Di John Innes Mackintosh Stewart abbiamo già parlato
quando abbiamo analizzato l’unico romanzo pubblicato da Mondadori, “Meglio
erede che morto” (The Gay Phoenix, 1976).
Quindi..tireremo innanzi. Tuttavia, rimarchiamo la pochezza dei romanzi di
questo straordinario autore britannico pubblicati in Italia a fronte dei molti
invece tradotti di Nicholas Blake (pseudonimo di Cecil Day-Lewis, e come lui,
cattedratico: solo 5. Un po’ poco, se si considera la grande qualità di
questo romanziere.
Nel 1975 fu pubblicato da Rizzoli, nell’ambito della
sua collana “I Gialli di Qualità” (comprendente tra l’altro, oltre a Innes,
altri ottimi scrittori, talora assolutamente sconosciuti in Italia), “Delitto
ad Elvedon Court” (Appleby’s Other Story,
1974). E’ un’altra avventura di Appleby, anche questa volta piuttosto
tarda. E’ curioso rammentare come i romanzi di Innes siano stati pubblicati in
Italia solo a partire dagli anni settanta, e, cosa ancora più curiosa, sono
stati pubblicati suoi romanzi allora relativamente recenti, come se i
precedenti romanzi della sua produzione, quelli più rinomati, soprattutto i
primi quattro, Death at the President’s Lodging (1936) conosciuto anche
come Seven Suspects; Hamlet, Revenge! (1937); Lament for
a Maker (1938); Stop Press (1939; anche come The Spider Strikes),
e i molti ottimi, tra cui altre eccellenze, non fossero mai stati stampati. Una
cosa ben strana!
Il primo romanzo di Innes ad essere pubblicato in
Italia, nell’agosto 1966, fu “La moglie immortale” (The New Sonia Wayward,1960), nell’ambito della collana Feltrinelli
“Il Brivido e l’avventura”. Seguirono “Per quarantott’ore silenzio” ( Silence Observed, 1961) pubblicato nel
1972 dalle Edizioni Paoline; poi quello che presento oggi; ed infine il romanzo
pubblicato da Mondadori nel 1976, “Meglio erede che morto” (The Gay Phoenix, 1975). Qualche anno fa,
anche Polillo ha voluto dire la sua, pubblicando l’opera prima di Innes, “Morte
nello studio del rettore”, Death at the
President’s Lodging (1936).
“Delitto ad Elvedon Court” comincia con un omicidio.
John Appleby ex Commissario Capo ora in pensione,
assieme al suo amico Colonnello Tommy Pride, Capo della Polizia di Contea, si
sta recando ad Elvedon Court, antica residenza di campagna, di proprietà di
Maurice Tytherton, uomo d’affari e grande collezionista di quadri. Il segreto
intendimento di Pride, che ha allegramente coinvolto Appleby, ben contento di
risvegliarsi dal torpore della pensione, è quello di ottenere un parere
dall’amico in merito ad una faccenda avvenuta qualche anno prima: la scomparsa
di alcuni quadri di valore dalla magione di Elvedon Court, ben pagata dalla
assicurazione di turno. Comunque a Pride qualcosa non quadra in quella
sparizione e così i due si stanno recando dal collezionista. Sfortuna vuole che
lo trovino già morto e stecchito: è stato ammazzato nella notte con un colpo di
pistola, all’interno del suo studio.
Pride, chiede ad Appleby, con la benevolenza
dell’Ispettore Henderson, ben contento di ottenere una consulenza prestigiosa
come quella dell’ex Commissario, di occuparsene discretamente.
L’ambiente in cui la polizia deve muoversi è nebuloso,
ben oltre le più rosee aspettative: gli abitanti della casa, dai familiari ai
domestici, sono quanto di più infido possa esistere.
La moglie di secondo letto di Maurice Tytherton,
Alice, è bellissima ma gelida e distante: è interessata al buon nome della
proprietà, ad essere ben considerata dalla società, e sfrutta le sostanze del
marito in maniera considerevole, vivendo agiatamente. Per quanto si sappia i
suoi rapporti col marito sono freddi: il marito ha un’amante, Cynthia Graves,
una tipa di assai dubbia moralità, una cortigiana di lusso, una mantenuta
insomma, che non disdegna di riscaldare il letto non solo dell’amante ma anche
del nipote di questi, Archie, altro tipo debosciato, la cui attività preferita
è quella di fare sesso con chiunque tizia gli capiti a tiro, comprese le
cameriere; ma anche lei, Cynthia, in fondo, non ha perso tempo: ha una
relazione extraconiugale col Dottor Carter, eminente chirurgo. Insomma una
famiglia in cui “le corna” sono vicendevoli e anche ben conosciute.
