lunedì 26 marzo 2018

Il Philo Vance di Giorgio Albertazzi: un trionfo della RAI di un tempo

Dei tre sceneggiati, il più complesso è La fine dei Greene. 

Fu pubblicato nel 1927, e a detta di molti, assieme a L’Enigma dell’Alfiere e a Il Mistero del Drago, è tra i capolavori di Van Dine. Il tema non è che sia però così originale! Infatti, anche se pochi lo sanno, il tema della strage nell’ambito di un gruppo familiare, da parte di uno dei parenti, risale a parecchi anni prima: fu infatti  nel 1907, un tal Roy Horniman col suo romanzo Israel Rank , a introdurre la storia di un tale che, volendo essere l’unico a rappresentare la Casata dei Gascoyne, uccide tutti gli altri eredi. Tuttavia la resa di Van Dine è stupenda, e lui per la prima volta porta il genere ad un livello da capolavoro. La Fine dei Greene influenzò parecchio la letteratura di genere, da quel momento: per esempio, lo stesso Wright, sulla scorta del successo ottenuto proprio con il nostro romanzo, ne propose un altro, qualche anno dopo, nel 1934, che si muoveva sulla stessa falsa riga: Signori, il gioco è fatto! (The Casino Murder Case); e anche “The Garden Murder Case”, Il Mistero di Casa Garden (1935) ripropone lo stesso iter: riunione di persone e omicidio. Lo stesso George Antheil, “The Bad Boy of Music”, sotto lo pseudonimo di Stacey Bishop, pubblicò presso Faber & Faber, Death in the Dark, un romanzo che guarda molto a Van Dine, e mi par di poter dire, a La Fine dei Greene, solo che qui il delitto avviene in Casa Denny, e si tratta di tre delitti impossibili. Il romanzo, mi piace dirlo, inquadra secondo me un’altra peculiarità del romanzo da cui prende le mosse, cioè il numero dei personaggi interessati all’azione omicida: 6 sono le persone nella cui cerchia si instaurava il rito della morte, in Casa Greene: Sibella, Ada, la madre dei Greene, Julie, Chester e Rex; e 6 guarda caso, sono i personaggi di Casa Denny, interessati all’azione in Death in the Dark : Gertrude Denny, F.Alvinson, J.Alvinson, Dottor Stein, Dave Denny, la madre dei Denny. Su quest’altra falsa riga, il numero 6, si sarebbero potuti muovere degli altri romanzieri, che anche pur non essendo vandiniani puri, proprio a Van Dine e in particolare al suo terzo romanzo avrebbero potuto rifarsi, non necessariamente seguendolo pedissequamente ( ricordo il carattere distintivo dei titoli dei romanzi di Van Dine, che hanno una struttura simile: The + nome + Murder + Case. E il nome, non scordiamolo, è stranamente sempre formato da sei lettere); romanzi che presentano 6 soggetti sospettati, oppure collegati tra loro da un patto, oppure invitati a pranzo o a cena, oppure ancora altro: dal James Ronald di Six Were To Die a Mystery Mansion di Herman Landon, da Dinner-Party at Bardolph’s di  Robert Alfred John Walling a The House of Brass di Ellery Queen, da Six Hommes Morts di S.A. Steeman a Six Came To Dinner di Roy Vickers, da Six Were Present di E.R.  Punshon a Six Under Suspicions di Charles Kingston. Rispetto alla vicenda narrata nel romanzo, quella vista in televisione, ha numerose differenze: innanzitutto nella trama della vicenda, pur mantenendo identico omicida. Al primo omicidio, quello di Julie, e al ferimento di Ada, non segue come nel romanzo, l’omicidio di Chester, ma quello di Rex, che avviene più tardi nel romanzo; Chester così vivrà fino all’arresto dell’omicida e al suo internamento in un manicomio criminale (mentre nell’originale, quest’ultimo preferirà uccidersi con un fazzoletto imbevuto di cianuro di potassio); mentre nel romanzo i Greene compaiono dopo il primo omicidio, nello sceneggiato viene inventata tutta una situation presentando l’atmosfera in casa Greene, i personaggi, e l’omicidio e tentato omicidio stessi (una trovata televisiva, però di forte impatto e intelligenza); non è Chester che si reca dal Procuratore, ma il contrario; nello sceneggiato viene addirittura inventata di sana pianta una