lunedì 6 settembre 2021

Leo Bruce : Un Caso non concluso (Case With No Conclusion, 1939) - trad Oriella Bobba - Il Giallo Mondaodri N° 2075 del 1988

 

 


 

Case With No Conclusion (1939), Un caso non concluso, è il terzo-quarto dei romanzi col Sergente Beef, di Leo Bruce. Infatti nel 1939 furono pubblicati due romanzi: questo, e Case with Four Clowns.

Il caso ruota attorno alla incriminazione per omicidio, di Stewart Ferrers, nobiluomo di campagna. E’ stato arrestato per la morte del suo medico di famiglia, il dottor Benson, trafitto alla gola da uno stiletto, trovato sulla mensola dove è solito stare, tutto insanguinato e con le impronte di Stewart. Prove schiaccianti insomma. Per di più tutto il paese sa della tresca tra Stewart Ferrers e la moglie di Benson, Sheila. Un ottimo movente quindi. Ma, e qui sta il ma, Stewart si proclama innocente. La sua posizione nondimeno è disperata, e lo sanno bene i due suoi avvocati Nicholson e Petterie, tanto più che nelle tasche della sua giacca è stato trovato persino un biglietto con la sua ammissione di colpevolezza.

Il fratello di Stewart, Peter, per salvare il fratello si affida al sergente Beef, la cui fama di investigatore sta salendo di quotazioni, tanto più che ha già risolto due casi in cui la polizia annaspava, nonostante il suo biografo, l’amico Lionel Townsend, nei due romanzi in cui ne ha tratteggiato la figura, ne abbia sminuito il successo attribuendolo più che altro a fortuna.

Beef si mette all’opera, trasferendosi nella dimora dei Ferrers, “I Cipressi”, poco distante da Lilac Crescent. Innanzitutto vuol vedere il luogo dove è stato trovato il cadavere di Benson, e interroga la cameriera che l’ha trovato. Poi lo ispeziona, e stranamente, chiede all’attonito Townsend di procurarsi una bottiglia, nella quale scola il contenuto di una caraffa di whisky, poggiata sul tavolino, e che mette in una borsa. Infine, comincia a interrogare i vari soggetti che operano in quella villa, dal vecchio maggiordomo Duncan, a sua moglie la cuoca, all’autista Wilson, alla cameriera Rose, etc.. Tutti aggiungono poco alla vicenda. Beef sospetta vagamente di Wilson, per il modo sfuggente con cui risponde. Tuttavia passando di pub in pub, e interrogando la gente del posto, scopre che Stewart Ferrers, già in passato preda degli usurai, da un po’ di tempo prelevava dalla banca delle somme sempre uguali, ossia 500 sterline in banconote da una, segno che qualcuno lo ricattava.

Beef, scopre anche delle altre cose interessanti: innanzitutto, che Duncan, sa molto più di quanto gli voglia dire; che Sheila Benson, è più che una vedova allegra, presentandosi in vesti discinte, quasi sempre seminuda, e che a sentire il meccanico dell’auto di Benson, ha tentato di adescarlo il giorno dopo la morte del marito, cosa di cui Beef si accorge quando la cosa accade con lui; che Sheila, non era affatto ,l’amante di Stewart, che anzi ne è inorridito, ma del fratello di Stewart, Peter; che il marito, il dottor Benson, sapeva tutto, anzi se ne fregava, tanto più che lui a sua volta aveva cornificato la moglie ripetute volte; che qualcuno ha visto un uomo, la sera dell’assassinio, nascondersi in una siepe del giardino della villa; che un vagabondo ubriacone, ha trovato un bastone animato nel giardino, che a sua volta ha venduto ad un rigattiere; inoltre trova per terra la chiave della serratura Yale, che apriva il portone di casa, quando per una cosa o per l’altra, il portone non veniva sprangato dall’interno da Duncan, quando per esempio dei domestici o domestiche uscivano rincasando tardi.

Beef, scopre infine, un biglietto nella scrivania della villa, un cui si leggono le parole, vergate dal dottore: da aggiungere a ..

A questo punto ad intorbidire ancor più la faccenda si mettono: la morte di Duncan, trovato impiccato; la fuga di Wilson e di Rose all’estero, con le ultime 500 sterline che Wilson aveva trovato e che dovevano essere le ultime che Stewart avrebbe dato a Benson; la confessione del parroco, che conferma non solo la poco attendibilità di Benson come marito e di Sheila come moglie fedeli, ma anche il non essere un buon cristiano Benson per la sua campagna nei confronti dei fedeli della parrocchia, a cremare i morti, invece che seppellirli, cosa già avvenuta col padre dei Ferrers, e poi reiterata con altri parrocchiani.

