per risolvere rompicapi assurdi che egli stesso ha creato, finisce talora per arrampicarsi sugli specchi e far perdere alla sue soluzioni di plausibilità, come per es. in Cri. Però è anche da tener presente che spesso in Halter, in una serie di omicidi accomunati tutti da una stessa caratteristica, bisogna stare attenti a non attribuire all’evento base A tutte le morti B, perché potrebbe essa essere una sola e gli altri, solo un modo per distogliere l’attenzione: anche in questo caso, il riferimento è ad Agatha Christie (ved. Per es. ABC Murders).
Buon romanzo, anche più lungo del solito, che si legge bene, e riserva la grande trovata di Usher che non è Usher, ma… Io che avevo scoperto che un certo personaggio poteva non essere lui, sono stato tuttavia sorpreso dalla scoperta della verità, condotta assai bene, che lascia letteralmente di stucco.

Pietro De Palma

venerdì 4 gennaio 2019

Paul Halter : La nuit du loup, Le Masque, Les Maitres du Roman Policier, 2000




Nel 2000, all’alba del nuovo millennio, Paul Halter volle riunire una serie di racconti che aveva scritto negli anni precedenti  in una raccolta, che intitolò La Nuit du Loup. Successivamente, nel 2006 uscì anche una edizione in inglese - affidata a quel John Pugmire che due anni prima ne aveva tradotto i lavori - che tuttavia si notò per essere diversa da quella originale. Infatti, mentre la raccolta La Nuit du Loup presentava 9 racconti, quella in inglese THE NIGHT OF THE WOLF ne conteneva 10.
Andando a vedere bene, tuttavia, si nota non solo la presenza ovvia di un racconto in più, ma anche l’aggiunta e la sostituzione di altri. Infatti, il racconto Un Rendez-vous aussi saugrenu causa l’intraducibilità in inglese della forma usata di francese che non si adattava ad essere altrimenti tradotta senza perdere i connotati su cui si basava essa stessa, fu sostituito nell’edizione in lingua inglese, dal racconto L’Abominable bonhomme de neige (The Abominable Snowman), mentre ad esso ne fu aggiunto addirittura un altro, Le Spectre doré (The Golden Ghost).
Non si deve pensare però che i racconti fossero stati tenuti in un cassetto e poi pubblicati per la prima volta in occasione della pubblicazione dell’antologia; parecchi di essi erano stati tradotti in altre lingue: 2 (The Tunnel of Death e The Night of the Wolf) erano apparsi tra il 2005 e il 2006 su EQMM, con traduzione di John Pugmire, mentre con quella di Peter Schulhman era apparsa nel 2004 sempre su EQMM, The Appel of Lorelei; 5 poi, erano stati tradotti da Tiziano Agnelli e pubblicati in Italia su “Il Foglio Giallo”, la pubblicazione de Il Club del Giallo, un’associazione che una ventina d’anni fa ancora riuniva parecchi appassionati e al quale apparteneva anche Paul Halter nella veste di socio onorario (che si è estinta dieci anni fa) : Ripperomanie e L’appel de la Lorelei nel 1999, La nuit du loup, Les Morts dansent la nuit e La Hache nel 2000. Perché furono stati scelti proprio questi racconti ?
Lo spiega Paul in due brevi righi, interrogato da me qualche giorno fa, che gli chiedevo, impressionato dalla qualità e dalla complessità de La Nuit du loup, se esso fosse per caso il racconto da lui preferito tra tutti quelli dell’antologia: «Cher Paul, depuis quelques années, je dois votre collection La nuit du loup, mais je ne l'avais jamais lu seulement l'histoire qui a donné son nom à la collection (comme je l'avais lu quelques-uns des autres). Je suis restée muette. Nous sommes face à un chef-d'œuvre, avec trois fins différentes, chacune plus étonnant que les autres. Je me suis senti la même forme d'aliénation je me suis senti à lire La quatrième porte. Vous avez appelé la collection La nuit du loup,  idéalement lacer l'histoire éponyme, je pense. Je dois penser que vous considéré comme le meilleur des neuf ? »
«Oui, Pietro, vous avez raison !Enfin oui et non...J'ai bien aimé cette histoire de loup, avec une chute un peu fantastique... La meilleure? Je ne sais pas... Peut-être ex-æquo avec La HACHE, LA LORELEI et LES MORTS DANSENT LA NUIT. Mais d'aussi loin que je m'en souvienne, j'ai dû emprunter son nom pour le recueil de nouvelles, sans doute par ce que c'est celui qui me plaisait le plus. »
Insomma, per chi non conosce il francese, Paul dice sostanzialmente che i racconti che tra i tanti ricorda con più piacere erano La HACHE, LA LORELEI et LES MORTS DANSENT LA NUIT, ma che ho ragione a pensare che in sostanza, essendo stata intitolata l’antologia con lo stesso titolo di un racconto, quello fosse senza dubbio il suo preferito.
