lunedì 28 dicembre 2020

Delitti, federali e doppiopetto : I gialli nel Ventennio di Augusto De Angelis (*)


Il romanzo poliziesco era già nato tempo prima, ma fu intorno agli anni ’20 che cominciò a ingranare consensi e attirare le masse: il Poirot di Agatha Christie, il Philo Vance di S.S. Van Dine, il signor Reeder di Edgar Wallace. E anche nell’Italia fascista dei movimenti futuristi, delle trasvolate e delle grandi opere nazionali (e degli assassini politici), un giorno arrivò il Romanzo Poliziesco; e tanto grande allora era il successo che questo genere letterario riscuoteva in ogni parte d’Europa, che, anche in Italia, fu fondata la collana de I Gialli Mondadori, nel 1929. Ma chissà perché l’Italia fascista, nonostante il successo che arrideva a Philo Vance, Poirot e Ellery Queen, non amò questo nuovo genere, semmai lo tollerò inizialmente.

Il fatto era che il fascismo guardava in maniera assai mirata alla comunicazione di massa: e mezzo principe, prima ancora di radio e cinema, erano i libri, diffusi principalmente e inizialmente tra le classi borghesi e nei centri urbani; ma l’esplosione del poliziesco coinvolse ben presto le masse: il fascismo non guardava di buon occhio a questo tipo di letteratura, considerato immorale, per contenuti (la realizzazione di un fatto delittuoso) ma anche per provenienza (l’origine era prevalentemente il mondo anglosassone, il cui stile di vita era visto come corruttore della “sana gioventù fascista”). Ecco allora perché più o meno alla metà degli anni Trenta del Novecento, il fascismo impose delle limitazioni oltre che delle direttive politico culturali: accettato o tollerato il giallo, si richiese che le case editrici includessero almeno per il 20% del proprio parco titoli una quota di gialli creati da autori italiani; inoltre erano indicate delle direttive cui non si poteva derogare: i delitti si imponeva che avvenissero in ambienti esotici se non cosmopolitici; che non venissero rappresentati delinquenti “italici” ma stranieri e che i fatti delittuosi avvenissero in ambienti viziosi quando non depravati, che non ci dovevano essere suicidi, e che il lieto fine fosse obbligatorio a dimostrare che la risoluzione del delitto dovesse identificarsi in un ritorno all’ordine delle cose.

E’ così che in un batter d’occhio la Mondadori mise su un nutrito gruppo di autori da Mariotti a Spagnol, da Vailati a Varaldo. Due autori, emersero in particolar modo, e i loro romanzi ancor oggi si leggono con piacere: Augusto De Angelis creò il Commissario De Vincenzi, Ezio d’Errico il Commissario Richard : due autori italiani, due figure diverse. Entrambi però attirati e conquistati dal mito di Simenon, il commissario Maigret. Perché proprio Maigret fosse l’esempio del detective da seguire, più dei suoi colleghi d’oltreoceano vicini all’esempio sherlockiano, è da ricercarsi nel fatto che Simenon più di altri creasse per la prima volta il romanzo poliziesco borghese, realizzando il tutto attraverso due caratteri che diverranno peculiari caratteristiche di tutti i romanzi con Maigret: l’umanità del commissario ed il realismo delle situazioni. Proprio tali caratteristiche in opposizione al giallo del detective superuomo, dell’indagine puramente indiziaria e della conseguente logica abduttiva necessaria a rimettere ordine nel disordine del delitto, conquistarono gli scrittori italiani. Conseguentemente i personaggi degli scrittori che si votarono a costituire quella che potremmo definire una “scuola di Simenon”, rifuggivano dal sensazionalismo aristocratico per rifulgere invece nella vita di ogni giorno, in cui il delitto è quasi sempre banale come la vita che ci circonda, e non invece quasi un’opera di ingegno, come andava predicando il De Quincey.