tresca tra Rex e la seconda cameriera, Alice Barton, e un loro incontro quasi in contemporanea col primo delitto; mentre nel romanzo Rex dorme in camera sua allorchè il delitto viene commesso, nello sceneggiato arriva poco a casa dopo essere uscito; nel romanzo, una sua parte importante ce l’ha la neve fuori alla casa, non perché si sviluppi una camera chiusa, ma perché il tutto sia funzionale per esempio alla sparizione della pistola nel primo tentato omicidio, che non avviene invece per opera del marchingegno usato per la morte di Rex (come invece nello sceneggiato); nello sceneggiato non si parla proprio della cuoca, vedendola di sfuggita, stagliata sullo sfondo e neanche coi lineamenti netti del volto, nella scena iniziale, della cena a casa Greene, la sera prima del primo omicidio, mentre nel romanzo una sua importanza ce l’ha tutta; nel romanzo ad un certo punto scompare la fiala di stricnina e della morfina, nello sceneggiato solo la stricnina (la morfina servirà per un secondo tentativo di omicidio, sempre ai danni di Ada, di cui nello sceneggiato non v’è traccia); infine nello sceneggiato, nella biblioteca della casa, chiusa da anni, si aggira una presenza che legge il trattato di criminologia “Handbuch für Untersuchungsrichter“ di Gross, invece nel romanzo oltre a quello, l’omicida legge anche un trattato di tossicologia (perché altrimenti non si spiega come avesse acquisito la necessaria competenza ad usare delle sostanze farmacologiche sconosciutegli), mentre nello sceneggiato ne si indica solo il dorso, assieme ad un testo sull’ isterismo; nello sceneggiato viene addormentata una poliziotta, messa al posto dell’infermiera, per evitare guai alla madre, che viene però avvelenata con la stricnina, mentre nel romanzo ad essere dopata è Ada con una dose quasi letale di morfina. Questo per la trama. Ma ci sono anche delle altre discrepanze.Innanzitutto le date della tragedia: chissà perché nello sceneggiato esse cominciano dal 16 (non si sa il mese), mentre nel romanzo l’inizio è in data 9 novembre; Vance-Albertazzi viene ricevuto dal maggiordomo Sproot che a detta del romanzo dovrebbe essere un uomo bassino e dai capelli grigi, e che invece ci appare abbastanza alto e coi capelli neri; Albertazzi-Vance entra nella camera della madre dei Greene e qui ella rivolgendoglisi lo chiama per nome e cognome e gli annuncia che non venderà mai alcuna delle sue opere che ancora la villa possiede (ma nel romanzo non accade nulla di ciò e né la madre si rivolge a Vance né lo fa lui nei suoi confronti); la cameriera Barton, quella che nello sceneggiato ha la tresca con Rex, e che purtuttavia resta alla sua morte in casa, nel romanzo alza i tacchi e se ne va dopo il primo omicidio; nel romanzo non è il dottor Oppenheimer a confermare la tesi di Von Blon (il medico della signora Greene e amante di Sibella, che poi si scoprirà esserne il marito da oltre sei mesi) sulla natura organica della paralisi della madre, quanto invece il dottor Doremus; Sibella,  nello sceneggiato rimane viva e vegeta, mentre nel romanzo viene quasi accoppata nella parte finale del romanzo, con una chiave inglese dall’omicida.
Insomma, il romanzo viene riscritto quasi completamente da Biagio Proietti e Belisario R. Randone, adattandolo al mezzo televisivo, cioè alleggerendo la trama, addolcendo i contenuti, creando delle love stories, e facendo in modo che il personaggio centrale, cioè Philo Vance, risulti, interpretato da Albertazzi, molto meno antipatico di quello che lui sembrerebbe indicare; prosa brillante e ad effetto, e talora delle glosse:
come avrebbe fatto mai l’omicida a usare su di sé la pistola senza vedere dove essa avrebbe prodotto il danno, se non utilizzando uno specchio? L’omicida è pazzo, ma finchè insegue il suo piano, è molto lucido: non avrebbe mai rischiato di morire, non portando a termine la sua macchinazione. Nel romanzo c’è ovviamente, nello sceneggiato no.
