sabato 28 ottobre 2017

Rex Stout – Alta cucina (Too Many Cooks, 1938) – trad. Gianni Montanari – I Classici del Giallo Mondadori N. 659 del 1992

Rex Stout è stato uno dei grandi romanzieri americani del ‘900, che oggi vive una specie di letargo, almeno in Mondadori. Motivi? Non so, probabilmente è che oggi, almeno in Italia, stiamo rivivendo una renaissance del Mystery e Stout non appare un grande esponente di quel genere, e non certo da porre sullo stesso piano di Carr. Però ha molti caratteri interessanti che vale la pena inquadrare.
Indubbiamente, uno di quelli che ha contribuito in certo senso a creargli una patina ambigua, è stato il giudizio di qualche critico, secondo cui Stout sarebbe una via di mezzo tra il Mystery e l’Hard-Boiled americano, una specie di Craig Rice o Jonathan Latimer, non essendo né l’uno né l’altro: Stout non ha mai dei plot entusiasmanti, come siamo portati a trovarne in Van Dine o in Queen o in Carr che pure sono americani seppure con sfumature diverse, tranne in qualche romanzo dei primi, fino all’inizio degli anni ’40, ma pure così i plot non sono mai capaci di catturare l’interesse. E nello stesso tempo, se fosse un Hard-Boiled ci dovrebbe essere violenza, e in Stout non ce n’è. Eppure, Stout piace. Perché? Perchè secondo me ha delle nuances che lo avvicinano ad alcuni grandi esponenti del Giallo Americano degli anni ’30, pur mantenendo una propria indipendenza stilistica. In particolare, il carattere che più si mette in risalto quando si parla di Stout è la sua vena vandiniana originale, o almeno la sua tendenza ad imitare qualcuna delle caratteristiche peculiari di Van Dine. Quali?
Stout inventa il suo personaggio principale, Nero Wolfe (Wolfe è chiaramente riferito a Wolf= Lupo, che è animale pericoloso ma solitario, che rifiuta l’uomo, così come Wolfe, esce raramente da casa sua, vivendo in una sorta di ghetto dorato e volontario) guardando chiaramente a Philo Vance: in questo, non poteva certamente non tenerne conto, visto che il suo primo tentativo in tal senso è Fer-de-Lance,“La traccia del serpente”, che è del 1934, tempo in cui ancora furoreggiava Van Dine. Abbiamo assistito anche noi qualche anno fa alla tendenza di imitare lo stile di qualcuno in Italia per avere successo: ne parlavo con Stefano Di Marino in un Blog, non mi ricordo quale, forse anche quello Mondadori, ma non ricordo bene, a proposito del fatto che anni fa c’era parecchia gente che per avere successo imitava il suo stile, creando cloni per esempio di Montecristo. Lui ha riconosciuto, che a mente fredda, questo accumulo di materiale eterogeneo ha finito per danneggiarlo, anche se lui, nella spinta dell’euforia, quando era e si sentiva un leader carismatico, ne difendeva la portata. Ecco questo è quanto accadde anche a Van Dine: ci fu parecchia gente che, spinta dalla necessità di farsi conoscere, cercò di emularne lo stile, creando una serie di cloni di Philo Vance, non sempre con risultati pari alle aspettative. Un esempio? Per esempio il protagonista di The Death in the Dark di Stacey Bishop (George Antheil) che è chiaramente un clone di Vance, ed anche il romanzo, tradotto in Italia come La morte nel buio (e recensito in questo Blog anni fa) ne ricorda uno in particolare: Antheil sperava di avere più successo di quanto ne ebbe, se è vero che questo piccolo capolavoro è rimasto sotterrato nelle pieghe del tempo per così tanto tempo.
Stout fu uno di questi autori à la mode, come il primo Queen, Charles Daly King, Rufus Gillmore, Anthony Abbot, la Tillett, Clason. Tuttavia, se in questi autori le caratteristiche dei personaggi principali, almeno nei primi romanzi sono esasperatamente accostabili a quelle di Philo Vance (come non pensare al De Puyster, personaggio dei primi racconti di Rufus King, così vicino a Philo Vance, anche nel tempo di apparizione da far pensare che proprio Vance sia derivato da esso?), in Stout sono più velate: è questo il dato più interessante: è come se fossimo costretti ad una caccia al tesoro nei suoi romanzi, alla ricerca di queste somiglianze, come se il lettore fosse egli stesso il detective, in una indagine che è parallela a quella principale ed ovvia in un poliziesco, ma nascosta.
Uno dei romanzi più interessanti della prima produzione stoutiana è il romanzo che mi accingo qui ad analizzare: “Alta cucina” (Too Many Cooks, 1938).
La trama è quantomeno singolare: Nero Wolfe viene invitato, come esperto indipendente, a tenere una relazione nel corso della riunione de Les Quinze Maitres, che si svolge ogni cinque anni, e che vede appunto la partecipazione dei quindici migliori chef al mondo, tutti riuniti questa volta presso la struttura dell’Hotel delle Terme Kanawha.
Mentre vi giunge in treno (e già questo è una prova terribile per Wolfe che è abituato a vivere da solo, nel suo splendido appartamento, tra la cura delle orchidee, e le portate sopraffine del suo cuoco di fiducia, soprattutto in virtù della sua considerevole mole fisica), Wolfe, che è amico di Marko Vuksic, uno dei quindici chef, viene presentato a Jerome Berin, il famoso chef inventore di uno dei piatti più mitici, Le Salsicce Mezzanotte,  la cui contraffazione è stata sempre estremamente ardua, nonostante la semplicità degli ingredienti: Nero Wolfe tenta in tutti i modi di convincerlo, di adularlo, di tentarlo, al fine di ottenerne la ricetta per poterla gustare lui solo, nel suo eremitaggio, non facendosela nemmeno preparare dal suo cuoco, per non divulgarla. Ma non ci riesce. Tuttavia in questo primo colloquio Wolfe capta che c’è più di uno, tra i partecipanti a quella singolare riunione, a nutrire sentimenti non certo di fraternità cristiana nei confronti di John Lazlo, chef dell’Hotel Churchill di Londra, a causa della condotta avventurosa di questi che non ha mai rinunciato a fare dello spionaggio nei confronti dei suoi colleghi al fine di carpirne le ricette migliori o a rubare i loro assistenti più promettenti. Così Lazlo non si è fatto certamente degli amici. Non ha nemmeno eccellenti rapporti col suocero, lo chef italiano Dino Rossi, la cui figlia ha rubato al primo marito, Vuksic, amico di Wolfe.
Alla riunione, si scatenano le vene creative de I Quindici che cominciano a ingurgitare, tracannare e apprezzare le tante proposte culinarie: gli anatroccoli, le ostriche, le tartarughe di acqua dolce, e chi più ne ha più ne metta. Il fattaccio si verifica quando affrontano i piccioni: Les Quinze Maitres secondo un ordine prefissato, dovranno tagliare i piccioni e gustarli accompagnandoli alla Salsa Primavera, una creazione di Lazlo, cercando di riconoscerne tutti gli ingredienti, ognuno in separata sede dagli altri, nella Stanza da pranzo dell’Hotel. Tutto va bene finchè si arriva a Berin e Vuksic. Infatti, tra l’entrata del primo e quella del secondo, Lazlo scompare dalla Sala da Pranzo: quando entra Berin c’è ancora, quando invece è la volta di Vuksic, egli non lo vede, ma non ne avverte la mancanza, visti i pessimi rapporti comuni; qualche minuto dopo, tuttavia, è Nero Wolfe, ammesso anche lui alla prova, a scoprirne il cadavere, dietro un paravento, già bello stecchito come una salsiccia, ucciso con una coltellata nel fianco, inferta con uno dei due coltelli usarti per tagliare i piccioni.