De Angelis volle muoversi nell’angusto spazio di casa nostra: per certi versi, la sua scelta fu coraggiosa, nonostante il suo eroe incontrasse in quegli anni un certo successo. La prima avventura è infatti del 1935, e in nove anni, fino al fatidico 1944, in cui De Angelis morì in seguito ad un pestaggio fascista, consegnò il suo lascito nell’ambito del genere poliziesco.

Va detto che anche la critica letteraria aveva cercato di stigmatizzare a riprese – in certo senso anche pilotata – la scelta delle masse di ricorrere ad una scrittura “degenerata” quale il Giallo, che poteva influire pesantemente sull’animo dei giovani fascisti.

Alberto Savinio nel 1932 aveva detto : “…Il romanzo poliziesco è essenzialmente anglosassone. La metropoli inglese o americana, con i suoi bassifondi sinistri e popolati come gli abissi marini di mostri ciechi, le sue squadre di delinquenti disciplinati e militarizzati, le sue folle nere come l’acqua delle fogne, l’aspetto spettrale delle sue architetture, offre il quadro più favorevole, la messinscena più adatta al quadro del delitto. S’immagina male un romanzo poliziesco dentro la cinta daziaria di Valenza o di Mantova, di Avignone o di Reggio Emilia. Il viaggio di Cristoforo Colombo, nonché segnare la fine dell’evo di mezzo, segna pure nel mondo latino, il fallimento del mistero della mezzanotte. Nel mondo anglosassone invece esso mistero non solo perdura, ma col volgere del tempo si rimoderna, si industrializza, si meccanizza, si standardizza. E come concepire romanzo poliziesco cui manchi l’atmosfera, il brivido del mistero della mezzanotte? (“Romanzo Poliziesco”, “L’Ambrosiano”, 23/8/1932; anche Souvenirs, Palermo, Sellerio, 1989, p. 144). Alberto Savinio era lo pseudonimo sotto cui si celava il pittore, letterato e critico, Andrea Francesco Alberto de Chirico ( fratello del pittore italiano Giorgio De Chirico), che scrisse tra l’altro dei saggi per la rivista “L’Ambrosiano” diretta da Leo Longanesi.

A questa dichiarazioni di intenti, aveva risposto lo stesso De Angelis nella prefazione a Le sette picche doppiate (N. 211, Romantica Mondiale Sonzogno, 1940), dal titolo : “Il romanzo Giallo. Confessioni e meditazioni”:  “..L’essenziale, inoltre, per me è creare un clima. Far vivere al lettore il dramma. E questo lo si può ottenere anche facendo svolgere la vicenda in Italia, con creature italiane. […] Questo è certo, ad ogni modo. Che, se il romanzo poliziesco deve nascere anche da noi, ha da essere romanzo italiano, caratteristicamente nostro, luminosamente nostro.

Metterci proprio noi a scriver storie poliziesche, con personaggi americani o inglesi, che si svolgono su suolo straniero, non potrà mai costituire esercitazione artistica, nonché arte.

Raffazzonatura semmai. Pedissequa imitazione..

 Il banchiere assassinato  (anno 1935) è il primo romanzo della serie : qui De Angelis, fine letterato imprestato al genere poliziesco, rivela la sua natura più profonda, attribuendo al suo personaggio il suo amore per la poesia e la letteratura : il Commissario De Vincenzi è una figura anonima, che guarda con sguardo disincantato e anche alquanto atarassico allo svolgersi della vita: nasconde un profondo e cupo pessimismo, un decadentismo che potremmo definire dannunziano, quasi nichilista, nel vedere il mondo non a colori ma secondo varie nuances di grigio; e gli conferisce anche l’interesse per le idee e le tesi freudiane, “l’intuizione psicologica e l’osservazione dell’involontario da cui emerge l’indizio segreto”.