E ancora..una chicca, che sarà sfuggita ai più:
il sergente Heath davanti al corpo di Rex esclama : “E anche stavolta la rivoltella è una calibro 32!”. Come mai avrà fatto il sergente a poter fare una simile affermazione in mancanza della pistola (che verrà trovata solo alla fine) e senza che neanche il dottor Doremus abbia fatto l’autopsia? Il bello è che Philo Vance-Giorgio Albertazzi rinforza quell’affermazione con la sua : “Già : stessa arma, stesso assassino”. Incredibile! Tanto più che nell’originale vandiniano, si usa un altro tono: “Questa ferita sembra di una calibro 32“, dice il sergente; mentre Van Blon, rafforza: “Sembra prodotta dalla stessa pistola usata contro gli altri“. E Vance: “Si tratta della stessa arma…E si tratta dello stesso assassino” (S.S. Van Dine, La fine dei Greene, trad. Caterina Ciccotti, Grandi Gialli Rusconi, pag. 145).
Non è la stessa cosa. Nello sceneggiato, prima di questo omicidio, ce n’è stato solo uno (ed un tentato omicidio), mentre nel romanzo questo è il terzo; e se Vance rafforza una propria idea, i due che lo precedono nel dialogo non esprimono certezze, ma solo congetture, ipotesi.
E poi si guardi la scena, grottesca: il cadavere di Rex giace lì per terra, in camera sua, dinanzi al camino, e Philo Vance e il Procuratore Markham sono sprofondati in due poltrone, avendo tra loro il cadavere, e mentre l’uno aspira una Rége, l’altro pontifica fumando la pipa, tutt’e due impegnati a parlare di un omicidio il cui corpo è lì davanti a loro, con la stessa intenzione che avrebbero parlando non so..del balletto cui si è assistito la sera prima.
I protagonisti fissi dei tre sceneggiati, oltre ad Albertazzi, furono Varo Soleri (Curie), Silvio Anselmo (il Sergente Heath) cui fu affidata la parte del sergente che procede all’individuazione del colpevole secondo le regole consolidate e che è costretto a perdere ogni confronto con Philo Vance, che invece rappresenta l’imprevedibilità dell’azione poliziesca in cui l’intelligenza e la deduzione sono preponderanti sul resto; Sergio Rossi (Markham) uno degli attori più amati dal pubblico televisivo e Gianfranco Barra (il dottor Doremus) un grande attore caratterista del cinema italiano dalla fine degli anni sessanta ad oggi.
A dirla tra noi, Albertazzi non so se per richiesta sua o per casualità, finì in pratica per lavorare con un gruppo di attori, alcuni dei quali o avevano fatto parte della sua compagnia oppure comunque con lui (e Anna Proclemer) avevano lavorato in alcune produzioni: Anselmo, per esempio, che aveva già lavorato qualche anno prima di questa produzione, nell’Amleto diretto da Zeffirelli e in Antigone Lo Cascio con la regia dello stesso Albertazzi; ancor più Varo Soleri, il domestico Currie, che oltre a figurare nelle stesse due produzioni citate per Anselmo, aveva  interpretato assieme ad Albertazzi, l’Agamennone televisivo e Come tu mi vuoi di Pirandello, in teatro.