Il Sostituto Procuratore Distrettuale Tolman, alla prima esperienza, non vuole sbagliare, perché, lo capisce subito, sarebbe controindicativo sbagliare e fregarsi la carriera futura: pertanto cerca di blandire Nero Wolfe, anche tramite lo sceriffo, a dare una mano, ma non ricevendo inizialmente alcun aiuto. Nero, pur protestando la sua innocenza, riconosciuta anche in virtù della fama raggiunta con la risoluzione di casi precedenti, e della considerazione generale, non si sente minimamente coinvolto nel caso, e anzi vuole andare via il più presto possibile per ritornare nella pace del suo appartamento dopo aver tenuto la sua relazione a difesa della gastronomia americana troppo bistrattata da altre più rinomate in sede internazionale. Tuttavia avverrà qualcosa che ne farà mutare la condotta.
Infatti, basandosi sull’odio reciproco, e quindi sulla esistenza di un movente, pur non avendo prove incontrovertibili, dovendo pure arrestare qualcuno, il Sostituto Procuratore fà trarre in arresto Berin. Per Nero, chiamato in causa dalla di lui figlia, Costanza, sarebbe il modo di trarne beneficio, facendosi rivelare la ricetta delle Salsicce. Così si mette alla caccia dell’assassino, cercando innanzitutto le prove dell’innocenza di Jerome, e cercando ricostruire la dinamica dell’assassinio.
Inoltre, mentre Wolfe ricostruisce la vicenda, l’assassino fuggito senza che la polizia avesse minimamente fatto il benchè minimo tentativo di cercare dia cciuffarlo lì per lì, pur avvisata tempestivamente da Wolfe e dal suo assitente Archie Gooldwin, non sapendo che Wolfe ha rifiutato di aiutare Sceriffo e Giudice nel ricostruire la verità, temendo che riesca a individuarlo, tenta di ucciderlo, sparandogli dalla finestra, a distanza ravvicinata, protetto dal buio della notte, ma Archie, col suo sesto senso, avvertendo una presenza vicina, riesce a deviare la traiettoria del proiettile lanciando davanti alla finestra, prima che che il colpo parta, una frazione prima, il blocco degli appunti nei quali è scritta la relazione di Wolfe da tenersi davanti a Les Quinze, in realtà dieci, perché due non sono venuti e tre..sono defunti prima che si arrivasse alla riunione.
Ben presto Wolfe mette in relazione l’assassinio con il rumore della radio, alla cui musica diffusa, Vuksic ha esitato ad entrare nella sala dove avrebbe dovuto sottoporsi alla prova, tentato dalla sua ex-moglie; ricostruisce i movimenti delle singole persone che tutte quante negano di essersi avvicinate alla Sala da Pranzo, ed invece beccandone una, Leo, moglie di Lawrence Coyne, un altro dei Quinze, che afferma di essersi ferita un dito nella mano chiudendo una porta invece di un’altra e venendo smascherata dalle rivelazioni del personale dell’albergo. Essa è stata la testimone di una scenetta, che Nero mette in direzione diretta con l’omicidio: un dipendente di colore, con la livrea dell’albergo, vicino al paravento dove è stato trovato il cadavere di Lazlo, avrebbe fatto il gesto di imporre il silenzio, mettendosi un dito sulle labbra, rivolto ad altro personaggio di pelle nera dell’albergo. Tutto ciò costringe Nero a vagliare la posizione dei vari dipendenti del personale dell’albergo in servizione quella sera, finchè trova che uno dei tanti, studente alla Harvard University, che si paga gli studi lavorando, è quello che è stato diretto testimone della scena. Tuttavia egli rivela a Wolfe un fatto che sconvolge interamente il quadro probante: il personaggio che egli ha visto non era nero di pelle, ma era travestito in modo da far pensare che fosse di quel tipo di carnagione: “è un bianco”, afferma…. Si è tinto la faccia col nero dei turaccioli bruciati, e indossava dei guanti aderenti di colore nero: egli tuttavia ha pensato che si trattasse di uno scherzo tra i partecipanti della festa e quindi ha taciuto il fatto. Un altro dei dipendenti poi, chiamato a sua volta in causa, rivela che andando ad investigare perché il collega, inviato in Sala da Pranzo a prendere la paprika, ritardasse così tanto, aveva anche lui visto qualcuno, abbigliato come descritto da…, andare via uscendo dalla porta finestra della Sala da Pranzo. Questa ulteriore rivelazione sconvolge i piani accusatori del Procuratore perché sembra prendere in esame l’intervento di una persona che potrebbe essere venuta anche dall’esterno e quindi non rientrare più tra le persone presenti lì in Hotel: un sicario inviato ad uccidere Lazlo. Ma per quale ragione? E davvero si è trattato di un sicario, oppure è qualcuno che ha finto di esserlo e si è travestito per ingannare tutti?
Ed è da mettere in relazione col tutto il tentativo di Lazlo, prima di essere ucciso, di imbrogliare la prova, cambiando l’ordine dei piatti da esaminare dalle persone ammesse alla prova? Può aver influito sulla dinamica dell’omicidio? Infatti ciascuno degli Chef avrebbe dovuto individuare gli ingredienti della salsa inventata da Lazlo, sulla base tuttavia di un altro aggiunto di proposito da lui che variava nell’ordine della partecipazione: a ciascun piatto, indicato da un numero, era assegnata una determinata salsa variata. Lazlo aveva cercato di imbrogliare fino alla fine, imbrogliando l’ordine delle salse, in modo da rendere ancora più ardua la prova: gli Chef, almeno i due che si scopre erano poi stati gli unici ad essere stati sfavoriti maggiormente, cioè Vuksic e Berin, avevano dovuto riconoscere nella salsa un ingrediente che in realtà nella loro non c’era perché appartenente all’altro.
Wolfe, troverà ancora molti indizi prima di capire chi abbia ucciso Lazlo e perché?
Capolavoro riconosciuto, Too Many Cooks ha avuto un cammino subito in discesa, merito dell’idea della prova e dei soggetti chiamati in causa: fino a quel momento un cuoco non era mai stato chiamato in causa in un omicidio. Non tragga tuttavia in inganno la scelta: è perfettamente in linea con l’ascendenza vandiniana di questo primo Stout anche se tuttavia..singolare. Infatti, il carattere più evidente della “nidiata vandiniana” è che per la prima volta, in maniera decisa, si fissa la peculiarità che il delitto di un certo tipo, premeditato ancor meglio, frutto di una mende diabolica ma straordinariamente intelligente, non può che essere il prodotto di una classe socio-economica elevata. E del resto, tutti i delitti che avvengono nei romanzi di Daly King, Ellery Queen, Abbot, Stout e naturalmente, Van Dine, sono il prodotto di una classe emergente: l’Alta Borghesia, tipica del mondo finanziario e del mito del Self Made Man tipicamente americano. E tutti questi Quinze Maitres, non sono semplici cuochi, ma Maestri di fama internazionale, che guadagnano somme astronomiche. Inoltre è presente anche un altro carattere vandiniano, riconoscibilissimo: il detective  ha una grande cultura personale.
Mentre Philo Vance era esperto di arti, soprattutto figurative, Nero Wolfe è esperto di arte…culinaria. E in questo Rex Stout stesso si manifesta molto vicino a Van Dine : infatti, mentre Van Dine stesso, grande esperto e critico d’arte statunitense, immise nel suo personaggio le sue aspirazioni e le sue conoscenze, così Nero Wolfe è lo specchio di Rex Stout, grande esperto, gourmet e gastronomo della cucina americana. Questo lo si apprezza nelle pagine riservate alle indicazioni contenute nel discorso che Nero Wolfe dovrebbe tenere, in cui peraltro viene fatto sfoggio in talune occasioni anche della lingua francese.
La cosa singolare è un carattere singolare che lo identifica non proprio come un seguace pedissequo del “verbo vandiniano”, ma come invece un romanziere che cerca una propria strada: in contrapposizione con “le venti regole da osservare nella scrittura di un romanzo poliziesco” elaborate da Van Dine e con le dieci derivate, di Knox, Stout affaccia per la prima volta un’alternativa sua personale: al divieto di far identificare l’assassino in un personaggio estraneo al numero dei sospettati, egli inserisce la possibilità che l’assassino possa essere venuto dal di fuori e quindi che non fosse uno dei presenti. Tuttavia anche questa sua alternativa deve essere vista nell’ambito del quadro temporale in cui viene elaborata.