Aggiungasi che qualcuno ha deposto alla polizia lo strano interesse di Stewart per il cambio a preselezione, che aveva la macchina di Benson; e che Stewart nega che Benson si sia trattenuto dopo cena e che lui lo abbia ucciso, e che anzi lo ha accompagnato alla porta; però dopo, anche alla presenza degli avvocati nella prigione in cui è detenuto, non confessa tutta la verità a Beef, che inoltre ha scoperto essere stato avvelenato con dell’arsenico il whisky che aveva prelevato, come se qualcuno avesse voluto uccidere, essere sicuro di uccidere Benson, tanto da provare non solo col liquore avvelenato ma poi trafiggendolo con lo stiletto. Inoltre un cuscino presenta delle tracce di sangue, incompatibili col fatto che lo stiletto riconosciuto arma del delitto, sia tutto imbrattato di sangue.

Nonostante tutto questo Beef non riesce a trarre fuori dall’impaccio Stewart, che viene impiccato.

Sembra essere un Caso senza conclusione, il primo fiasco di Beef, anche pomposamente esaltato da un giornale locale che si fa beffe di Beef, il quale però un giorno, trovando il suo amico, gli rivela tutta la verità: che Stewart ha taciuto cose importanti che lo avrebbero potuto far riconoscere innocente, per una ragione molto precisa, che non era la protezione di qualcun altro;  che non c’è stato uno, ma due delitti; e che c’è stato anche un complice dell’assassino, che però è morto. E che lui, scoperto il vero assassino, lo ha lasciato andare via, perché non è più della polizia ma un semplice investigatore privato, e perché per la polizia il caso era concluso, essendo stato impiccato l’assassino del dottore.

Il romanzo, è uno dei più spassosi di Bruce, veramente godibilissimo, ma al contempo un romanzo molto complesso, con una serie di false piste, di indizi veri nascosti e indizi falsi evidenti, e due finali con due assassini, uno falso, e uno vero. Insomma un piccolo capolavoro, della immensa produzione negli anni ’30, di mystery straordinari.

Il successo del romanzo, che poi è anche il successo della serie, sta nel rapporto conflittuale tra la spalla (Townsend) e il detective (Beef) e nell’uscita di Bruce che invece di riproporre pedissequamente la coppia sherlockiana con le sue variazioni vandiniane, in cui la spalla riporta le impressioni e le deduzioni del detective, esaltandolo, Bruce inverte questo rapporto, attribuendo alla spalla, uscite che in altri casi sarebbero state ascritte al primo attore.  E al primo attore, uscite da spalla. Non a caso Townsend che è la spalla di Beef, è distinto, elegante nelle espressioni e ligio alla legge, e va a braccetto con le deduzioni della polizia, e sistematicamente almeno nei primi romanzi, invece di esaltare il detective di cui scrive le gesta, le “riduce” attribuendo a mera fortuna i successi di Beef. Che al contempo e diversamente dalla sua spalla, è rozzo, popolano, grasso nelle battute, poco elegante, ma intelligentissimo, quello insomma che definiremmo “scarpa grossa e cervello fino”. Per di più questo rapporto conflittuale è alla base di uno stile divertentissimo, fatto di battute e di paradossi. Che non sembrerebbe neanche la base su cui possa innestarsi un romanzo che parla di morte, ma che invece lo è. “Tutti i romanzi con Bruce, sono versioni in chiave satirica della detective novel  di marca britannica. Il contrasto tra lo snob Townsend, il narratore, e il plebeo Beef,  e le loro dispute sui casi di cui si occupano, sono le armi di cui Bruce si serve per prendere in giro il genere giallo…nello stesso tempo i complicati e impeccabili mystery che Beef risolve sono talmente ben congegnati che vanno al di là della satira. Anzi sono superbi esempi di narrativa poliziesca” (Earl F. Bargainnier: The Self-Conscious Sergeant Beef Novels of Leo Bruce. The Armchair Detective 18, Spring, 1985).