Qualcuno potrebbe storcere il naso: decadentismo dannunziano e filiazione simenoniana? Secondo me le due cose possono anche coesistere: in fondo il decadentismo dannunziano è figlio di un’epoca e al di là del modo di scrivere è espressione di un modo di vedere le cose più in bianco e nero che non a colori: la Milano di De Angelis non è tenebrosa quale poteva essere la Parigi di Balzac, ma nebbiosa e uggiosa, una Milano che attraverso il suo clima esprimeva anche la disaffezione politica del Nostro; nel tempo stesso Simenon è essenzialmente il trionfo del romanzo della borghesia, dell’umanità, e della realtà: si vuole affermare che i romanzi di De Angelis non siano borghesi, umani e realistici? Essi sono gli stessi in cui si muove il più noto Maigret: portinerie, bar, locali fumosi, le strade deserte di notte, le atmosfere caliginose delle città sonnecchianti; “appartamenti, circoli, alberghi, botteghe artigiane, mercati, fiere, ditte industriali, uffici, banche”. E i soggetti, pure simili: garzoni, impiegati, camerieri, facchini, dame, commercianti, gangsters, massaie, commesse, telefoniste, nullatenenti, ricconi annoiati. Del resto, ci pare che proprio a Maigret, De Angelis guardi, introducendo il suo commissario: infatti, come il Maigret che conosciamo in “Pietro il Lettone” : “..Il commissario Maigret..alzò la testa ed ebbe l’impressione che il brontolio della stufa di ghisa posta al centro dell’ufficio e collegata al soffitto da un grosso tubo nero, si stesse affievolendo… ( Georges Simenon, Pietr il Lettone, Le inchieste del commissario Maigret, RCS Corriere della Sera, Milano, 2009, pag.11), il commissario De Vincenzi, proprio in Il Banchiere assassinato entra in scena subito, sin dalla prima pagina e lo vediamo alle prese con una vecchia stufa : “..mise un legno nella stufa e aprì il tiraggio. Per fumare, fumava, quella stufa..” (Augusto De Angelis, Il banchiere assassinato, Sellerio editore, Palermo, 2009, pag.12). A me il paragone sembra voluto, quasi una citazione, tanto più perché entrambi sono presentati nel proprio ufficio, all’inizio del romanzo.

La morte tragica di De Angelis ci fornisce una traccia per poter a posteriori analizzare la sua opera: molto spesso si nota, anche nel consueto giro di luoghi comuni e di linguaggi acquisiti, una sua netta distanza dal regime fascista, molto pericolosa, tanto da farlo tenere sott’occhio dalla censura; e del resto, la creazione di un commissario per niente celebrativo del regime e così poco impegnato ad esaltarne le positive virtù italiche, così poco fisico, anzi tanto anonimo dal comparire nel suo primo romanzo naturalmente, come se fosse un amico già conosciuto, e non illustrandone per niente l’aspetto, ma solo virtù nascoste, l’amore per la letteratura (“Le serpent à plumes” di Lawrence; “Le Epistole” di San Paolo; l’ “Eros” di Platone), tanto da interrogarsi : “.. Perché mai aveva fatto il commissario di Pubblica Sicurezza, lui?” (Il banchiere assassinato, pag. 12), beh proprio questo sarebbe bastato a interrogarsi sulla sua identità fascista o meno. Tanto più che il fascismo rimase sempre estremamente sospettoso verso la cultura letteraria cosiddetta d’elite, e quindi il Giallo, anche se non era proprio il prodotto che ci si sarebbe aspettato di perorare, finiva per essere pur sempre un prodotto di massa.

Tuttavia, crediamo di poter dire che una sua politica letteraria più accorta, avrebbe potuto concorrere ad evitargli guai successivi: sarebbe bastato anche dare al suo così anonimo commissario un’ “aurea più fascista” : un personaggio più fisico, baldanzoso, bombastico, un detective più ruffiano anche.