Nel 1938, Van Dine non è più l’elemento caratterizzante della scena culturale letteraria statunitense, anzi vive un momento di reflusso (morirà a distanza di un anno) e già non ha prodotto più romanzi di grande impatto, riconosciuti dalla critica, e originali, a partire da Signori, il gioco è fatto!, ultimo romanzo originale, pervaso di grande penetrazione psicologica, che è stato scritto nel 1934. Nel momento in cui scrive Too Many Cooks, la scena americana è riservata ad altri autori, tra cui Stout stesso, tipo Daly King, Ellery Queen, Jonathan Latimer, Dashiel Hammett, John Dickson Carr, diversi nella propria proposta narrativa, ma tutti di primo piano. Stout quindi, che è riuscito già a ritagliarsi una nicchia di lettori, può tentare una via nuova e cercare di allontanarsi sensibilmente dal modello originale, cosa che peraltro è già avvenuta in Ellery Queen con un romanzo già diverso come “La porta chiusa” e due altri “nuovi”come “Hollywood in subbuglio” e “Il Quattro di cuori”, entrambi del 1938, testimoni di nuovo modo di proporre l’indagine e i rapporti del protagonista con la società circostante.
Ma il carattere di portata eccezionale, per cui Stout si manifesta scrittore al di là del poliziesco tout court, che egli inserisce in questo suo romanzo, è la presa di posizione contro il razzismo, una delle prime voci contro l’apartheid, da parte di una classe emergente di scrittori, che non solo fa divertire il proprio pubblico ma lo fà anche pensare, portando avanti, nelle pagine di un libro, una proposta politica assolutamente rivoluzionaria per l’epoca. La cosa è tanto più intenzionale in quanto la sede della trama, le Terme Kanawha, è posta in West Virginia, uno degli Stati del Sud, in cui era ancora presente in quel tempo una cultura pervasa di gretta difesa dei propri ideali e di razzismo più che palese, ben prima che il John Ball dell’Ispettore Tibbs apparisse sulla scena internazionale. La cosa è tanto più interessante quando si analizzi la figura di Stout, esponente della sinistra progressista, tanto impegnato politicamente e ideologicamente da essere stato inquisito più volte durante “la caccia alle streghe” intrapresa dal senatore McCarth, dal direttore dell’FBI Hoover, portatore di una ideologia che è anche culturale, propria degli stati industriali del nord, contrapposta a quella a difesa dei diritti dei bianchi degli stati del sud, ideologia che egli trasferisce come un suo alter ego nel suo Nero Wolfe. Nei capitoli 10 e 11 Nero Wolfe riesce, con la dolcezza, a ottenere delle informazioni proprio da quei dipendenti  (si noti come il personale dell’albergo si componga solo di lavoratori di colore) che, prima, bruscamente interrogati dallo sceriffo (esponente della cultura “bianca” imperante che impone a questa classe di individui solo lavori manuali rifiutati dalla società dei bianchi e non tollera e sottovaluta lo sforzo di alcuni di loro di elevarsi socialmente e culturalmente), non avevano detto di ciò nulla. E nel tempo stesso li difende dalla giustizia, ottenendo che essi non vengano inquisiti e neanche costretti a rimanere in città fino al processo (Nero Wolfe prende le difese dello studente-lavoratore Paul Whipple), contro la pretesa dello sceriffo Pettigrew di incriminarli per reticenza quando non costringerli a rimanere in città, per poi perseguitarli in un secondo tempo; tra i due si interpone la figura del procuratore, il quale, pur esponente dell’Alta Borghesia degli Stati del Sud, è pur sempre un individuo che deve fare di necessità virtù, e che quindi, per avere da Nero Wolfe le prove che una certa persona sia l’assassino, che egli sia stato aiutato da altra persona, che abbia agito con lui allo scopo premeditato di uccidere Lazlo, riconoscendo allo stesso tempo che Berin non possa essere stato l’uccisore, non esita ad accettare le 4 condizioni impostegli dal detective, imprescindibili per avere ragione in aula e riportare un successo personale. E’ una figura tutto sommato positiva: imbranato, goffo, impacciato, innamorato della figlia di Berin, che pure lui ha arrestato, non sa darsi pace, ancora quando il colpevole ed il complice sono stati arrestati, del livore che Costanza Berin gli palesa, e per questo il buon Archie, gran tombeur de femmes, lo aiuterà, nel finale del libro, rovesciando addosso a Costanza il suo drink a mettendo Tolman nella condizione di asciugarle il vestito, e quindi di ristabilire tra i due l’idillio amoroso che l’arresto del padre di lei aveva interrotto.
Sempre nell’alveo della presa di posizione di Wolfe a favore dei lavoratori di colore, noto un altro carattere interessante: non c’è solo la contrapposizione tra bianchi e neri, tra Pettigrew e Whipple per esempio, o Moulton, altro lavoratore di colore e capo dei camerieri, ma anche tra bianchi (Wolfe, e Pettigrew e Tolman): si osservi come Stout ridicolizzi lo sceriffo, descrivendone la strabicità, ed invece descriva positivamente Whipple; ma c’è anche  il diverso atteggiamento dinanzi a Wolfe dei dipendenti di colore, una contrapposizione che è non solo sociale, ma culturale ed ideologica: Moulton è espressione della maggioranza nera che ha accettato di servire e che rimprovera a Whipple la sua audacia verbale e il suo orgoglio personale, mentre Whipple invece rappresenta la nuova generazione “nera” che cerca un affrancamento anche culturale: Gli occhi di Wolfe si spostarono oltre: – Signor Whipple, vi conosco, naturalmente. Siete un cameriere abile e attento, a cena siete riuscito ad anticipare i miei desideri. Sembrate giovane per aver acquisito tanta competenza. Quanti anni avete? Il giovanotto con il naso schiacciato fisso Wolfe dritto negli occhi e disse: – Ventuno. Moulton, il capo cameriere, gli lanciò una occhiataccia e borbottò: – Devi dire “signore”. – Poi si rivolse a Wolfe: – Paul studia all’università. – Capisco. E in quale ateneo, signor Whipple? All’Howard University. Signore. (si noti come il “Signore”, posto da solo, ne accentui la forza dirompente e anche una forma di forzato rispetto, prontamente riconosciuto da Wolfe). Wolfeagitò un dito. – Se il Signore non vi va a genio, fatene pure a meno. La coprtesia forzata è peggio della scortesia. Frequentate l’università per farvi una cultura? – Mi interessa l’antropologia. – Davvero. Ho conosciuto Franz Boas, e possiedo tutti i suoi libri con dedica autografa…Vi rammento che Lawrence Dunbar una volta ha detto: “ la cosa migliore che un opossum sia in grado di fare è riempire una pancia vuota”. Il giovanotto lo guardò sbalordito. – Conoscete Dunbar ? – Certo, non sono un barbaro. (pagg. 134-135).
Il dialogo esemplifica come Wolfe, facendo leva proprio su una umanità che è anche psicologia applicata, riesca ad entrare nella guardia alzata di Whipple e a farla abbassare, parlando non da suo superiore ma da persona che possieda una tale cultura, l’unica cosa che Whipple riconosce come mezzo per affrancarsi dalla situazione di schiavitù anche sociale, ottenendo l’ammirazione del giovane. Osservo infine come la stessa presa di posizione di Stout contro il razzismo (figlio di quaccheri dell’Indiana e quindi espressione della cultura del Nord) sia espressione ideologica di un progressismo liberale che si tinge talora di socialismo, e che si distingue chiaramente da quella di Van Dine, pur espressione della intelleghentja new yorkese, ma pur sempre di destra, esaltatore del mito nietzschiano del super-uomo, di cui Philo Vance è fedele espressione, e che mai aveva espresso sentimenti radicali di sovversione sociale se non rispetto culturale, umano e sociale di un’altra classe, ancora ritenuta, settant’anni dalla fine della Guerra di Secessione, una “classe inferiore”.