Sottolineo inoltre un altro aspetto interessante, che ho già introdotto parlando dei romanzi di Crispin con Fen e di Boucher con Sorella Ursula: cioè la capacità di contestualizzare la vicenda, facendo dei detective di carta, dei personaggi invece di carne ed ossa, le cui vicende sarebbero state magari anche romanzate essendo però vere. Anche Bruce si allinea su questo falso rigo: infatti Beef rimprovera a Townsend di averlo troppo sbeffeggiato nei suoi romanzi, cosicchè per dei casi in cui lui avrebbe potuto fare bella figura, sono stati scelti Nigel Strangeways, il detective le cui gesta sono narrate da Nicholas Blake, o l’Anthony Getryn di Philip MacDonald. Insomma, Beef non sarebbe un personaggio inventato, ma nella finzione letteraria uno reale di cui lo scrittore sarebbe solo un relatore delle gesta.

Nel caso di questo romanzo, la vicenda è quanto mai complicata:

secondo le indagini e le risultanze della polizia (qui non c’è l’Ispettore Stute ma l’Ispettore Arnold) la vicenda sarebbe di una ovvietà disarmante: c’è l’arma, imbrattata di sangue, con le impronte di Stewart Ferrers; in tasca di una giacca dell’imputato viene trovata una confessione con la sua scrittura; tra l’imputato e la moglie della vittima c’era una tresca di cui tutto il paese mormora; pare che la vittima ricattasse l’assassino. Ma invece, se si scava più a fondo emerge un altro quadro:

la ferita mortale farebbe pensare che non una ma due volte lo stiletto sia stato usato per conficcarlo in gola; su un cuscino vi sono strane macchie di sangue, come se l’arma fosse stata ripulita, ed invece viene ritrovata lorda di sangue; oltre che lo stiletto, la caraffa di whisky era avvelenata con arsenico; un bastone animato proveniente dal padiglione di caccia della villa viene trovato nel negozio di un rigattiere; Sheila non è affatto l’amante di Stewart ma del fratello Peters; vi sono non due morti ma tre, una nascosta, rivelata da Beef e altre due evidenti; per la prima morte, il complice è morto, e l’assassino muore. Il movente della morte di Benson non è la gelosia oppure sfuggire ad un ricatto, ma la vendetta. L’assassinio di Benson per di più ascrivibile al vero assassino, si è sovrapposto ad un tentativo di omicidio che non si è però tradotto in assassinio. Insomma un insieme di false piste e vere, che nascondono il fine astutissimo di un assassino vendicativo, in grado di uccidere e determinare la morte di un altro, al contempo però in certo senso scusato da Beef.

Beef che, prima di spiegare la faccenda al suo biografo, gli rinfaccia la colpa dell’impiccagione di Stewart. In cosa Townsend potrebbe essere stato visto come il responsabile dell’insuccesso di Beef (che poi non è stato in realtà come lui poi rivela)? Se si capisce questo, si capisce tutto. Anche chi sia l’assassino. Il perché invece deriva dalla storia narrata nel romanzo.

Una perla sconosciuta, questo Case With No Conclusion.

Pietro De Palma

mercoledì 1 settembre 2021

Stefano Di Marino : L' Amante di Pietra, 2020 - Il Giallo Mondadori N° 3189 del 2020

 