Questo giudizio, che è quello dell’autore, toglie di mezzo tutti i giudizi arbitrari, apparsi su vari siti, secondo cui, uno più che un altro o un altro ancora, erano i migliori. Io personalmente oltre La nuit du loup che è un capolavoro assoluto, pari a qualche racconto del Carr più ispirato (The Door to Doom, per esempio) penso che un altro molto buono sia Les morts dansent la nuit, che ricorda per l’atmosfera (una cripta contenente le tombe di famiglia) The Burning Court di Carr o anche La chambre du fou dello stesso Halter , ma è un giudizio del tutto soggettivo.
Ecco a seguire il contenuto della prima edizione
L’Escalier assassin
Les Morts dansent la nuit
Un Rendez-vous aussi saugrenu
L’Appel de la Lorelei
La Marchande de fleurs
Ripperomanie
La Hache
Meurtre à Cognac
La Nuit du loup
Ed ecco quello dell’edizione inglese, in cui venne modificato l’indice originario:
The Abominable Snowman
The Dead Dance at Night
The Call of the Lorelei
The Golden Ghost
The Tunnel of Death
The Cleaver
The Flower Girl
Rippermania
Murder in Cognac
The Night of the Wolf
Di che genere sono i racconti presentati?
Ovviamente Camere Chiuse e Delitti Impossibili, anche se vi è anche qualcuno che sfugge a questa classificazione presentandosi come un racconto più libero.
Se andiamo ad analizzarli velocemente, cumulando tutti i racconti, sia dell’edizione francese che di quella inglese, possiamo tentare una classificazione veloce:
Camera Chiusa Classica
La Marchande de fleurs (apparizione dei doni di Natale in una stanza sigillata)
Murder in Cognac: (avvelenamento all’ultimo piano, chiuso all’interno, di una torre)
Les Morts dansent la nuit (Camera Chiusa classica: cripta sigillata da cui provengono orribili risate)
Variazione di Camera Chiusa sulla neve
La Nuit du loup
L’Appel de la Lorelei
L’Abominable bonhomme de neige
Le Spectre doré
Delitto Impossibile
L’Escalier assassinn (un delitto maturato su una scala mobile, a metà circa della stessa, tenuto conto che né da destra né da sinistra c’era qualcuno che potesse uccidere)
Esempi vari di deduzione poliziesca
Ripperomanie
Un Rendez-vous aussi saugrenu
La Hache
Non basterebbe certamente un articolo per descrivere e analizzare tutti i racconti, per cui dirò solo che i protagonisti sono diversi: Owen Burns, che si trova in storie affondate nel passato, è un personaggio modellato su Oscar Wilde, che ancora in Italia non è conosciuto, perché nessuno dei 5 romanzi in cui opera è stato pubblicato. A quel tempo tuttavia, solo due lo erano stati, tuttavia già bastanti ad assicurargli la fama : Le roi du désordre (1994) e Les sept merveilles du crime(1997);  Alan Twist invece vive avventure risalenti agli anni ’30-‘40. Si noti tuttavia che sia Burns che Twist in queste storie non sono accompagnati dalle rispettive spalle: Stock e Hurst.
Nonostante la presenza dei due personaggi, nessuno di loro compare nel racconto migliore in assoluto, che non esito a definire un autentico capolavoro. Se esiste il racconto perfetto in Halter, senza dubbio, a parer mio, esso è La nuit du loup.
Tengo a precisare che per sviscerare i suoi contenuti , darò la soluzione del racconto per cui chi non l’abbia ancora letto è pregato di non andare oltre questa analisi.