Un altro carattere che si evince dalla lettura, e qui termino, è l’atmosfera tutta particolare, che si respira, e che è affidata alle descrizioni veramente maniacali sia degli ambienti che delle portate culinarie, di cui è espressione il linguaggio pregnante di Stout, che si esplica in un’affabulazione senza limiti, piena di riferimenti dotti ed espressioni caratterizzanti, di cui è espressione la traduzione sontuosa di Gianni Montanari. Proprio a questo riguardo, osservo come questo sia uno dei pochi casi di ritraduzioni dello stesso testo che riconosco come necessari per operare una rivalutazione dello stesso, la cui forza già emergeva nella traduzione sforbiciata di Alfredo Pitta, ma che solo quella integrale di Montanari riesce a far mergere compiutamente.

Pietro De Palma

Rex Stout : La scatola rossa (The Red Box, 1937) – trad.Nicoletta Lamberti – I Classici del G.M. n.573 del 1989

The Red Box, “La scatola rossa”, è il quarto romanzo di Rex Stout. Risale al 1937, l’epoca d’oro dei romanzi con Nero Wolfe. E’ un classico whodunnit, con una spiccata propensione tuttavia al giallo psicologico.
Lleweyn Frost, giovane commediografo, affida a Nero Wolfe il mandato per scoprire chi abbia ucciso una settimana prima, presso l’atelier del noto stilista Boyden McNair, la modella Molly Lauck, morta dopo aver assaggiato un confetto alla mandorla, farcito di cianuro, mentre stava svagandosi assieme a due sue colleghe, tra cui Helen Frost, cugina di Lew, dopo una sfilata.
Per poter visionare gli ambienti teatro della morte e interrogare i presenti, Nero Wolfe è costretto materialmente a muoversi dalla sua casa-serra, e già questo lo manda in bestia; la sua alta soglia di irritazione si arroventa quando proprio coloro che gli dovrebbero dare una mano a scoprire le cause della morte, fanno di tutto per ostacolarlo. A partire dallo stilista, per passare da Dudley Frost, ed arrivare a Helen Frost, sostando anche dalle parti di Calida Frost, madre di Helen. Tutti allo stesso modo nascondono qualcosa. Per non parlare di Perry Gebert, amico di Calida, un essere viscido, che vorrebbe fidanzarsi con Helen, spinto dalla madre di lei.
In questo ambiente, Wolfe comincia a raccogliere quegli indizi che neanche lontanamente aveva raccolto Cramer, l’Ispettore della squadra omicidi, pur essendo stato incaricato delle indagini sette giorni prima che apparisse Wolfe. Attraverso una serie di puntigliose indagini e anche con prove sperimentali, Wolfe stabilisce che il veleno è stato messo non per colpire alla cieca, ma per colpire una persona in particolare, cioè lo stilista: è lui che nel suo ambiente è notoriamente ghiotto di confetti. Nell’occasione dell’omicidio, l’assassino è stato sfortunato perché la possibile vittima era sazia, e per un caso si è trovata un’altra persona che è venuta a sapere della scatola di dolciumi e, sottrattala dallo studio dello stilista e senza volerlo salvatolo, l’ha proposta a delle sue amiche, morendo proprio lei al posto di McNair.
Al di là delle apparenze Wolfe assiste ad un balletto di mezze verità e mezze bugie: Helen è amica di McNair che gli potrebbe essere padre, ma che le regala diamanti come se fossero noccioline: uno è incastonato nel portacipria, un altro è il solitario che la ragazza porta al dito; Dudley, suo zio e padre di Lew è sfuggente, non capendo perché il figlio abbia assoldato Wolfe, che rivangherà negli affari di famiglia; ancor più sfuggente, il figlio, che innocentemente tenta di proteggere la cugina quando sembra che i sospetti si concentrino su di lei, dopo che si viene a sapere che prima che le due amiche si accingessero a mangiare dolciumi, lei conosceva già il contenuto della scatola, perché l’aveva vista nello studio di Mcnair, cercando di togliere il mandato a Wolfe e mandandolo ancora più in bestia. A questo punto Wolfe è sempre più deciso nel rivelare il nascosto, e in tutti i modi cerca di capire perché qualcuno voglia uccidere Mcnair e lui sia refrattario a parlare. Fatto sta che quando McNair gli confida il fatto di averlo nominato nel suo testamento e averndogli affidato una misteriosa scatola rossa, non fa a tempo a rivelargli dove essa si trovi, che assumendo un’aspirina, cade fulminato anche lui, avvelenato da cianuro: l’aspirina era una compressa di cianuro, avvolta in uno strato di acido acetilsalicilico.
Wolfe che ha dei sospetti, in relazione alla stranezza che Helen fosse nata più o meno negli stessi giorni in cui nasceva la figlia di McNair, e di come questi avesse perso moglie e figlia, e avesse a Wolfe che la moglie era morta ma la figlia era stata persa, e anche al fatto che Helen era erede di un patrimonio di due milioni di dollari dati dal padre Edwin Frost prima che cadesse nei cieli francesi durante la prima guerra mondiale, ma che la madre non aveva beccato neanche un centesimo, per una cerca cosa che a Edwin non era andata giù, e che il patrimonio era affidato a a Dudley fino alla maggiore età di Helen. Sospetta anche di Gebert, in relazione ai trascorsi di Calida. E pertanto scopre tutto un raggiro, che aveva come scopo quello di impedire che Lew potesse ereditare i soldi al posto di Helen. Ma perché McNair solo ora è stato ucciso? E perché poi?
Dopo l’assassinio proprio di Gebert con un espediente ingegnoso (un piattino sospeso da scotch al tettuccio dell’auto, contenente nitrobenzolo misto ad acqua che gli cola addosso avvelenandolo), Wolfe, dopo aver inscenato il falso ritrovamento della scatola (in realtà una scatola rossa acquistata presso un rigattiere, con al suo interno una fiala di nitrobenzolo), smaschera durante un confronto nel suo studio, alla presenza di tutti gli attori del dramma, l’omicida, che preferirà uccidersi piuttosto che essere arrestato e sottoposto a processo.
Il romanzo si concluderà con Helen Frost quasi contenta di aver trovato il vero padre, erede di molto più che due milioni dollari, e Wolfe che finalmente potrà ritirare la parcella di diecimila dollari.
Il romanzo, è ancora ed è riconoscibile in questo, un romanzo in cui Stout si rivela essere un vandiniano. Di solito la pesante eredità in tutti coloro che inizialmente vollero conformare la loro opera ai dettami stabiliti da Van Dine, sfuma nel prosieguo dell’attività, e soprattutto nel passaggio attraverso la seconda guerra mondiale: le opere di Queen per es. già a partire da La casa delle metamorfosi, diventano più singolari, e meno ripetitive di cliches, e così anche quelle di Stout; Daly King è più singolarmente vandiniano solo per il fatto che le sue opere non arrivano alla seconda guerra mondiale e scontano il fatto di appartenere agli anni ’30.
In cosa è ancora un romanzo vandiniano? Principalmente nella tendenza di Wolfe a ritenersi un artista della sua professione: questa tendenza ad autoincensarsi (e automaticamente a svilire il basso volgo) è tipica del detective vandiniano, per le sue doti di intelligenza e capacità di risolvere qualsiasi tipo di problema gli venga sottoposto. Poi vi è un indizio, chiaro, lampante: un’ accezione inusuale per definire un certo tipo di parentela. Lew accenna al rapporto con la cugina, dicendo che sono orto-cugini: il fatto che vi accenni è in relazione al fatot che evidentemente Lew, segretamente innamorato della cugina e ostile a Gebert, aveva però già studiato tutte le possibilità che la legge gli desse per unirsi alla cugina: orto-cugini sta ad indicare una parentela singolare in cui padre e madre sono fratello e sorella di un’altra coppia , e che entrambi abbiano generato figli che tra loro non sono solo cugini, ma orto-cugini, provenienti cioè da avi dello stesso ceppo familiare. Ovverossia nel nostro caso, Dudley e la moglie (che non si vede: è vedovo?) sono fratello e sorella di Calida e Edwin. Tuttavia alla fine si scoprirà che Lew e Helen in realtà non sarebbero proprio orto-cugini.