Ascoltatemi amici, romani, concittadini…
Io vengo a seppellire Cesare non a lodarlo.
Il male che l’uomo fa vive oltre di lui.
Il bene sovente, rimane sepolto con le sue ossa… e sia così di Cesare.
Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso.
Grave colpa se ciò fosse vero e Cesare con grave pena l’avrebbe scontata.
Ora io con il consenso di Bruto e degli altri poiché Bruto è uomo d’onore e anche gli altri,
Tutti, tutti uomini d’onore…
Io vengo a parlarvi di Cesare morto.
Era mio amico.
Fedele giusto con me… anche se Bruto afferma che era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
Sì è vero.
Sul pianto dei miseri Cesare lacrimava.
Un ambizioso dovrebbe avere scorza più dura di questa.
E tuttavia sostiene Bruto che egli era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
Sì è anche vero che tutti voi mi avete visto alle feste dei Lupercali tre volte offrire a Cesare la corona di Re e Cesare tre volte rifiutarla.
Era ambizione la sua?
E tuttavia è Bruto ad affermare che egli era ambizioso e Bruto, voi lo sapete, è uomo d’onore.
Io non vengo qui a smentire Bruto ma soltanto a riferirvi quello che io so.
Tutti voi amaste Cesare un tempo, non senza causa.
Quale causa vi vieta oggi di piangerlo.
Perché o Senna fuggi dagli uomini per rifugiarti tra le belve brute.
Perdonatemi amici il mio cuore giace con Cesare in questa bara.
Devo aspettare che esso torni a me.
Soltanto fino a ieri la parola di Cesare scuoteva il mondo e ora giace qui in questa bara e non c’è un solo uomo che sia così miserabile da dovergli il rispetto signori.
Signori se io venissi qui per scuotere il vostro cuore, la vostra mente, per muovervi all’ira alla sedizione farei torto a Bruto, torto a Cassio, uomini d’onore, come sapete.
No, no.
Non farò loro un tal torto.
Oh… preferirei farlo a me stesso, a questo morto, a voi, piuttosto che a uomini d’onore quali essi sono.
E tuttavia io ho con me trovata nei suoi scaffali una pergamena con il sigillo di Cesare, il suo testamento.
E bene se il popolo conoscesse questo testamento che io non posso farvi leggere perdonatemi, il popolo si getterebbe sulle ferite di Cesare per baciarle, per intingere i drappi nel suo sacro sangue, no…
No amici no, voi non siete pietra né legno ma uomini.
Meglio per voi ignorare, ignorare… che Cesare vi aveva fatto suoi eredi.
Perché che cosa accadrebbe se voi lo sapeste.
Dovrei… dovrei dunque tradire gli uomini d’onore che hanno pugnalato Cesare?
E allora qui tutti intorno a questo morto e se avete lacrime preparatevi a versarle.
Tutti voi conoscete questo mantello.
Io ricordo la prima sera che Cesare lo indossò.
Era una sera d’estate, nella sua tenda, dopo la vittoria sui Nervei.
Ebbene qui, ecco..
Qui si è aperta la strada il pugnale di Cassio.
Qui la rabbia di Casca.
Qui pugnalò Bruto, il beneamato.
E quando Bruto estrasse il suo coltello maledetto il sangue di Cesare lo inseguì vedete, si affacciò fin sull’uscio come per sincerarsi che proprio lui, Bruto avesse così brutalmente bussato alla sua porta…

Stefano nel primo mattino del 6 agosto, si è buttato dalla finestra di casa sua. E ha lasciato tutti noi increduli.

Chi lo conosceva sapeva quanto fosse bravo, chi non lo conosceva ha compreso che si è perduto un tesoro. Nessuno sa per quale reale motivo abbia deciso di farla finita. Io penso e sono convinto che una depressione strisciante abbia causato tutto, abbia ingigantito le difficoltà, abbia trasformato il bianco in grigio e il grigio in nero, e poi abbia causato la fine tragica del più grande scrittore d’avventura italiano. C’è chi dice che nell’ambiente editoriale italiano più d’uno abbia avuto colpe morali, nell’ucciderlo editorialmente, negandogli la fama e la conoscibilità che altri hanno acquisito più facilmente. Io non so se sia vero del tutto. Penso che se si fosse legato più che altro al carro del thriller, forse avrebbe potuto avere maggiore fortuna. Non so. Certo è che..

Al di là di tutto, era una persona gentile e riservata.

Ci eravamo affrontati come capi-bastione di due eserciti contrapposti in quel dibattito sul Blog del Giallo Mondadori, 13 anni fa, che fece punte di 10.000 presenze, dicendocele di tutti i generi. Io pungolavo, sfotticchiavo, poi mi ritraevo, fingevo di essere stato attaccato alle spalle, riattaccavo, sorretto da tanta gente, e lui idem. Per cui pur odiandoci a parole, ci facevamo un sacco di risate.

Poi a distanza di tanti anni mi capitò di recensire il suo primo giallo di Bas, a lui piacque moltissimo la mia impostazione, mi contattò. Io ricambiai, per email, finchè lui mi invitò a propormi come amico su Facebook, proponendomi di andarlo a trovare a Milano, dopo che recensii il suo bellissimo Mosaico a tessere di sangue, uscito di nuovo in quest’anno come Il bacio della Mantide. Purtroppo non riuscii a farlo ( e avrei contattato anche altri amici tra cui Luca Conti..) e quindi la mia conoscenza con Stefano è stata solo quasi epistolare. L’ultimo romanzo che recensii fu La torre degli Scarlatti. Mi chiese di recensire L’amante di Pietra quando l’avessi letto, ma negli ultimi due anni son diventato pigro, mi stanco molto per il lavoro e riesco a leggere solo in vacanza. Mi accingo ora a questo compito. Chissà se non mi veda da dove sta ora.

Terzo romanzo della serie Bas Salieri, è il più lungo e il più complesso.