La storia comincia con un padre che sta rimproverando ai propri pargoli di non saper ancora andare a caccia da soli. E mentre i compagni sono intenti a dividersi un cervo, i pargoli pregano il padre di raccontare una storia. E così il vecchio, pure a malincuore, narra la storia di Pierre Lupo, un suo amico e della sua morte in circostanze impossibili.
Pierre Lupo era un tale che abitava in una casa di legno, provvista di laboratorio, al centro di una radura nel bosco. Nel vicino paese di Malmont, che in Lorena è ai piedi della catena montuosa dei Vosgi, stretto attorno ad una chiesa, sotto una coltre di neve che sembrava proteggerlo dall’esterno, si parlava sottovoce scongiurando che il lupo mannaro, che aveva ucciso vent’anni prima, non ritornasse ancora a mietere vittime.
Lupo era inviso alla comunità cittadina in quanto in tanti anni uno dei suoi sport preferiti era stato stabilire relazioni extramatrimoniali con molte donne del paese, cosicchè era divenuto inviso ai più e viveva ramingo in una casa nel bosco nel mezzo di una radura, assieme ad una cane; i suoi unici amici erano il Commissario Mercier e il vedovo dottor Loieseau.
Una notte accade che alla porta del Commissario Jean Roux bussi un tale: un piccolo uomo, talmente vecchio che l’età non era definibile, vestito con vestiti di buona fattura, ma coperto di neve che gli chieda di potersi riparare dalla tormenta di neve, in quella notte. Sulle prime il Commissario non sa decidersi: tuttavia anche se non si spiega perché mai in una notte nevosa come quella un tale sia ancora in giro, le sue condizioni lo rassicurano. E così, dopo averlo rifocillato e riscaldato, mentre quello fissa accanto al fuoco e con nelle mani un grog denso, un grosso cane lupo che dorme su una stuoia, gli racconta la vicenda impossibile a spiegarsi dell’assassinio di Pierre Loup: due giorni prima, il suo ex superiore il Commissario Mercier aveva sentito dei latrati nella notte; qualche ora dopo, il dottor Loiseau, lo aveva svegliato perchè preoccupato che dalla zona dove abitava Pierre Loup fossero prevenuti grida e schiamazzi nella notte. Così alla luce dei una lanterna si erano addentrati nel bosco, nonostante Loiseau camminasse zoppo (con il bastone) perché il suo cane lo aveva morso ad una caviglia, e qui, in una radura tutta ammantata di neve, avevano trovato la porta della casupola del vecchio Pierre, completamente spalancata: dal sentiero dove stavano loro, fino alla casa, erano visibili impronte di animale, probabilmente un lupo. Solo quelle. Nella casa trovarono il cadavere orribilmente sfigurato di Pierre, come se degli artigli e delle zanne lo avessero sbranato, per di più con un pugnale infisso nella schiena.
Il Commissario Roux indica a Dieudonne proprio in cane lupo addormentato e lo indica come possibile responsabile nel caso il padrone fosse stato solo sbranato, ma..egli è stato anche accoltellato e quindi, anche se fosse stato il cane a sbranarlo, poi chi l’avesse pugnalato avrebbe dovuto lasciare delle orme, che invece non sono state rinvenute.
Nella neve nulla che non le loro impronte fino alla casa, le impronte di un grosso cane o lupo, e ovviamente i fori prodotti dal bastone di cui si serviva il dotto Loiseau. Nient’altro.
Il sopralluogo da parte della polizia, chiamata da Mercier e comandata da Roux, non aveva sortito alcuna novità, se non ovviamente che la vittima pur essendo stata sopraffatta da un animale, era stato pugnalato. E quindi a meno di non trovarsi con qualcosa che potesse impugnare un coltello e che avesse le zampe da animale, non si riusciva ad attribuire ad altri la paternità dell’efferatezza. Ma dovunque si andasse non si riusciva a cavarne un ragno dal buco: chi aveva ucciso Roux e perché? Era un lupo mannaro o no?