Così, andandolo ad analizzare, La fine dei Greene è il maggiore tra i tre lavori, per vari motivi, tra cui le stesse partecipazioni degli altri interpreti: se infatti nei primi due, Philo Vance-Albertazzi aveva duellato con Paola Quattrini e Quinto Parmeggiani  in La strana morte del signor Benson , e Lia Tanzi e Virna Lisi in La Canarina Assassinata, ne La fine dei Greene si trova a interagire con alcuni dei più bei nomi del teatro italiano: Micaela Esdra, grande attrice di teatro e televisione, che aveva lavorato, un po’ più giovane in I ragazzi di padre Tobia, una serie televisiva che vedevo quando ero bambino e di cui mi ricordo la sigla “Chi trova un amico trova un tesoro”) ma attiva anche dopo; un altro grande caratterista del cinema italiano (e anche del teatro) come Marco Tulli, che interpretava l’allampanato Sproof, il maggiordomo di casa Greene; Mico Cundari, altro grande attore televisivo di quegli anni (fu lui il Conte Certaldo discendente del Certaldo negromante in “Ritratto di donna velata” di Daniele D’Anza) attivo anche in pellicole cinematografiche di impegno, come Il caso Pisciotta o Il delitto Matteotti; Anna Maria Gherardi, che qui interpreta la Greene Sibilla, aveva lavorato precedentemente con Gassman in Adelchi prima e Orestiade, lavorando in televisione in Eneide; o ancora, la grande Elena Zareschi, che aveva lavorato con Gassman in Troilo e Clessidra, e Amleto di Shakespeare, Tieste di Seneca e Ornifle di Jean Anouilh; e ancora Mario Avocadro, Linda Sini, Nais Lago. Insomma..delle presenze variegate. Quel che mancava era però, a mio parere, una personalità di spicco, conosciuta dal pubblico televisivo, qualcuno che ne La fine dei Greene potesse essere quel che era stata la Quattrini in La strana morte del signor Benson, e Virna Lisi in La canarina assassinata. Ecco perché, a parer mio, si inventò un cameo per Tino Bianchi, altro personaggio conosciutissimo nella televisione di quegli anni (non scordiamoci che era stato l’indimenticabile Sir Olivier in “La Freccia Nera” di Anton Giulio Majano), che per di più aveva già lavorato con Albertazzi e Proclemer in Spettri di Ibsen, a teatro : gli si affidò la parte del notaio Ross, notaio sia di Vance che del vecchio Tobias, l’unico che avrebbe potuto edocere le autorità di polizia e lo stesso Vance sulla strana volontà testamentaria alla base della tragedia: eredità in blocco alla moglie, e alla sua morte, divisa in parti uguali tra i figli (anche Ada, adottata) a patto che vivessero, fino alla morte della madre, insieme, nella casa paeterna. In realtà la figura del notaio, è un’ulteriore invenzione degli sceneggiatori, in quanto nel romanzo, non esiste un tal personaggio, e tutto quanto riguarda le volontà testamentarie del patriarca Tobias, lo si evince leggendo il capitolo XVIII.
Per quello che invece riguarda la fedeltà dell’azione visiva rispetto a quella letteraria, credo di poter dire che mi sembra essere La canarina assassinata, lo sceneggiato meno variato rispetto all’originale, nelle linee guida.
Detto ciò, si evince che la serie non si può certo definire un’opera minore della TV di quegli anni l’atmosfera è resa televisivamente molto bene, e la bravura degli interpreti è conclamata. Bisogna dire che del resto condensare tutta l’azione di un romanzo “summa” com’è La fine dei Greene, con tutte le morti, l’azione e le complicazioni, la resa dei personaggi e quant’altro, in sole due puntate portava necessariamente alla rinuncia di qualcosa.
Albertazzi-Philo Vance, che guarda dallo spioncino della porta della cella del manicomio l’omicida ormai preda della sua pazzia, è l’ultima scena dello sceneggiato: quello sguardo è terribile. C’è un misto di repulsione e compassione, e anche di interesse scientifico, che solo un attore consumato come Giorgio Albertazzi avrebbe potuto rendere. Anche questa scena, nel romanzo, però, non c’è. Tuttavia la sua importanza l’ha tutta: concentra l’attenzione ancora su Philo Vance. Con Giogio Albertazzi non ancora Philo Vance era cominciata la serie, con Giorgio Albertazzi non più Philo Vance termina. Perché ovviamente, anche se non è rappresentato, possiamo immaginarci che dopo quella scena finale, le luci si siano spente, i riflettori pure, e Giorgio Albertazzi seguito da Micaela Esdra, finita la rappresentazione, dimessi i panni recitativi, siano andati via, come accade nel ricordato Jesus Christ Superstar di Jewison.