Una introduzione ci parla di un fatto accaduto 10 anni prima di quanto narrato: una donna entra in una villa sul Lago di Garda, si addentra nel sotterraneo dove si trova in un ambiente, popolato da statue incredibilmente reali, di donne in varie pose, su alti piedistalli. Aspetta il suo amante. Quando capisce, lui arriva e..

Dopo 10 anni, ad Amsterdam, dove vive. Bas reperisce un rarissimo manifesto di un film di Demetrio Savini, un regista di horror, dal passato oscuro, lo fa vedere alla sua assistente Zaira e dai commenti che fa, Bas capisce che Zaira sia spaventata. Poi..sparisce dopo aver avuto una telefonata.

Il suo amico, il poliziotto Vorbrek lo convoca per sottoporgli un caso scottante: una donna è stata trovata sgozzata in un giardinetto, messa al centro di un pentacolo illuminato da ceri: vuol sapere cosa ne pensi lui.  Bas si accorge da alcuni particolari, che la ferita mortale potrebbe essere stata prodotta mediante un pugnale rituale, un Salmaguda, a lama ricurva. Il bello è che le videocamere hanno sorpreso un’altra donna prima assieme alla vittima: Zaira. Ma poi è andata via, prima che arrivasse l’assassino, un gigante albino.

Bas è preoccupato anche perché Zaira non si è fatta viva. Scopre nel suo appartamento, una stanza segreta e una foto in cui sta ripresa accanto ad altre tra cui la vittima, e al centro Demetrio Savini, una foto di molti anni prima.

Da Amsterdam si va a Praga, alla ricerca di una delle ragazze, in tempo per imbattersi in un gruppo di ex nazisti, “Gli uomini dagli occhi di piombo”, che per varie cause vengono fatti fuori dall’albino; poi si va a Berlino, poi ancora ad Amsterdam. E tutte le volte le ragazze che di voleva salvare, vengono rapite prima che Bas e chi investiga con lui (il commissario Panitta; la figlia dell’ex commissario Scotti, Nieves; Corrado Armale) possano salvarle.

Si arriva, in un crescendo di situazioni (e anche di morti ammazzati), al duello finale, in quella villa sul Lago di Garda in cui era scomparsa la Briggi, una delle ragazze ritratte assieme a Zaira nella foto con Savini, villa appartenuta molti anni prima proprio a Savini, regista horror ma anche Maestro di un Ordine blasfemo, i Supplizianti, arsi dall’Inquisizione nel Medioevo. Savini è morto, questo è sicuro. Ma chi allora, ne prosiegue i piani omicidi?

Dopo che alcune ragazze sono finite come quelle tramutate in statue, cosparse di resina bollente prima e calce e cemento a presa rapida dopo, prima che tutte vengano uccise in tale modalità orribile, in un drammatico duello, Bas e Corrado …..

Romanzo molto affascinante, attira l’attenzione del lettore sin dalle prime pagine e la mantiene alta fino alla fine, grazie a tecniche già consolidate di realizzazione del ritmo, spezzando cioè l’azione del soggetto di cui si sta parlando e riprendendola dopo che si è parlato di altro. E’ un processo di innalzamento della tensione, non relativo all’atmosfera (che era quello degli antichi maestri), ma che si avvale di escamotage stilistici, come fanno molti altri scrittori contemporanei. Al di là del mero tecnicismo, comunque Di Marino riesce sempre mantenere alta l’attenzione del lettore, grazie a continui cambi di registro dovuti ad un vortice inarrestabile di situazioni. L’azione è continua, ma non nel senso di action solo: c’è un’indagine serrata, e indizi, che una volta raccolti non vengono accantonati in attesa di comparire nel finale catartico, ma vengono sviluppati di continuo, cosicchè l’azione è sempre una diretta conseguenza di quello che è accaduto precedentemente. E’ quindi questo un classico Giallo all’italiana, un mystery che nelle intenzioni di Stefano, aveva anche una connotazione movimentista, soprattutto nel cambio continuo di fondali dell’azione: non un unico ambiente in cui avviene tutto, ma un insieme di più ambienti che interagiscono tra loro. E’ ovvio che questa è anche un’abile mossa per allungare il romanzo: ogni volta che parli di una città diversa, viene fatta una certa introduzione, la tratteggi, la illustri la descrivi. E le descrizioni di Sfefano, sono estremamente dettagliate, fatte come per far ambientare virtualmente il lettore in una città che non è la sua. Ne deriva quello che secondo me è il dato più caratterizzante del romanzo: l’atmosfera e le descrizioni, che rispetto anche agli altri due romanzi precedenti, sono massive.