Il suo non sentirsi intimamente fascista, che all’indomani del settembre del 1943 gli procurò l’accusa di antifascismo, l’internamento nel carcere di Como (pare per l’accusa rivoltagli da una donna) e poi la morte avvenuta a Bellagio nel 1944 dopo un violento pestaggio (pare che proprio la donna che l’aveva accusato, vedendolo molto deperito, si fosse scusata e che lui avesse liquidato le scuse di lei con sufficienza, “provocando la reazione” dell’accompagnatore di lei, un fascista, che lo massacrò di botte), si rende già manifesto ne  “Il Candeliere a sette fiamme”. Qui il delitto matura in uno squallido albergo, e nel milieu in cui ben presto il Commissario deve investigare si ritrovano i soliti elementi stranieri, una vera spy-story in cui elementi ebrei hanno un ruolo di primo piano nella neonata questione palestinese. Ma proprio nel tratteggiarli, De Angelis rinuncia in certo modo alla propaganda di regime e pur nei luoghi comuni (l’ebreo è un soggetto con dei rilievi fisici ben definiti) egli è dalla loro parte, prende le parti degli ebrei e ne fa degli eroi nel suo romanzo.

I romanzi di De Angelis, sono innanzitutto “d’atmosfera”, perché devono indicare gli ambienti di vita che sono alla base delle vicende delittuose. Sono anche ricchi di vita talora, di ritmo, ma il commissario vi partecipa quasi flemmaticamente: come un placido fiume che scorre sotto le arcate del ponte, il commissario è lì, che collega le varie intuizioni e i vari indizi, in attesa che gli baleni l’intuizione giusta: poi basta solo non perderla di vista e semmai collegarla al resto, per avere la meglio sull’evento delittuoso; egli è un fine poeta, ma diversamente dagli altri investigatori tipo Philo Vance non si da mai arie; pur essendolo non incarna la figura del commissario tutto d’un pezzo, come se la cosa non lo interessasse poi molto; è versato nelle arti, osserva, ma non fa risaltare mai la profonda conoscenza; è taciturno e come chiuso in una sua sfera di interiorità, e analizza la realtà con raro acume psicologico.

Nell’analisi mai meramente indiziaria, De Angelis rivela un aspetto che lo caratterizza peculiarmente: il suo commissario, dalla figura malinconica e sempre distaccata dai clamori del mondo in cui si muove, è un soggetto che fa della riflessione esistenziale, ed è perciò in certo senso in posizione critica rispetto a quanto lo attornia, senza ricalcare in alcun modo i modelli proposti da altri detectives di successo. De Angelis del resto lo manifestò in più d’una occasione : “..Mi sono proposto di fare romanzi polizieschi in cui le persone vivono secondo natura”.  Maigret ( come poi fa De Vincenzi ), sa ascoltare e guardare e scopre più verità con la psicologia di quanto non avvenga con le perizie balistiche” (G. Benelli, “La fortuna italiana di Georges Simenon”,in Critica e società di massa,Trieste, Lint, 1983, p. 306).

E lo stesso Commissario De Vincenti che in fondo è l’immagine incarnata dell’immaginario di De Angelis, muove le sue indagini partendo da caratteristiche che sono proprie del decadentismo romantico che egli incarna: con sensibilità romantica, intuizione e psicologia l’indagine poliziesca diventa per lui la “considerazione psicologica del clima del delitto e delle persone, che si muovono dentro e attorno al dramma”; e lui, che è un sensitivo, “..in fondo è un romantico a cui lo studio dell’anima umana, a ogni nuova esperienza, procura soltanto dolore. Qualcuno aveva detto di lui che, come il demonio cercava più le anime che i corpi… Un povero demonio, lui… E un tristo mestiere il suo: cercatore di anime”. Perché De Vincenti, per acchiappare il reo, deve entrare nella sua testa, ragionare come lui, diventare per un attimo egli stesso l’assassino, secondo un modo di fare che è tipico dei detectives d’oltreoceano.