E se il bravissimo Albertazzi, ad un certo punto della sua presentazione di Philo Vance, nell’ambito del  primo episodio, afferra e offre alla telecamera un grosso libro appoggiato lì vicino, l’Omnibus Mondadori “Ritorna un eroe degli anni ’30, Philo Vance di Van Dine” (Omnibus in cui erano raccolte alcune delle avventure di Philo Vance in quelle traduzioni vetuste e non integrali, che avevano preceduto la ritraduzione di Pietro Ferrari), con la sua bella copertina di colore rosso, quasi a dimostrare come le storie sceneggiate non debbano essere che il rimando a quelle narrate nell’Omnibus, è anche vero, invece, che un indizio, per di più comune ai tre sceneggiati e estremamente appariscente, ci fa capire come i tre sceneggiati di Philo Vance siano più di Albertazzi che di Van Dine : è l’ assenza della spalla di Philo Vance nello sceneggiato (di colui che illustra le sue imprese, di colui che scrive, che descrive, che ci apre un mondo nelle pagine del libro), anche se questa assenza potrebbe essere spiegata in parte dalla sostituzione dello sceneggiato stesso, con le sue scene, dell’azione descrittiva nei romanzi, di Van Dine, fedele amico e consulente legale di Philo Vance, come si annuncia nella prima pagina di La strana morte del Signor Benson: “..Un breve cenno sui miei rapporti con Vance è qui necessa­rio per chiarire il mio ruolo di narratore in questa cronaca. La professione giuridica è profondamente radicata nella mia famiglia, sicché quando uscii dalla scuola preparatoria, quasi inevitabilmente venni mandato ad Harvard a studiare diritto. Fu là che conobbi Vance, una matricola dal carattere causti­co, cinico e riservato, croce dei docenti e terrore dei compa­gni di corso. Perché, fra tutti i compagni di università, lui abbia scelto me, per quel sodalizio extra-scolastico, non mi è stato del tutto chiaro. La mia simpatia si spiegava con facilità: Vance mi affascinava ed interessava offrendomi un genere inedito di diversione intellettuale. La sua inclinazione per me, tuttavia, non si basava su alcuna attrattiva del genere. Ero (e sono tuttora) una persona ordinaria, tendenzialmente conservatrice e piuttosto convenzionale. Ma perlomeno, la mia mentalità non era rigida, né si lasciava troppo impressio­nare dalla ponderosa procedura legale – motivo, senza dub­bio, del mio limitato interesse per la professione ereditata -; ed è possibile che questi miei tratti trovassero qualche rispon­denza nell’inconscio di Vance. Vi è, a dire il vero, la meno consolante spiegazione che lui fosse attratto da me come dal suo rovescio, o da un ancoraggio, quasi avvertendo, nella mia natura, un’antitesi complementare alla sua. Qualunque fosse il motivo, trascorrevamo molte ore insieme e con l’andar de­gli anni, quella comunanza sbocciò in un’inscindibile amici­zia.
Dopo la laurea, io feci ingresso nello studio legale di mio padre – Van Dine & Davis – e, dopo cinque anni di grigio apprendistato, entrai in ditta come socio più giovane. Al mo­mento, sono il secondo Van Dine dell’ufficio Van Dine, Davis e Van Dine, con sede al centoventi di Broadway. Circa all’epoca in cui il mio nome apparve per la prima volta nei fogli di carta intestata dello studio, Vance tornò dall’Europa, dove si era trattenuto durante il mio noviziato legale e, alla morte di una zia, di cui era il principale beneficiario, m’inca­ricò di adempiere le operazioni burocratiche necessarie per­ché potesse entrare in possesso dell’eredità.