Il vecchio ospitato da Mercier, di nome Noel Dieudonne, dopo aver sentito la storia, afferma che  di credere “che ci sia una spiegazione per tutto”. Roux è incredulo: lui stesso era stato svegliato da Loiseau, e con lui aveva trovato la vittima vegliata da Mercier, che gli aveva confermato la storia di Loiseau: lo aveva svegliato neanche un’ora prima chiedendo se avesse sentito urla provenire dall’abitazione di Loup. E insieme avevano trovato la vittima in uno stato raccapricciante, nello stesso in cui era stata trovata la moglie di Loiseeau vent’anni prima. Viene a sapere anche che qualche giorno prima, si erano diffuse notizie sulla possibile presenza di un lupo mannaro; e siccome prima dell’omicidio della moglie del dottore, il piccolo Henri, che nel frattempo  era diventato sì giovane aitante e forte ma anche avente il cervello di un bambino, era stato morso si diceva “da un lupo mannaro”, ora qualcuno aveva attribuito a lui quelle urla, schiamazzi e ringhi nel bosco. In particolare ad una cena a cui aveva partecipato Henri assieme a Pierre,  Mercier e Loiseau, questi due ultimi avevano avanzato ipotesi che il giovane diventasse nelle notti di luna piena “un lupo mannaro”. Loup si era risentito di questo, ma qualche giorno dopo proprio da zanne e artigli era stato quasi sbranato.
Le successive indagini avevano stabilito che Loup, donnaiolo impenitente, aveva fatto vittime femminili nella comunità, e che probabilmente anche Henri era un suo figlio, visto il lascito che Loup gli aveva destinato alla sua morte. Dei tre, sarebbe l’unico a beneficiare della morte di Loup. Tuttavia Didionne la pensa diversamente: chiede tuttavia se vi siano altri indizi, particolari di nessuna importanza che non erano stati narrati. E così viene a sapere che nel laboratorio di falegnameria di Loup, erano stati trovati in mezzo alle ragnatele e alla polvere, dei truccioli di legno fresco, segno che qualcosa era stato lavorato. Cosa?
Dieudonne raccogli gli indizi e annuncia di aver capito chi possa essere l’omicida: può essere che il Commissario Rouz che si sta scervellando da due giorni non abbia capito chi possa essere l’omicida, e Dieudonne l’abbia compreso?
E così rivela che tra i tre possibili sospettabili (Mercier, Loiseau, Henri) il solo possibile colpevole non poteva che essere Loiseau: ma come ha fatto, per di più zoppo a non lasciare impronte? E perché l’avrebbe ucciso? Perché nella notte della cena, Loup si era esposto troppo, indignato perché si fosse sospettato del suo figlio “scemo” di essere un lupo mannaro, ed aveva promesso ai due che lui avrebbe fratto giustizia e rivelato anche chi aveva ucciso vent’anni prima: il dottore, per poter sposare una giovane donna ed eliminare la vecchia).
Ecco la soluzione prospettata da Dieudionne: siccome nella notte dell’assassinio aveva nevicato per poi smettere, il dottore era arrivato alla casa di Loup in serata e lì lo aveva ucciso con una coltellata, per poi selvaggiamente ferire volto e braccia della vittima con una sorta di rastrello con cui aveva già vent’anni prima aveva simulato lo sbranamento della moglie da un cane o lupo mannaro supposto tale. Quindi nel laboratorio falegnameria annesso alla casa, ha il tempo per confezionare dei cortissimi trampoli che fissa alla suola delle scarpe e che realizza in modo che riproducano la parte finale del suo bastone. Così camminando presumibilmente un passo dopo l’altro, come se camminasse su una corda, si allontana dalla casa lasciando sulla neve solo impronte che sembreranno quelle di un bastone, quando ritornato più tardi sulla scena del delitto, infilerà il bastone proprio nei fori lasciati nella neve precedentemente. Per poi simulare le orme di un grosso cane, lascerà libero il suo cane di correre e latrare a perdifiato nella notte: saranno i suoi i latrati e i ringhi che si sentiranno nella notte. Poi va a svegliare il suo amico il commissario Mercier e insime andranno a casa di Loup e lui, avviandosi verso la casa, facendo vedere all’incredulo commissario le orme lasciate del suo cane che lui attribuirà ad un lupo mannaro, farà in modo come aveva previsto, che la punta del suo bastone cerchi i buchi fatti dai trampoli modellati sullo stesso. Dieudionne, inevitabilmente elabora lo stesso ragionamento che fa ogni lettore che legga la storia: di chi si parla, quali sono i soggetti del dramma? Solo tre persone erano così intime di Loup, che si era preclusa l’amicizia del paese in virtù della sua irrispettosa frequenza delle mogli altrui: i suoi amici: il Commissario Mercier, il dottor Loiseau, e il figlio scemo Henri per cui Loup nutre un profondo amore e anche la volontà di difenderlo da chi tenti di aggredirlo.