Il romanzo oltre che avvincere proprio per questi rapporti di parentela molto stretti, tali da evitare che sconosciuti possano attentare all’essenza del clan (a ragione, perché sono famiglie originarie della Scozia), proprio per gli stessi motivi è come se evidenziasse degli elementi di repulsione, allorchè si viene a scoprire tutta una manovra tendente a far unire in matrimonio Helen a Gebert, che parte da Calida, che al tempo dell’arruolamento in aviazione di Edwin Frost lo aveva tradito proprio con Gebert. Allora, questa madre che era stata l’amante di un uomo, non esita a buttare tra le sue braccia la figlia, pur di poter così godere indirettamente di quel patrimonio di due milioni di dollari da cui altrimenti sarebbe estromessa.
Il romanzo ha punti di contatto con altri romanzi dello stesso periodo. E’ evidente una possibile filiazione di The Red Box di Stout da The Poisoned Chocolates Case di Anthony Berkeley : il punto di contatto non è solo il metodo di avvelenamento singolare (scatola di dolciumi in uno, scatola di cioccolatini nell’altra) quanto anche uno dei veleni che si trovano citati in ambedue i romanzi, cioè il nitro-benzolo. Tra i due ovviamente la fonte originale è la più precisa in relazione alle modalità di avvelenamento: 8-10gocce di nitrobenzolo sono già una dose letale, ma il nitrobenzolo non si comporta come il cianuro per cui i tempi di avvelenamento mortale sono molto rapidi; ha più un comportamento simile all’avvelenamento da arsenico, cioè l’avvelenamento di solito è progressivo ed è di tipo sociale, cioè avviene in quelle persone che per motivi di lavoro vi vengono a contatto: infatti è una delle poche sostanze velenose che possono essere assorbite per via cutanea, determinando attraverso questa via, però mai la morte improvvisa. Quando è letale, l’avvelenamento acuto (raro) deve essere massiccio. Non a caso la vittima del romanzo di Berkeley se avesse mangiato un solo cioccolatino, non sarebbe mai morta: muore perché ne fa una scorpacciata. Nel romanzo di Stout invece, per l’avvelenamento da dolciumi viene usato il cianuro, che è mortale, ma l’avvelenamento cutaneo mortale di cui è vittima Gebert da nitrobenzolo è un paradosso, non potendo mai il nitrobenzolo per quanto detto, uccidere per avvelenamento cutaneo in maniera improvvisa. In questo riscontriamo una notevole imprecisione di Stout che non aveva verificato probabilmente il livello di mortalità effettiva dovuto alla sostanza.
Dal romanzo fu tratto in Italia uno degli sceneggiati del Nero Wolfe con Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, per la precisione il primo, quello pilota della serie: trasmesso nel febbraio del 1969, la sceneggiatura di Belisario Randone non si discostava molto dal romanzo, tranne che aver saltato la parentesi di Glenanna (un cottage in cui ad un certo punto si suppone possa essere stata nascosta la famosa scatola rossa) per ovvi motivi, essendo uno sceneggiato interamente ripreso in studi televisivi, e soprattutto per la sorpresa finale della falsa scatola, in cui nella trama vera c’è solo una fiala di nitrobenzolo, di cui l’omicida si serve per uccidersi (è evidente che Nero Wolfe avendo inscenato il ritrovamento della scatola, voglia dare la possibilità all’omicida di uccidersi, perché in questo modo salva anche dallo scandalo persone già provate per fatti precedenti), mentre nella trama sceneggiata in tv, di fiale non ce n’è neanche l’ombra ma solo un malloppo di documenti (quelli che in verità vengono trovati nella vera scatola dietro una pietra del camino della casa della sorella di McNair in Scozia) che in questo modo erudiscono lo spettatore su quella serie di fatti di cui invece il lettore è stato già messo a parte.
Nondimeno è evidente un altro più recondito intendimento nello sceneggiato, trasmesso sul secondo programma nazionale della RAI: quello di non parlare di suicidio, una pratica di morte che nell’Italia cattolico-democristiana era assolutamente condannata (con la dannazione eterna), ma piuttosto di arresto del reo affinchè scontasse il fio della sua colpa ed eventualmente si ravvedesse. Del resto questa tendenza a sostituire l’arresto al suicidio, è ravvisabile in altro sceneggiato di quegli anni, il Philo Vance televisivo, con Giorgio Albertazzi, in cui, ne La fine dei Greene, l’omicida viene internato in un manicomio criminale, invece che finire suicida con la propria auto. Anche nell’episodio conclusivo della miniserie di Philo Vance, lo sceneggiatore è lo stesso che di quello tratto da La scatola rossa di Stout, “Veleno in sartoria”: Belisario Randone.
Come struttura, il romanzo non è un mystery veramente classico, ma come tutti i Nero Wolfe, soprattutto quelli dagli anni 40 in poi, ma un mystery movimentato, dinamico, con ceneri hardboiled (l’interrogatorio della polizia di Perren Gebert, trovato ad introdursi di nascosto nella vilal di Glenanna, è sintomatico) ed anche una certa filiazione oltre che da Berkeley, per certi versi anche da quei romanzi che originavano da Conan Doyle, per la singolarità di far derivare tutta una situazione di cui si parla nel romanzo, da un dramma accaduto nel passato.

Pietro De Palma

giovedì 26 ottobre 2017

Anthony Abbot – L’amante del reverendo (About the Murder of the Clergyman’s Mistress, 1931) – Trad. Igor Longo – I Classici del Giallo Mondadori N° 1078 del 15/9/2005


L’amante del reverendo è il secondo romanzo di Anthony Abbot.
Fu scritto un anno dopo il primo, l’Omicidio di Geraldine Foster, e come vedremo, ripete, ampliando alcune caratteristiche che si erano notate nel primo, ma ne evidenzia delle altre.
Come il primo, ci troviamo nell’anticamera dell’inferno.
In un inizio di un’estate afosa, viene trovata una barca alla deriva: contiene due cadaveri. Una donna che è stata uccisa con uno sparo al cuore, ma che poi è stata quasi decapitata; e un uomo, con una faccia mite, che gli abiti indicano essere il ricco parroco di una chiesa episcopale, con un foro di pallottola in fronte, da cui era colato il sangue che aveva impiastricciato i capelli castani. Nella barca, che ancora odora di vernice, nuova di zecca, c’è anche una carta appallottolata: una lettera, chiaramente inviata da un uomo ad una donna, che parla di amore. Può esser stata scritta dall’uomo e rivolta alla donna, entrambi uccisi? E c’è anche un gatto, testimone dell’uccisione, giacchè ha i polpastrelli delle zampe sporchi di sangue. Ne deve aver pestato tanto, se le ha sporche. Ma, cosa strana, di sangue nella barca, non ce n’è?
Evidentemente non son stati uccisi lì, ma altrove, e poi trasportati da morti nella barca, per essere evidentemente fatti a pezzi e poi affondati in acqua. Dov’è il luogo dell’uccisione e chi i sono i cadaveri?
Ben presto si arriva ad identificare i cadaveri: si tratta del pastore Timothy Beazeley e della sua segretaria Evelyn Saunders. Il pastore proviene dalla parrocchia di San Michele e di tutti gli angeli. Ma dove è stato ucciso? Evidentemente dev’essere un posto vicino al fiume, altrimenti sarebbe stato visto, e si sarebbe saputo subito della barca, di cui invece nessuno sa. Nessuno saprebbe come fare, ma Colt Tatcher, Commissario della Polizia Metropolitana di new York, sa come fare. In possesso di una cultura enciclopedica, conosce persino tutte le varietà di foglie degli alberi di New York: quella a suo dire proviene da un albero di sommacco. Quanti sommacchi vi sono a New York? Ma William Lederer, da lui interpellato, Direttore generale della ripartizione Alberi, lo contraddice: è una foglia di Albero del Paradiso. Riescono a ritrovare la proprietà, e sanno pure che un gatto con le fattezze di quello trovato nella barca, appartiene alla signora Warthon, un’anziana donna che ha un appartamento che nessuno usa. Entrati in casa, grazie al custode Kraus, trovano delle strane alghe commestibili, macchie di vernice in un grande salone con enormi finestre che danno sul giardino interno, un orecchino sotto un divano, simile a quello che manca dagli orecchi  della morta, delle strane impronte dentro un armadio a muro, e un coltello affilatissimo e pulito, appeso ad un gancio.