Interessante è sottolineare che ancora, nonostante il tentativo di privilegiare l’indagine psicologica a scapito di quella indiziaria, e nonostante ancora egli dica, sempre nella sue “Confessioni e Meditazioni” : ..Da noi,  manca tutto, nella vita reale per poter congegnare un romanzo poliziesco del tipo americano o inglese. Mancano i detectives, mancano i policemen, mancano i gangsters, mancano persino gli ereditieri fragili e i vecchi potenti di denaro e di intrighi disposti a farsi uccidere.Non mancano, sebbene in scala ridotta, pur troppo i delitti. Non mancano le tragedie.Perché non considerare tali ineluttabili fenomeni della vita sociale come materia di vita umana, come materia di indagine artistica?, egli prenda tuttavia anche qualcos’altro dal giallo d’oltreoceano: lo testimonia la tendenza alla “spiegazione finale” tipica del Giallo Classico di tipo anglosassone, che in lui diventa, nel suo primo Giallo, “Il banchiere assassinato”, “la Conferenza di De Vincenzi”.

Altro carattere ancora che rileviamo in De Angelis è una tendenza già espressa da Simenon: in “..un elemento innovativo all’interno del genere poliziesco: l’analisi del carattere dei personaggi, l’attenzione prestata dall’autore alla loro psicologia e specialmente alle delicate espressioni e ai più misteriosi recessi dell’animo femminile, un oggetto narrativo trascurato o mortificato prima di Simenon” (Valentina Catania, Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco” in Italia nel primo trentennio del Novecento, APAV, 2006, pag.72). Lo si vede ne “Il mistero delle tre orchidee”: “..Sapeva che con una domanda improvvisa e inaspettata si può prendere di sorpresa un uomo; ma non si prende mai alla sprovvista una donna. Essa ha la menzogna facile, il diversivo pronto, la deviazione immediata (Augusto De Angelis, Il mistero delle tre orchidee, Sellerio, 2001, pag.38): vien quasi da chiedersi quale fosse il successo con le donne di De Angelis/De Vincenzi, velato secondo noi da una certa misoginia.

Pietro De Palma

(*) L’articolo originariamente fu pubblicato anni fa su EuroPolar

lunedì 7 dicembre 2020

Sabina Marchesi, Enrico Luceri : Chi ha spento la luce. Tre giorni per l'Ispettore Aida Colonnese. Bertoni Editore, 2020, pag 248

 


Avrei dovuto scrivere questa recensione da parecchio tempo, se avessi finito di leggere il romanzo prima. Ma ora una cosa ora l’altra, e anche per il fatto che era in digitale o lo leggevo dall’Ipad, è andato a finire che qualcosa è passata davanti.

Il romanzo in pdf mi era stato passato da Bertoni Editore, ai tempi dell’esplosione della pandemia: è stata una delle pochissime case editrici (per non dire l’unica), che abbia messo a disposizione dei lettori gratis un testo, a scelta del lettore si badi bene, non a scelta della casa editrice come ha fatto qualcun altro. E quindi era doveroso che ne parlassi.

“Chi ha spento la luce” è un romanzo scritto a quattro mani, da Sabina Marchesi ed Enrico Luceri. Il fatto che sia il frutto di un lavoro di due persone ha la sua importanza sul prodotto finito: ne parlerò dopo.

In sostanza il romanzo si apre con una sorta di introduzione, in cui uno psichiatra rilegge una lettera ricattatoria che gli è arrivata, che lo ricollega al suo passato: un passato difficile da dimostrare, indimostrabile perché falso, ma suscettibile comunque, in un tempo dominato dai Social, di procurargli strascichi devastanti dal punto di vista professionale. Del resto il ricattatore non chiede soldi, ma solo una cosa: che lui sottoponga l’arch. Gigliotti ad una seduta ipnotica, sulla base della quale egli risponda o meno di sue responsabilità per qualcosa accaduto nel passato.