Questa incombenza segnò l’inizio, fra noi, di un rapporto nuovo e, per certi versi, insolito. Vance provava una radicata ripugnanza per ogni genere di transazione commerciale, per questo motivo, col tempo, io divenni curatore di tutti i suoi interessi finanziari e suo agente in generale. Scoprii che i suoi affari erano abbastanza vari da occupare per intero la porzio­ne di tempo che io intendevo dedicare al diritto e, poiché Vance poteva permettersi il lusso di un factotum legale priva­to, per così dire, lasciai lo studio paterno e mi dedicai esclusi­vamente alle sue necessità e ai suoi capricci.
Se, fino al momento in cui il mio amico mi chiamò per discutere l’acquisto dei Cézanne, io avevo nutrito eventuali segreti o repressi rimpianti per aver privato lo studio Van Dine, Davis e Van Dine dei miei modesti talenti giuridici, essi furono definitivamente spazzati in quella mattina densa di avvenimenti; infatti a cominciare dal notorio omicidio di Benson, e per un periodo di circa quattro anni, ebbi il privile­gio di essere spettatore di quella che, a mio avviso, fu la più sorprendente serie di casi criminali mai passata davanti agli occhi di un giovane avvocato. Posso dire anzi che i tetri drammi a cui assistetti costituirono uno dei documenti segreti più sensazionali nella storia della polizia di questo paese.
Data la mia particolare amicizia con Vance, io ebbi modo non solo di prender viva parte a tutti i casi in cui lui fu coin­volto, ma anche di essere presente alla maggior parte delle discussioni informali a loro riguardo, intercorse tra il mio amico e il procuratore distrettuale; essendo inoltre metodico per temperamento, ne tenni una registrazione pressoché inte­grale.
Annotai anche (per quanto mi fu possibile) gli originali me­todi psicologici che Vance usava per individuare il colpevole, così come lui me li spiegò di tanto in tanto. È una vera fortu­na che io abbia svolto quest’opera gratuita di accumulazione e trascrizione, poiché, ora che le circostanze mi hanno ina­spettatamente concesso di render quei casi di pubblico domi­nio, posso presentarli in tutti i particolari, completi di tutte le loro informazioni suppletive e nel loro graduale svolgimento, un compito impossibile, non fosse stato per i miei numerosi appunti e adversaria”(S.S. Van Dine, La strana morte del Signor Benson, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992,  trad. Pietro Ferrari, pagg. 7,8,9).
 Ma siccome S.S. Van Dine (nominativo ottenuto da “S.S.” somma delle lettere iniziali di Smart Set, una rivista cui lo stesso Wright aveva collaborato precedentemente, con “Van Dine”, ricordo di Van Dyck, grande pittore del seicento, fiammingo, pittore della corte d’Inghilterra, che si assomigliava abbastanza con Wright stesso) è anche  l’autore delle storie, la sua mancanza nella serie dei tre sceneggiati, ci può far capire anche altro: cioè che, forse, questo Philo Vance, più che rimandare a Van Dine, sia il Philo Vance di Marco Leto, di Biagio Proietti e  Belisario L. Randone. Insomma, il Philo Vance di Giorgio Albertazzi.

Pietro De Palma

domenica 25 marzo 2018

Il Philo Vance di Giorgio Albertazzi: un trionfo della RAI di un tempo


 


La canarina assassinata è in certo modo meno problematica, meno cerebrale del terzo capitolo, La Fine dei Greene. E anche nell’ambito dei tre sceneggiati, tutto ciò si nota. Purtuttavia, nel corso delle tre avventure interpretate da Albertazzi, l’interprete riesce, proprio in un inciso de La Canarina assassinata, all’inizio, a rivelare con la sua straordinaria arte drammatica la natura nascosta di Philo Vance, la sua anima problematica e sensibile, che volutamente copre con una maschera di cinismo.
Il passo trova la sua collocazione all’annuncio della morte della “canarina”, fattagli dal Procuratore Markham. Vance è in chimono (rosso? Il bianco nero fa supporre il colore ma non ne da certezza), ed è di spalle. Si volta, la telecamera fa un primo piano del volto di Albertazzi, col monocolo incastonato nell’orbita. Esso è forse il solo brano in cui l’interpretazione è volutamente tetra: “Me la ricordo in un ballo che definirei..ornitologico, adatto alle follie, in un locale di second’ordine. Indossava un costume di piume giallo, intornato ai suoi capelli biondi”.