Intanto si trova chi era sposato a Timothy: è la ricchissima Elizabeth Beazeley già Curtainwood. Con lei vivono i due fratelli Paddington e Gerard:  il secondo è un minorato, a cui piaceva sezionare gli animali con l’uso di coltelli affiliatissimi.
Già dal primo momento delle indagini, dopo che son stati mandati all’obitorio perché siano sottoposti ad autopsia i cadaveri dei due amanti assieme alla barca, si capisce che attorno alla dimora dei Beazeley molti sono gli interrogativi irrisolti: tutti sembrano molto sospetti e soprattutto molto reticenti.  Per di più per un caso si viene a sapere che un pacco contenente un indumento è stato inviato a parenti lontani, perché siano lavati e mondati da qualunque macchia. Tramite tutta una procedura (polizia aerea, di cui si accredita l’invenzione proprio a Tatcher Colt) si riesce ad entrare in possesso dell’indumento, che si rivela essere un soprabito con dei risvolti in pelliccia, che appartiene a Elizabet, sporco di sangue.
Tutto finito? Trovata l’assassina? Trovati i complici? No. Perché entrano in scena altri personaggi: il fabbriciere Chadwick e l’avvocato della famiglia Powell, innamorati entrambi  della vedova, che avrebbero avuto più di un motivo per uccidere il Pastore (per ereditarne la posizione, e i soldi). E inoltre entrano in ballo le altre due segretarie di cui una ex, del Pastore:  Bessie Struber e Emma Hicks. Tutte e due sembrano accreditare la tesi che il pastore fosse tutt’altro che una persona seria in ballo per diventare addirittura Vescovo (di chiesa episcopale) ma invece un fatuo farfallone, che si innamorava di tutte coloro che gli facevano danzare la gonnella dinanzi agli occhi. Insomma, di motivi ne avevano anche loro due: invidia, gelosia, rancore nei confronti di Evelyn questa volta; ma..il Pastore? Lo avrebbero uscciso? Bisogna dire che di sospetti ce ne sono tanti. Ovviamente c’è anche il marito di Evelyn, William Saunders, che fa il guardiano notturno, che a parole rigetta indignato l’ipotesi che la moglie possa averlo tradito con il Pastore, ma che poi coi fatti dimostra di aver più volte sospettato che la moglie lo tradisse. Inoltre c’è anche un misterioso ricattatore, che ha minacciato di morte Evelyn, che pure ha inviato un telegramma per far allontanare il guardiano delle ville, tra cui quella in cui si è consumato il duplice omicidio: il bello è che questa persona viene riconosciuta come la stessa che aveva acquistato del fasciame di legno di cedro e degli attrezzi da carpentiere (questi ultimi trovati assieme ad un grosso rotolo di linoleum e alla pistola, nelle acque del fiume) perché potesse da solo costruire la barca. Quindi il delitto è stato accuratamente premeditato. Tanto più che sono stati trovati nella villa del mistero, che poi si saprà essere stata acquistata in segreto da un fantomatico proprietario di cui nessuno sa nulla, attraverso intermediari, dei manubri che autorizzano a pensare che l’assassino, dopo aver fatto a pezzi la vittima, ne volesse zavorrare i resti nel fiume.
Dopo che si capisce chi possa essere stato il ricattatore, e anche il compratore del fasciamo che ha costruito in segreto la barca, Colt capirà chi possa essere stato l’assassino, o…gli assassini.
Il secondo romanzo di Abbot mantiene le aspettative, rimanendo nel solco del primo; semmai lo approfondisce . E’ quindi ancora, semmai non lo si fosse capito, un romanzo vandiniano, mantenendo tutti validi i contatti con l’archetipo: il detective e la sua spalla istituzionale (qui è il procuratore Dougherty, come in van Dine lo è Markham rispetto al detective che qui è addirittura un Commissario di Polizia), il detective e il suo mentore (come lo è Van Dine rispetto a Vance, così qui lo è Abbot verso Colt) che è per di più identificato con lo scrittore stesso, un modo come un altro per accreditare di veridicità le storie imbastite. Anche qui si manifestano intatte le caratteristiche del detective vandiniamo : super deduzione, super cultura (Colt qui, addirittura si dice conosca tutte le specie di alberi di New York: anche se nel prosieguo, anche lui..sbaglia), superversatilità in tutte le scienze.
Però al tempo stesso, si approfondiscono alcune differenze: i romanzi sono dei veri e propri procedurals ante litteram; i delitti non avvengono solo nei quartieri alti di New York e le vittime non sono solo altolocate; c’è un livello di violenza molto più alto qui, in Abbot, che rispetto alle storie di Van Dine; infine, anche in derivazione da ciò, talora le storie di Abbot possono definirsi quasi delle storie Horror-Splatter : nel primo romanzo c’è un cadavere immerso nell’acido tannico per ritardare la decomposizione e sangue da ogni parte, qui c’è un assassino che non è riuscito a fare a pezzi la sua vittima perché interrotto da qualcosa. Per di più, questa sovrabbondanza di sangue, si oppone alla anemia degli omicidi vandiniani: per certi versi, il solo romanzo di un vandiniano che in qualche modo si avvicini a questo di Abbot sarà The Egyptian Cross Mystery di Ellery Queen, con una forte componente splatter. Altra differenza, che tende a incanalare il vandinismo abbotiano nel solco di un vandinismo non pedissequo ma che cerca una propria strada, è la tendenza a non privilegiare l’azione statica dell’indagine investigativa : Philo Vance agisce sempre in ambienti statici, in ville, palazzi, case, padiglioni non allontanandosi mai se non per andare a casa sua; anche Nero Wolfe è così, non lasciando mai casa sua; e Ellery Queen pure, che interviene sul delitto avvenuto in un determinato posto, non spostando mai la propria azione investigativa altrove, semmai ritornando a casa propria. Tuttavia ad alimentare i venti contrari, ci sarebbe il modo di fare di Archie Goodwin, il factotum e spalla dell’investigatore, che però ne rappresenta le gambe: con lui il giallo firmato Rex Stout perde la inamovibilità nelle scene delittuose dell’investigatore (anche perché lo stesso Goodwin è investigatore).
Tuttavia, se è vero quello che accade nei romanzi di Nero Wolfe, bisognerebbe anche dire che i primi romanzi in cui ci sia un certo spostamento di direzione e la perdita di inamovibilità investigativa, sono proprio i romanzi di Abbot:  un certo spostamento di azione si era già visto in About the Murder of Geraldine Foster, ma è proprio in questo secondo romanzo che il romanzo vandiniano così come era stato ideato da Van Dine (delitto in un ambiente altolocato, con soggetti tutti altolocati o comunque attinenti all’alta finanza e indagine ristretta ai luoghi del delitto) perde la sua staticità (anche se sporadicamente in alcuni romanzi vandiniani classici un qualche spostamento di luogo c’è talora: per es. in La Canarina assassinata, laddove viene trovato il cadavere dell’amante della Canarina, nel suo rifugio, dove è stato ucciso dall’assassino della Canarina che lui ha tentato di ricattare) . Del resto, About the Murder of the Clergyman’s Mistress è del 1931, mentre  Fer-de-Lance è del 1934. Tuttavia non è il solo autore vandiniano, in cui l’azione del detective e la stessa azione del romanzo non sia espressamente statica, perché altro autore libero, con luoghi del delitto assolutamente anticonvenzionali, è Rufus King.