Il Commissario Roux non crede ai propri occhi: in poco tempo quel tale piovuto dal cielo gli ha risolto quel problema che non l’aveva lasciato dormire per due giorni.
Così finisce la storia, del padre che narra ai figli, mentre il resto dei compagni sta ancora mangiando la carne del cervo.
 Solo che a questo punto il padre rivela ai suoi figli che la storia era troppo assurda, troppo costruita per essere quella vera: in realtà ce n’era una molto più semplice, che cioè il lupo amico di Loup gli si fosse rivoltato contro quando alla luce della luna piena si era trasformato davvero  in un lupo mannaro. Cioè, qui abbiamo il secondo sovvertimento, dopo la spiegazione che ne è stato il primo: non è l’uomo che diventa lupo, ma è il lupo che diventa uomo. Una realtà troppo orribile a detta di colui che narra la storia: cosa c’è di così orribile? Il fatto che un lupo, che è un animale che caccia per nutrirsi, si possa trasformare in un essere umano. E a questo punto avviene il terzo shock per il lettore: chi ha raccontato la storia, era anch’esso un lupo, che narrava ai lupacchiotti la storia di un amico dei lupi chiamato Lupo,  che aveva chiamato il suo lupo col suo nome.
Ecco che acquista spiegazione il dialogo che poco prima ha concluso il racconto e la spiegazione del problema: “Wolf,” murmured Roux, “like his deceased master. I never understood why he called him by his own name”.“There’s always an explanation for everything, my dear sir…”. Cioè se Roux esclama : “ Wolf, come il suo defunto padrone. Non ho mai capito perché lo avesse chiamato col suo nome”, gli risponde Dieudonne a tono: “C’è sempre una spiegazione per tutto”.
In sostanza il racconto dispiega la propria azione su più piani:  in sostanza se La quatrieme porte, è una storia nella storia (noi leggiamo una storia e poi a metà del libro ci accorgiamo che a sua volta era una storia che qualcuno stava scrivendo), differentemente da essa che ha solo due piani su cui si muove, La nuit du loup, ne ha molteplici.
Innanzitutto noi leggiamo di un gruppo di soggetti che hanno cacciato un cervo e ora si apprestano a riposarsi dopo il pasto: nulla ci può far pensare che non si tratti di uomini. Solo che Halter semina indizi, modi di usare dei termini che in linguaggio lato valgono per gli uomini, ma che in origine indicano proprio gli animali. Sottolineo nel dialogo questi termini rivelatori:
“Daddy, Daddy, tell us a story.”
The chieftain looked at the little group that was devouring with gusto the deer that had been killed a few hours before. He pricked up his ears and glanced in exasperation at his son.
“Yes, Daddy, please,” insisted another of his children.
“Another one?” he growled. “You’d do better to occupy yourselves with more important things! You’re old enough to hunt now. The winter’s been hard and spring is still a long way off. How many times do I have to tell you that to live you have to eat, and to eat you have—”
“Yes, we know, but please, Daddy, please tell—”
“Now you’re bothering me! I don’t know what else to tell!”
His companion trotted through the snow to rub herself against him: “You can tell them the story of Wolf.” (traduzione di dal francese di John Pugmire).
Divorando, rizzò le orecchie, per vivere bisogna mangiare, trotterellò nella neve, sono tutte espressioni cui lì per lì il lettore non da peso, ma di cui poi si ricorda e rivaluta all’atto della rivelazione della fine del racconto, quando capisce che a raccontare era un lupo. Che parlava di un suo amico che era stato ucciso, Lupo, che aveva a sua volta chiamato il suo cane come lui. Fin qui arriva il racconto. Ma Dieudonne invita ad andare in fondo alle cose: perché Loup avrebbe chiamato il suo cane come lui? Perché entrambi condividevano la stessa natura? Loup da uomo si trasformava in lupo, e il lupo a sua volta si trasformava in uomo?