Per ammirare e potersi fare un’idea dell’aristocrazia scenica di Albertazzi, che è anche aristocrazia intellettuale, si veda per esempio l’etereo “L’année dernière à Marienbad” di Alan Resnais di qualche anno prima: se proprio quell’Albertazzi avesse interpretato Philo Vance, a parer mio, sarebbe stata un’interpretazione forse maggiormente interessante. Tanto più che quando girò il film di Resnais si può dire che anche come età sua, fosse molto vicino alla figura di carta. Infatti, all’inizio de La canarina assassinata, vien riportato che “Philo Vance non aveva ancora compiuto trentacinque anni”, e quando girò il suo film Resnais, Albertazzi più o meno tanti ne aveva. Non invece quando interpretò il Philo Vance televisivo. Non è un’osservazione da poco: in quanto cinquantenne, non si sarebbe mai vestito come si veste il più giovane Philo Vance. Almeno così la penso io; ma neanche forse avrebbe interpretato il suo personaggio allo stesso modo. Di solito, man mano che l’età avanza, ci si modera.
Direi che in questo caso la resa televisiva abbia sorpassato quella romanzesca: infatti, le parole che nello sceneggiato vengono pronunciate da Vance, quasi un epitaffio recitato ricordando “La canarina”, originariamente trovano spazio proprio all’inizio del romanzo, nel primo capitolo, quando il ricordo del caso non è stato ancora affrontato ma solo accennato: “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto orni­tologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della ca­narina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e ro­sea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu pro­mossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone1 interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.
Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luo­ghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popo­larmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo apparta­mento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7). Ecco allora spiegato il nome di “Canarina”, dato alla sfortunata Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B.
Faccio tuttavia notare una cosa che mi si è mostrata lampante e a cui anni fa, quando lessi per la prima volta il romanzo, non detti importanza : la somiglianza, sicuramente non casuale, tra Margaret Odell, ballerina in rapida ascesa, e la Principessa Odette, interprete del famoso balletto musicato da Tchaikowsky, “Il lago dei cigni”.
Odette-Odell, non sono solo due parole molto simili, ma sono anche collegabili, la prima alla seconda, anche per il fatto che si richiamano a due volatili: una canarina e un cigno. E ovviamente, sono due ballerine, anche se diversamente, quasi in maniera antitetica: per la prima dal dramma scaturisce il ballo (la Principessa Odette), per l’altra è il dramma che scaturisce dal ballo: infatti, Odell aspira ad una posizione sociale diversa da quella di una ballerina, e il dramma del suo assassinio deriverà dalle amicizie che lei ha costruito sulla sua attività di ballerina.
Prima d’ora, nessuno che io sappia, aveva posto a confronto Odette e Odell. Eppure, credo che la somiglianza tra Odell-Odette non sia affatto casuale: Odell è una Canarina, Odette è un cigno ed entrambe si trasformano di sera, perchè in entrambe c’è un doppio: principessa- cigno in Odette, canarina-donna della buona società in Odell; ed entramebe aspirano ad identificarsi e ad essere associate al loro doppio umano: Odell si serve della sua carriera di ballerina, in quanto canarina, per arrivare ad una posizione sociale rispettabile; Odette vuole abbandonare la propria natura di cigno a fronte dell’appropriarsi in toto della sua natura umana. E in entrambe c’è un uomo,che dovrebbe mediare la loro trasformazione: solo che per Odette la dualità tra il principe ed il mago, viene risolta a favore del primo; per Odell è il mago che vince. E vince con un’autentica magia: quella che giustifica l’avento impossibile di una voce che non vi dovrebbe essere. Tuttavia, Odette e Odell, sono raffrontabili solo attraverso un’ altra personalità: Odile. Così abbiamo : Odell che si avvicina moltissimo ora a Odile, e Odette: Odell – Odile – Odette. Attraverso la mediazione di Odile, la figlia del mago, rappresentata nel balletto, dal cigno nero, possiamo veramente ora capire il tentativo di Odell di trasformarsi in Odette: nel balletto, a rappresentare Odile e Odette è la stessa ballerina, così da far capire come una stessa persona a seconda di mutevoli condizioni possa essere vista in modi differenti. Così, come Odile è la principessa nera, quella che in virtù della magia del padre, ambirebbe a esser scambiata in Odette da Siegfred, così Odell vorrebbe essere trasformata da ballerina di varietà, ammirata ma niente più di tanto, a donna rispettata della buona società. E così la parabola di Odell-Odile potrebbe essere spiegata come la parabola di un canarino che ambisce a diventare il cigno-Odette, non perchè lo diventi in realtà ma perchè Siegfred la veda trasformata. Solo che Odell come Odile finisce la sua storia allorquando Siegfred non la vede più come cigno, trasformazione, ma quello che è: una donna che voleva diventare altro, ricorrendo anche al sotterfugio: Odile grazie alle arti magiche del padre, Odell grazie al ricatto.