Il genere rimane quello del Whodunnit classico (anche se talora si odono, nelle storie di Abbot, gli echi dell’Hard-Boiled), con un’azione investigativa che parte dagli indizi, ma sublimandosi tuttavia in una di carattere psicologico puro, in cui il finale ha un finale catartico importantissimo: nel caso di questo secondo romanzo, tuttavia abbiamo una certa variazione di tecnica narrativa. Se infatti, nel romanzo vandiniano per eccellenza c’è uno schema del genere:   Prologo (che coincide con l’Introduzione)—- Delitto—-Indagine—-Finale (e talora un Apologo), qui tenuto presente inalterato lo schema interno Introduzione—- Delittto —-Indagine —-Finale, Epilogo e Prologo si identificano, mutando l’azione del romanzo da una che ha per carattere il divenire e quindi la successione di eventi l’uno dall’altro, ad una in cui vi è ciclicità dell’azione: nel Prologo si annuncia quello che si capirà solo nell’Epilogo, cioè per quale ragione il caso contemplato in questo secondo romanzo, per il quale nessuno fu arrestato e quindi la sedia elettrica restò inoperosa, fosse stato archiviato.
La particolare qualità del whodunnit in Abbot sta nella non univocità dell’interpretazione degli indizi: se in Conan Doyle, l’analisi di un indizio ida parte di Sherlock Holmes portava ad una certa conseguenza, in Abbot, più che in Van Dine, un indizio può essere interpretato in diversi modi: questa diversa prospettiva qui non è solo affidata alla abduzione di Colt Tatcher ma anche a quella dell’Avvocato Powell: la presenza di un certo orologio, mancante al morto, in un certo mobile di casa Blazeney, avrebbe indotto a pensare che successivamente alla morte del Pastore, nel caso l’assassino fosse stato qualcuno dei suoi famigliari o fors’anche la moglie, qualcuno l’avesse sottratto e nascosto; ma come fa osservare Powell, quell’orologio trovato è un orologio nuovo, assolutamente, che non può esser mai stato al polso di una persona, e che era il regalo della moglie al marito per il suo compleanno ancora da compiersi; così come lo stesso Colt dimostrerà che la presenza di sangue su un vestito non è indizio di assoluta certezza della partecipazione ad azione delittuosa.
Il finale, assolutamente spettacolare, è il ribaltamento di ogni logica affermata a parole, con l’inquadramento di un’azione delittuosa, in cui l’animo demoniaco verrà sottolineato senza preamboli: l’assassino è un grande avversario del detective(qui lo sarà su un piano puramente virtuale), di grande intelligenza, ed è un essere spietato che uccide perché ha il male in sé, quando non uccide che per calcolo.

Pietro De Palma

sabato 7 ottobre 2017

Jonathan Stagge: Le tre paure (The Three Fears, 1949) - trad. non presente - Classici del Giallo Mondadori N° 675 del 1992


Nono ed ultimo caso del Dottor Hugh Westlake, Le tre paure (uno dei pochi titoli italiani ad essere fedele traduzione di quello americano: The Three Fears), data 1949, tre anni prima che il sodalizio Webb/Wheeler si interrompesse per sempre. Allora nulla faceva presagire che la storica unione che procedeva  ferrea sin dal 1936, e che aveva sfornato molti titoli sotto tre pseudonimi diversi (Quentin Patrick, Patrick Quentin, Jonathan Stagge) potesse avere fine; anche se non c'era più quella vena spumeggiante di cui avevano usufruito altri titoli.
Le tre paure è essenzialmente una Black Comedy, graffiante, ironica, sarcastica, cattiva a volte.
Il Dottor Westlake è ospite di un suo amico, compagno di università e medico anch'egli, Don Lockwood, e di sua moglie Tansy, presso la loro villa sul mare. Don ha 38 anni, Tansy 22: la differenza di età non sembra avere grossi risultati negativi. Per di più Don, anche se ha una professione seria, pur non essendo ricco, è stato accettato dalla sua compagna che invece è una delle donne più ricche d'America, erde della fortuna paterna.
La loro villa confina con due proprietà: quella di Daphne Winters (detta anche la Divina Daphne), la più grande attrice teatrale d'America, seconda solo nella sotia ad Eleonora Duse, e grandissima interprete di Ibsen, e quella di Lucy Milliken, una delle più belle attrici d'America, concorrente della prima in spettacoli teatrali, e famosissima intrattenitrice televisiva, che insieme alla sua famiglia (la figlia diciassettenne, Spray; suo padre Walter, detto "nonnetto"; e suo marito, Morgan Lane), detta "la più bella famiglia d'America" da molti anni pubblicizza una ditta di latte.
Don e il suo amico vanno a trovare Daphne, e in quell'occasione conoscono una delle "sinfonie", Gretchen, una giovane austriaca, riparata in America dopo la Guerra, perchè sposatasi al tempo con un militare americano, che va a chiamare la Musa, con un'espressione tra il "terrorizzato" e il "sorpreso". in quell'occasione Hugh si fa un'idea dell'attrice, primadonna, egocentrica al massimo grado, che guarda al mondo che la circonda come una platea di esseri adoranti, senza altro scopo che la sua felicità. Lucy Milliken non differisce molto da lei e quindi siccome le due attrici non si possono sopportare ed ognuna delle due rivendica la sua bravura sull'altra, è ovvio che la tensione man mano aumenti, dal momento che Lucy e la sua combriccola sono venuti a passare le vacanze proprio lì dove Daphne, la sua segretaria Evelyn Evans e cinque giovanissime attrici, desiderose di apprendere l'arte del teatro, dette "le cinque sinfonie", si occupano di Daphne e della sua casa, facendo da serve, cuoche, giardiniere, cameriere personali, tutto per riuscire a carpire i segreti che lei elargisce ogni mattina durante le sue ore di insegnamento teatrale.
Un giorno che Lucy  si è recata da Daphne per portare acqua al suo mulino, e per trasformare la sua visita nell'occasione di registrare uno spot pubblicitario in cui vuole coinvolgere Daphne,con sua somma rabbia, accade che lei replichi a sua volta, impadronendosi dello spot e prestando il suo spazio alle "cinque sue sinfonie" così da lanciarle nel mondo dell'intrattenimento. Una delle prescelte, Gretchen tuttavia è restia ed ansiosa, e per questo Daphne le da una compressa che prende da un tubetto che ha con sè: appena tuttavia la manda giù, si sente male e muore.
Incidente? Infarto? Nientye di tutto questo: cianuro! Qualcuno l'ha assassinata col cianuro!
chi avrebbe potuto mai uccidere una delle sconosciute sinfonie? E' evidente che qualcuno abbia inserito una compressa avvelenata tra le altre di Daphne. L'inchiesta comunque, affidata all'ottuso ispettore Reed, stabilirà che il tubetto di compresse non è quello che l'attrice aveva con sè originariamente, ma l'etichetta era stata contraffatta. a questo punto è ovvio che le indagini prendano una via decisa: qualcuno ha voluto uccidere Daphne ma per un caso ha ucciso la persona sbagliata.
E' chiaro chi potrebbe anche essere stato, o meglio chi avrebbe potuto avere un motivo per sopprimere Daphne, non essendoci nessuno che avrebbe potuto mai uccidere volontariamente Gretchen: la sola è Lucy, ma Daphne rifiuta di ammettere che possa essere lei l'assassina. Tuttavia Daphne, per il modo come si è comportata, ha dimostrato di averr voluto comunque mettere in grave difficoltà l'avversaria, concedendole magnanimamente l'assoluzione personale.
In una situazione già complicata, si manifesta ben presto un altro tentativo di avvelenamento: questa volta a venire avvelenata è l'orzata che lo stesso Hugh ha versato nel bicchiere. Tuttavia lo sciroppo è innocuo, segno che qualcun altro, ha avvelenato il bicchioere già preparato: tuttavia Daphne prima di inghiottirlo sente odore di mandorle amare e lascia cadere il bicchiere che si rompe: Hugh e Don imbevono un fazzoletto pulito col liquido, e poi danno il fazzoletto all'ispettore che lo fa analizzare: cianuro, in quantità tale da amamazzare almeno sei persone.