Il giorno dopo la seduta si svolge e dopo la seduta, dopo che Gigliotti e la segretaria dello psichiatra sono andati via, il ricattatore si fa vivo con lo psichiatra e lo costringe a rivelargli quello che Gigliotti ha detto durante la seduta. Poi, lo uccide, cancella le tracce della sua presenza e spegne la luce.

L’Ispettrice Ada Colonnese e il Commissario Gagliardo sono stati chiamati per un suicidio. Guarda caso proprio Gigliotti si è suicidato, bevendo un micidiale cocktail di alcool e barbiturici. Che fosse in stato maniaco depressivo, si sapeva già, e quindi non fa notizia che si sia ucciso. Piuttosto certe cose strane si insinuano nel cervello della Colonnese: le note strane sono la posizione innaturale sul divano, il fatto che non avesse lasciato nessun biglietto di addio come fanno i suicidi, e il fatto soprattutto che il giorno dopo avrebbe dovuto avere un incontro con la ex moglie per la vendita di un immobile comune. Particolari strani che fanno dubitare del suicidio.

L’ispettrice Colonnese passa al setaccio tutti gli inquilini del palazzo : c’è il vecchio tirchio Rocchi che vive assieme al figlio, c’è l’Ammirati coppia sposata con bambina, c’è la Sig.ra Modesti, che vive da sola, dopo la morte del compagno, assieme ad un gatto; c’è la sig.ra Silvestri che vive assieme alla domestica Mariella, che a sua volta amoreggia col figlio di Rocchi; poi c’era Gigliotti, e all’attico tempo prima c’era stata Marika Leonardi, una ragazza piena di vita che si era innamorata di Gigliotti e siccome lui si era rifiutata di sposarla, un giorno si era buttata dall’attico. Anche in quel caso nessun biglietto di addio.

Insomma due suicidi nello stesso palazzo. Per di più due persone che erano state amanti.

Il primo suicidio..transeat. Ma il secondo.. proprio non va giù a Colonnese. E non le va giù ancor di più quando si viene a sapere di un terzo suicidio, quello dello psichiatra, il dott. Tancredi. Presso il quale Gigliotti era stato nel pomeriggio precedente alla morte. Tre persone collegate tra loro, tre suicidi perfetti, niente che potesse spiegarne la morte, tranne una lettera trovata nello studio dello psichiatra, accanto al corpo, di una ragazza che anni prima lo aveva accusato di averla stuprata durante una seduta psichiatrica: Ma perché mai, dopo tanti anni, proprio la sera che si uccide Gigliotti, si sarebbe dovuto uccidere per qualcosa che era avvenuto (sempre che fosse avvenuto) MOLTI ANNI PRIMA?

Tre suicidi sono troppi, per di più collegati tra loro. Nonostante non si trovi neanche nello studio dello psichiatra una sola prova o una sola impronta che faccia pensare ad un’altra presenza con lui prima che si uccidesse. Solo il pc c’è ma in cui non si trova nessun file che faccia cenno alla seduta ipnotica del pomeriggio, un tipo di prestazione a cui lo psichiatra non ricorreva mai se non in casi estremi e Gigliotti per lui non lo era un caso estremo. E allora, perché quella seduta ipnotica? Troppi se e troppi ma.

Colonnese e Gagliardo indagano, e più indagano, più trovano indizi che sembrano orientarli verso quel caseggiato di Roma. E verso la possibilità, sempre meno possibile e sempre più certa che si sia trattato di un duplice omicidio: chi ha spento la luce? Per quale motivo un suicida dovrebbe spegnere la luce prima di uccidersi? Se la segretaria avesse trovato la luce accesa dopo essere uscita, aveva detto al dottore che sarebbe salita per finire un lavoro. L’aveva detto sul pianerottolo prima di andare via, un pianerottolo, detto per inciso, buio per metà, e ancora ricordava che aveva avuto l’impressione che lì al buio, ci fosse qualcuno che li stava osservando: Ma perché qualcuno avrebbe spento la luce dopo aver ucciso il dottore? Colonnese è sicura che sia questo l’indizio lasciato dall’assassino: un suicida non si uccide al buio, e spegnere la luce avrebbe significato impedire alla segretaria di salire e scoprire la morte, e quindi poter uccidere Gigliotti secondo un piano già premeditato.