In sostanza quindi il lettore si improvvisa detective quando trova gli indizi che Halter ha disseminato nel brano perchè il lettore possa arrivare a capire (ma non vi riesce) che era una storia nella storia, in cui chi la leggeva era diverso da chi si credeva che fosse.
Anche La Quatriéme porte è una storia nella storia; anche La Tavola fiamminga di Perez Reverte è una storia nella storia.
Ma poi vi sono altri piani su cui la storia si muove.
Chi è Dieudonne? E’ il deus ex machina della storia, e si chiama proprio “Dio che da”: cosa? La soluzione. Ma che invita a guardare dentro le cose, perché tutto può essere guardato non per forza da una sola prospettiva. E' come se fosse un vecchio saggio, è come se fosse la coscienza personificata, una specie di "Γνῶθι σεαυτόν" personificata: l'istanza a guardare in se stessi, ad andare a fondo delle cose per trovare la soluzione; ma è anche l'invito a guardare le cose da una prospettiva diversa.
Poniamo che Loup e il suo loup condividessero la stessa natura:  poichè Loup si era fatta la triste storia di essere un dongiovanni impenitente, nulla autorizza a non pensare che davvero la moglie di Loiseau potesse esser stata uccisa da un lupo mannaro, cioè da Loup trasformatosi in bestia, allorchè con lui si era incontrata per avere un rapporto carnale.
In sostanza è come se gli stessi fatti autorizzassero una soluzione diversa nel momento in cui venisse contemplata una compromissione fantastica: un po’ come la doppia soluzione di The Burning Court. Se dovessimo credere alla soluzione razionale, il colpevole non può che essere Loiseau; se invece prestassimo fede al racconto fantastico, anche la soluzione lo diventa.
E perché non pensare che se Loup è davvero un lupo mannaro, non lo possa essere davvero il figlio, che era stato indicato tale da Mercier e da Loiseau?
Dieudonne avrebbe  potuto anche voler proteggere il figlio “minorato” di Loup: un figlio grande grosso, dotato di una forza bestiale, ma col cervello di un bambino. Mettiamo che il figlio avesse scoperto chi aveva ucciso la madre tanti anni prima e avesse concepito un piano per vendicare la madre, uccidendo chi l’aveva uccisa realmente (il padre, Loup) e facendo incolpare chi l’aveva tradita (Loiseau): anche così avrebbe un senso la cosa. A dirla in poche parole: se la storia viene elaborata in un universo reale può avere un solo sviluppo, per impossibile che possa sembrare in un primo tempo; se invece viene elaborata in un universo fantastico, le soluzioni possono essere molteplici.
Ecco perché parlo di un vero e proprio capolavoro.
Noto inoltre che per la somiglianza reale con la soluzione di un romanzo posteriore, Halter deve aver pensato di utilizzarla, magari variandola in qualcosa : infatti, come non ricordare la soluzione di A 139 pas de la mort ? Anche lì abbiamo una variazione di Camera Chiusa: in una casa in abbandono, viene rinvenuto un cadavere, seduto su una poltrona, in avanzato stato di decomposizione, provieniente da una tomba violata, e tutt’intorno il pavimento uniformemente coperto di polvere, in cui si noterebbero le impronte se ci fossero, e  nessuna orma che possa avvalorare l’ipotesi che qualcuno abbia scaricato su quella poltrona il corpo e, come vi sia entrato, sia poi uscito da quella casa. Eppure lì abbiamo una soluzione che direttamente si ricollega a quella de La nuit du loup: infatti i 2 travicelli di legno di un metro alle cui estremità sono infissi quattro grossi chiodi, corti di lunghezza, sfruttano la stessa soluzione usata qui: dei trampoli bassissimi ma tali nella loro doppiezza ( che nel racconto hanno lo scopo di confondere le orme ed attribuirle alla punta del bastone del dottore, e nello stesso tempo sorreggere il peso dell’uomo senza che vi sia la possibilità di cadere a destra o a sinistra).
Insomma tutto e il contrario di tutto nell’universo targato Paul Halter.
Pietro De Palma
 
P.S.
Chi voglia procurarsi l'edizione inglese, dato che quella francese è più difficile da reperire,  non ha che da rivolgersi a John Pugmire:

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