Tuttavia, rapportando questo agli altri due, mi vien da dire che in una classifica ideale, l’Amante di pietra io lo collocherei al secondo posto, dopo Il Palazzo dalle cinque porte che ha qualcosa in più, qualcosa di sospeso e di magico, di fantastico che gli altri due non riescono ad emulare. Il tutto al di là degli sforzi dell’autore di rifarsi a vari suoi modelli, primo fra tutti – a suo dire – Carr . Carr è presente di più nel primo romanzo, mentre gli altri due prendono spunti da film e da sceneggiati famosi: l’idea di Carr che Stefano voleva sviluppare è quella secondo cui, preso un certo plot in cui a prima vista ci sarebbe una connotazione sovrannaturale o comunque connessa al mondo dell’occulto, quando si arriva alla fine ci si trova con un assassino normalissimo, magari anche folle, ma che di sicuro non ha nessun contatto col mondo del soprannaturale. Un rimando ad un celebre sceneggiato italiano, mi sembra la scena a Praga nel vecchio covo degli Uomini dagli Occhi di Piombo: la sala piena di manichini, rimanda direttamente alla stessa della sartoria teatrale in Il segno del Comando.

Ci sono tantissimi rimandi alla cinematografia italiana horror, citati ( Dario Argento, Aldo Lado, Bava), ma anche celati, e a ragione: infatti la trovata che da il titolo al romanzo, L’Amante di pietra, che sarebbe in definitiva una donna cosparsa di materiale a presa rapida che la uccide, congelandola in un certo modo per l’eternità, con l’espressione e la postura che aveva nel momento in cui veniva inondata di questa materia fluida, non è un’idea originale di Stefano, ma presa (e opportunamente trasformata) da House of Wax (La maschera di cera, 1953) di André de Toth, un enorme successo commerciale degli anni ’50, a sua volta remake di Mystery of the Wax Museum del 1933 di Michael Curtiz : in sostanza il folle Jarrod, scultore che ha subito ustioni gravi tali da impedirgli di poter modellare nuovamente statue su modelli storici, si serve di corpi umani che egli inonda di cera fusa, fermandoli in determinate posture. Così l’erede di Demetrio Savini, è in un certo senso l’alter ego di Vincent Price.

Da dire inoltre che in questo, come in altri romanzi di Di Marino, trovano spazio alcuni personaggi del sottobosco della narrativa italiana quando non della critica anche cinematografica, tutti sui amici: del resto, lui stesso lo aveva affermato in un’intervista anni fa, che se non si era suo amico, non si entrava nei suoi romanzi. Così per es. Gianni Luparo è Franco Luparia, autore Spy di Delos e Segretissimo; Corrado Armale, amico di Bas ed esperto di occultismo è Corrado Artale, esperto cinematografico, amico di Di Marino; Riccardo del Piero, esperto cinematografico e collezionista di film, sono io; Stefano Barcissi, oscuro scrittore, autore di una Storia dei Supplizianti, è molto probabilmente Giancarlo Narciso, scrittore italiano, vincitore del Tedeschi e del Scerbanenco, oltre che anche lui autore Spy su Segretissimo; Karlutz Rolachek è indubbiamente Carlo Andrea Cappi, stessa fisionomia: capelli raccolti con una crocchia sulla nuca,  baffi, cappello, panciotto. Solo che Stefano, lo fa basso mentre Andrea non lo è certo; Aurelio Giobbi, l’impresario della Briggi, una delle 5 ragazze, scomparsa 10 anni prima (è quella che compare nell’introduzione), è Silvio Giobbio, illustratore milanese, mentre Manuel Cavenaghi è riportato tale e quale come editore di “Cripte e Incubi”. E così via. Ci si può sbizzarrire se uno ha il tempo di cercare.

Infine, un piccolo appunto che sarà sfuggito ai più che avevano già recensito questo romanzo: il Salmaguda, citato come un  pugnale sacrificale del XIII secolo, in realtà non esiste. Esisteva solo nell’immaginario di Stefano, che lo aveva già usato in qualche avventura di Montecristo. In realtà , come lui stesso aveva affermato nel suo Il Manuale delle armi bianche, al Salmaguda aveva attribuito un nome e un’origine inventata mediorientale, mentre in realtà è una derivazione del Kujang indonesiano, un pugnale dalla forma strana e bizzarra, damaschinata , con scritte in Corano.

Insomma un romanzo, che non finisce mai di stupire.

 

Pietro De Palma