Indagando nel passato del dottore, si indaga ovviamente sull’unica cosa lasciata nello studio: la dichiarazione della paziente. E si scopre che era stata ricoverata anni prima a Villa Rapidi, e che una infermiera aveva con lei intrattenuto dei rapporti di vicinanza e l’aveva anche visitata altre volte, prima che morisse. E’ quell’infermiera l’assassina? Si sarebbe fatta rilasciare magari lei, una dichiarazione dalla ragazza che compromettesse lo psichiatra per indurlo a sottoporre Gigliotti a seduta, e poi una volta ottenuta la prova nel coinvolgimento di Gigliotti nella morte di Leonardi, avrebbe ucciso lo psichiatra divenuto scomodo?

Secondo proprie congetture, Ada Colonnese si convince che tutto ruota attorno al caseggiato. E si convince maggiormente quando viene a sapere che la serva della sig.ra Silvestri, Mariella, stende il bucato sul terrazzo del palazzo eche stava stendendo quando proprio la Leonardi si buttò giù. E’ possibile che abbia visto qualcosa? La ragazza nega, però facendo capire di saper qualcosa. A che pro? Un ricatto? Sappiamo tutti come un assassino che abbia ucciso due volte, non si faccia pregare ad uccidere una terza volta se ricattato. Ed infatti così accade alla ragazza, che viene soffocata con una tovaglia. Tre omicidi? No, quattro. Ma compiuti da due persone distinte. E chi uccise Gigliotti non era chi aveva ucciso la Leonardi. Cosa si era ricordata di aver visto la ragazza? Un braccio ritrarsi dopo che la ragazza era caduta dalla finestra, e qualcuno che aveva visto scendere di soppiatto dal pianerottolo di casa Gigliotti.

Colonnese riuscirà a collegare gli eventi ed arrestare l’assassina, dopo che un gatto l’avrà denunciata, andando a trovare una bambina che mai avrebbe potuto visitare se…

Bel romanzo di Luceri & Marchesi, che tradisce tuttavia il fatto di essere un prodotto costruito da due persone diverse. Perché dico questo? Conoscendo Enrico e avendo letto alcuni suoi romanzi, so come procede: i suoi romanzi sono diretti, taglienti; le descrizioni sono efficaci ma non ridondanti e il ritmo è veloce (non velocissiimo). Qui invece assistiamo ad una trama che si avvale di una caratterizzazione estremamente studiata: il ritmo è più lento dei romanzi scritti solo da Enrico, le descrizioni più accurate (quasi barocche). Per cui ho chiesto a lui direttamente chi avesse materialmente scritto il romanzo, e la sua risposta mi ha confermato la diversità con gli altri romanzi, e la mano femminile nella caratterizzazione delle scene.

In questo romanzo la caratteristica principale è una serie di tre suicidi perfetti, che poi diventano tre omicidi perfetti. Tre omicidi che solo apparentemente sono riconducibili alla medesima mano, ma che invece tradiscono due mani differenti. Difficile è capire, e bisogna arrivare alla fine del romanzo, per risolvere che la Leonardi è stata uccisa da qualcuno, che non è chi uccide Gigliotti e Tancredi. Per quale motivo essi vengono uccisi? La risposta è in qualcuno che abita nel caseggiato.