Con Daphne sempre più allarmata, si viene a sapere che ella ha solo paura di tre cose: di essere avvelenata, di essere rinchiusa in un ambiente stretto, e del fuoco. Qualcuno può averla cercata di colpire, puntando anche alle sue fobie? L'ipotesi si rafforza quando qualcuno nasconde in vari punti della camera da letto di Daphne una decina di chiavi, uno degli oggetti che ella non può proprio vedere (chiavi, chiavistelli, catene, lucchetti,oggetti che cioè richiamano il concetto di chiusura): Daphne va in crisi, corre via, e tutti cercano di ritrovarla, ma invano: chi corre lì, chi vede là. Taisy, debole di nervi, sviene sulla spiaggia. Poco dopo proprio sulla spiaggia, Hugh sente qualcosa e capisce che nel capanno vicino alal cabina sulla spiaggia c'è qualcuno: vi trovano Daphne legata ed imbavagliata.
Se qualcuno prima di quel momento, Taisy, aveva anche supposto che Daphne avesse voluto fingere di esser stata avvelenata la seconda volta, per sviare le indagini da un suo coinvolgimento nell'omicidio di Gretchen, ora deve ricredersi.
Il terzo attentato avviene per giunta nel mezzo di un cataclisma in cui anche Hugh indirettamente viene a trovarsi: Spray figlia adorata di Lucy, che non sopporta più la madre, ma vuole diventare un'attrice famosa come daphne, si rifugia presso di lei, chiedendo di poter diventare anche lei una "sinfonia".
Affronto mortale alla madre, tanto più che la figlia la accusa di aver tentato di uccidere Daphne. Ma non è la sola a fare accuse. Anche un'altra "sinfonia", Sybil Wentworth, si lancia in un'altra filippica, questa volta diretta contro la segretaria di Daphne, parlando di numerose e violente liti, nelle quali le due donne si erano affrontate, per una supposta volontà di Daphne di sposarsi, cosa che la segretaria gelosa non aveva voluto mandar giù.
A questo punto avviene il primo di tanti colpi di scena: Daphne chiede pubblicamente scusa alla sua segretaria per averla avversata e rivela che è Evelyn Evans, invece, colei che vuole sposarsi. A questo punto è legittimo chiedersi chi possa essere lo sposo futuro, che Sybil ha anche visto qualche volta nascondersi. E nella sorpresa generale, avviene il secondo colpo di scena, che costituisce un colpo durissimo per Lucy: è suo padre che vuole risposarsi con Evelyn; inoltre siccome i contratti della "famiglia più felice d'America" sono a suo nome, ne consegue che anche lo spot televisivo va in fumo. Lucy è distrutta: le resta solo il marito, ancora.
Tutto andrebbe bene se un assassino non fosse nei paraggi, e non avesse tentato già due volte ad eliminare Daphne: e quando nessuno se lo immagina, dopo che Sybil ha confessato a Hugh di aver trovato un anello legato ad un certo matrimonio e di sapere chi possa essere l'assassino, scoppia un incendio in un villino che Daphne ha sul mare. La paura del fuoco è la terza delle tre paure di Daphne, e tutti pensano che qualcuno abbia potuto attentare di nuovo alla sua vita, quando Daphne appare viva e vegeta. Il cadavere carbonizzato che viene trovato è quello di Sybil invece.
Hugh trova l'anello e dalla data impressavi e dalle sigle ricostruisce in parte la verità. 
Ricostruirà la storia di due matrimoni di cui il primo sbagliato, di un ricatto per bigamia, e di una morte annunciata. E attraverso la data sull'anello, e un dettaglio insignificante su un fazzoletto, giungerà a due soluzioni successive di cui la prima sbagliata, e a due possibili assassini, di cui il secondo, quello vero. Che per fuggire l'arresto, preferirà la via del suicidio.
E nel frattempo due matrimoni andranno in fumo: quello di Lucy con conseguente distruzione completa della "famiglia più felice d'America", e quello di Don e Taisy, con conseguente formazione di una nuova coppia formata da Morgan e Taisy. Morgan sarà anche il falso sospettato di omicidio plurimo, sulla base della data impressa nell'anello e della dedica scopertavi:  M.L. a M - 3/7/1945.
Come dicevo nell'introduzione, questo romanzo più che un dramma è una "commedia nera". Non solo. Comunemente la produzione di Webb/Wheeler con lo pseudonimo di Jonathan Stagge viene inquadrata come una serie di romanzi spostata più verso atmosfere carriane che verso altre: questo perchè vi sono disseminati qua e là anche omicidi impossibili. Nel nostro caso, invece, il romanzo più che verso Carr, mi pare che si orienti verso il mystery squisitamente britannico, e in particolar modo quello delle "4 Crime Queen": in questo sono completamente d'accordo con quello che ne pensa Curtis Evans. Direi anche che per il soggetto, il romanzo potrebbe essere spostato verso Ngaio Marsh in particolare: l'unica differenza plateale tra i due modi di scrivere, è l'assenza qui di una qualdivoglia raffinatezza semantica caratteristica invece dello stile marshiano. Al di là di questo, tutta una serie di caratteristiche che ci consentono di inquadrare il romanzo, come una commedia dai toni volutamente parossisticamente accentuati: anche il finale lo è, beninteso, ma al contrario rispetto all'andamento del romanzo, visto che Lucy dopo tante baruffe con Daphne, perse in maniera dramamtica e la fine della propria famiglia, anche per ritrovare la figlia, diventata "la sesta sinfonia", e il padre, diventato marito della segretaria di Daphne, non pensa ad altro escamotage che quello di chiedere a Daphne di poter diventare lei stessa "la settima sinfonia". 
Altra caratteristica saliente del romanzo da "Crime Queen" è il ricorso ancora una volta, al trucco stilistico del ritorno dell'erede, che qui si sostanzia nel ritorno di una moglie ritenuta ormai lontana oltre che nel tempo anche nello spazio, e nella proposizione di un ricatto che, come consuetudine nei romanzi polizieschi (e nella realtà), sarà la molla per il primo omicidio (Gretchen è il diminutivo di Margareth in tedesco). Il secondo sarà invece necessario per chiudere la bocca a chi, prima di Westlake, aveva capito tutto.
Buon romanzo, anche se qualche bug qua e là spunta non risolto. Per esempio: l'assassino premedita il primo omicidio, rubando un'etichetta in una farmacia e contraffacendone un tubetto di compresse, inserendovi una compressa impregnata di cianuro. Il plot vorrebbe che l'assassino, sulla base di una possibilità che gli da il caso, sostituisca il tubetto contraffatto a quello vero, inserendolo nella borsa di Daphne. OK. Ma non dice quale sarebbe stato altrimenti un uso possibile di quella compressa se quella particolare situazione, data dalla ripresa televisiva in casa di daphne, non si fosse presentata. In altre parole, come avrebbe potuto ipotizzare l'assassino che quella compressa sarebbe stata data proprio alla vittima prescelta, invece che essere usata dalla stessa Daphne. Metti che invece di dare la prima compressa alla sua protetta, l'avesse scelta per sè e avesse dato la seconda: lei sarebbe morta, la vittima si sarebbe salvata e tutto il piano di preparazione delle compresse avvelenate sarebbe andato in fumo.
Insomma, qualcosa non torna. 
Tuttavia il romanzo è un crogiuolo di situazioni contrastanti, i colpi di scena si susseguono, e anche nella mielosità di un alterco tra due galline, la tensione non ne risente, e si procede celermente verso la fine, in cui un doppio finale, sancisce il trionfo della ragione e del bene. 
Ultimo appunto sull'assassino: non è un personaggio negativo in toto. Agisce solo perchè costretto dalle necessità, e per salvaguardare il suo matrimonio. Il secondo omicidio l'avrebbe evitato ma anche questo si inserisce nel tentativo di preservare la moglie da rivelazioni compromettenti. 
Ma la fine sarà amara, anche perchè capirà che tutto quanto fatto per salvare il suo matrimonio, sarà stato vano. Anche per altre ragioni.

Pietro De Palma