A parte ciò, è da notare la curiosa esibizione della canarina sul palco del locale: Odell-Virna Lisi, splendida (non aveva ancora quarant’anni), canta seduta su un’altalena (anche nelle gabbie dei canarini ce ne sono), mentre delle ballerine la attorniano: quello che vorrei far notare è come le ballerine indossino degli improbabili pantaloncini, tipo shorts, che sicuramente in quel tempo (ricordiamo che La canarina assassinata è del 1927) non ci si sarebbe mai sognato di indossare. Avendo infatti il balletto una certa connotazione erotica, si sarebbe mostrato qualcosa in più che tuttavia la RAI di quegli anni non si sarebbe mai sognata di autorizzare.
Altra cosa che è censurata, nello sceneggiato, è la morte: se ora siamo abituati ad assistere a ben altro (vedasi per es. la serie Bones), in uno sceneggiato RAI in cui la censura era in agguato, non ci si sarebbe mai sognati di rappresentare la morte nella sua crudezza: se infatti in La strana morte del signor Benson, la macchia di sangue e materia cerebrale che il proiettile alla testa ha provocato sul tappeto, nell’originale televisivo non si vede, altrettanto accade in occasione della ripresa del corpo della povera Odell, la cui rappresentazione nel romanzo è palesemente cruda :”..La testa era voltata all’indietro..i capelli, sciolti, pendevano dietro la nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato. La faccia, distorta dalla morte violenta, aveva perso ogni bellezza; la pelle era terrea, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata..” (S.S. Van Dine, “La canarina Assassinata”, op. cit., pag. 22 ), mentre nello sceneggiato semplicemente non si vede nulla, giacchè la vittima è presentata adagiata supina sul divano.
Non è tuttavia la sola cosa che viene mutata della morte. Infatti, Van Dine, quando l’assassino è secondo lui un pazzo (ma aveva le sue ragioni lucide per agire, nell’alveo della sua pazzia, è ovvio!) oppure non avrebbe avuto altra possibile via d’uscita se non uccidere, gli concede una via di fuga dalla condanna a morte e dallo scandalo del processo: il suicidio. Così concede che l’omicida de La Canarina si uccida (il finale viene mantenuto nello sceneggiato) e Philo Vance lo permetta, oppure che l’omicida responsabile dell’ecatombe di Casa Greene, si uccida col cianuro: questa volta Vance nel romanzo cercherà di impedire la morte non riuscendovi, mentre nello sceneggiato semplicemente non c’è: infatti l’omicida finirà in manicomio. Il perché Vance non intervenga nel primo caso e invece nel secondo lo faccia, è dovuto al fatto, secondo noi, che nel primo l’assassinio sia compiuto, pur in condizioni eccezionali, cioè per evitare uno scandalo, da una persona nel pieno possesso delle sue condizioni psico-fisiche, mentre nel secondo, no. Fatto sta, tuttavia che in tutti i casi, la vicenda viene notevolmente alleggerita nello sceneggiato, a confronto con la stesura originale del romanzo. Vediamo, che in alcuni casi, cambia completamente lo spirito che fa da sfondo, per non dire altro.

Pietro De Palma