Non ripeto quello che dissi in Le notti della luna rossa, sulle note già presenti in tanti altri gialli classici riguardanti omicidi in pensionati o palazzi. Qui osservo solo una cosa: che rispetto al passato, i delitti in un palazzo, si sono caricati di maggior note di mistero. Prima infatti, in un palazzo tutti si conoscevano, le case degli uni erano in sostanza cade di altri, ci si aiutava; ora siamo diventati molto più chiusi, ognuno è chiuso nella propria individualità che non condivide facilmente con altri, salvo aprirsi nelle realtà virtuali dei social, che proprio perché virtuali, tradiscono la nostra solitudine esistenziale. E quindi, cosa accade in un appartamento è proprio solo di chi vive, non è condiviso con altri; e per questo è ancora più difficile penetrare nei recessi e renderli manifesti. In questo romanzo, la verità rivelata viene affidata con un colpo di scena, ad un testimonio muto: un gatto, che non può parlare, ma che inguaia con la sua presenza inopportuna a casa di chi non dovrebbe stare, una persona che aveva testimoniato di esser stata sempre a casa propria col suo gatto, ed invece..

Mariella l’aveva vista scendere, e solo dopo collega questo fatto con la morte di Leonardi. Ora evidentemente lei capisce quello che altri non avevano compreso e che Ada capisce alla fine: un collegamento parentale con la falsa suicida. Che non ha ucciso, si badi bene. E allora, il ricatto?

Beh, a parer mio questo è il punto debole della ricostruzione, che si può capire solo facendo un certo ragionamento, e non è facile: Mariella ricatta l’omicida non per l’omicidio di Mirka, che è quello che innesta tutta la spirale, ma per quello di Gigliotti. Ma Mariella ha visto ritrarre un braccio e non è quello dell’assassino di Gigliotti. Quindi Mariella può solo ricattarla per il fatto che l’abbia vista scendere, la sera dell’omicidio di Gigliotti. Ma chiunque avrebbe potuto dire che Gigliotti non aveva aperto. Se questa scusa non si sostanzia è perché Mariella sa chi è l’assassino in confronto a Mirka Leonardi. E allora, se lo sa lei, perché anche Gigliotti non avrebbe potuto saperlo? Perché l’assassina lo uccide sulla base di quello che Gigliotti andava dicendo, che non era vero. Se Gigliotti avesse capito l’identità dell’omicida, non le avrebbe mai aperto la porta. E allora come mai lo sa solo Mariella? Questo è il punto non risolto. Un altro punto riguarda la morte di Tancredi. Perché se fosse una vendetta, una pura e semplice vendetta, nata da un processo logico, Tancredi non sarebbe dovuto morire. Se muore, ed è in pratica una vittima innocente, l’assassina non è piu’ qualcuno che ha solo sofferto e per questo può essere scusato (e nel finale i due poliziotti vorrebbero non aver capito chi fosse l’assassina) ma è un’ assassina e basta, che non può essere vista sotto un aspetto pietoso. Semmai, pietoso è il commento che chi ha ucciso è stato talmente folle nei suoi propositi da considerare la morte di un innocente un ingranaggio necessario per la riuscita dell’intero piano omicida.

Ecco allora che si riaffaccia il tema della follia, ed il tema del dolore, che non abbandonano mai i romanzi di Luceri.

Moltissimi i riferimenti e i rimandi a films e romanzi, com’è consuetudine in Luceri (perché la trama è sua, e la scrittura è della Marchesi): da Agatha Christie (presenti e citati all’inizio delle parti del romanzo) scrittrice amatissima dallo scrittore romano, a films di Dario Argento, a sceneggiati televisivi, che il lettore smaliziato saprà riconoscere. L'idea del gatto è sua: del resto i gatti son amati dai romani, ed Enrico è "romano de' Roma". Per di più, essendo per lui amatissima Agatha Christie, il gatto che provoca la soluzione, mi fa venire in mente il gatto che origina la soluzione di A Murder is Announced, facendo cadere il bicchiere sul filo elettrico scoperto e quindi facendo saltare i fusibili. La citazione mi sembra del resto possibilissima.

Da leggere.

Pietro De Palma