Oltre agli stretti familiari, altri personaggi strani
si muovono nella casa: Raffaello, strano mediatore di opere d’arte, dalla
fedina penale non proprio immacolata, coinvolto nel passato di Appleby in
inchieste riguardanti sparizioni di opere d’arte e ricettazione, che si aggira
nelle enormi e molteplici stanze della villa, pare invitato dallo stesso
padrone di casa; Miss Kentwell, altro strano personaggio, la cui occupazione
sembra essere quella di spillare soldi per beneficenza; e infine il
maggiordomo, Catmull, e la sua consorte, entrambi viscidi, molto interessati
alle proprietà di casa, e pettegoli. Infine c’è anche il figliol prodigo,
appena tornato a casa, Mark, unico figlio di Maurice, che Appleby trova nel
bosco attorno alla casa, e che pare sia stato a casa la sera prima poco prima
che suo padre fosse ucciso, e che avesse avuto con lui una furiosa lite,
conclusasi con la fuga nel bosco. Il motivo di tanto astio? I gioielli della
madre, prima moglie di Maurice, monili di gran valore, tra cui una parure di
diamanti, che in quanto di sua proprietà e non donategli dal marito, dovrebbero
essere propri del figlio ed invece sono finiti, nonostante le aspirazioni a
possederli da parte di Alice, nelle mani della puttana di Maurice, Cynthia, che
in ogni occasione non perde mai occasione di far capire come per lei il sesso
sia un’occupazione e una possibilità di successo.
Oltre a questi “esempi di moralità”, altri due
personaggi girano nel tourbillon dell’entourage: il vicario Voysey, e il
segretario di Maurice, Ronnie Ramsden, altro personaggio alquanto ambiguo.
Le indagini di Appleby e Harrison si presentano subito
alquanto complesse: Ramsden e Miss Kentwell, hanno la sera prima fatto un giro
nella casa, con destinazione i tetti, salendo e discendendo scale interne, per
godersi la luna piena. Prima si sono affacciati nello studio al primo piano,
non trovandovi Maurice Tytherton, poi, quando sono ridiscesi, lo hanno trovato
morto: particolare curioso è il vassoio col brandy che invece di trovarsi sulla
mensola del caminetto è in altro posto come se Maurice avesse ricevuto una
visita. Inoltre, la prima volta che sono entrati nello studio, si è sentito
l’urlo di un pavone, e affacciandosi lo hanno visto stazionare sulla testa
della statua di Ermete, proprio sotto la finestra, mentre la seconda volta non
l’hanno sentito.
Il lasso di tempo è di venti minuti, in cui chiunque
della casa avrebbe potuto compere il delitto senza essere visto: i due che
verosimilmente, per quanto detto, sono esclusi a priori sono Ramsden e Kentwell,
che in quanto assieme, forniscono ognuno all’altro un alibi inattaccabile
(sempre però che non l’abbiano ucciso assieme!). Comunque sia non si capisce
per quale motivo avrebbe dovuto sopprimere il suo padrone Ramsden, e ancor più
la Kentwell che è apparentemente in quella casa per reperire fondi di
beneficenza: avrebbe dovuto uccidere “la sua gallina dalle uova d’oro”. Per
quale motivo?
Appleby comincia ad indagare. E ben presto capisce che
ognuno dei soggetti di questo dramma presenta due o tre diverse facce, ognuno
mentendo e nello stesso tempo presentando le verità che più fanno comodo. E
capisce che tra i vari moventi: gelosia (nei confronti del nipote o della
moglie: Maurice aveva chiesto il pomeriggio stesso della sua morte, al suo
legale, di cambiare il testamento), cambiamento del testamento (nipote, moglie,
figlio), possesso dei gioielli della moglie (figlio, moglie, amante), quadri
rubati (Raffaello), icone sottratte all’URSS e finite nelle mani di Maurice, e
del cui ritrovamento si occupa Miss Kentwell, detective privata sotto mentite
spoglie, la cui doppia occupazione in quella casa era quella di controllare
Alice per parte del marito, per comprovarne il tradimento e nel tempo stesso
cercare le icone rubate, di nascosto a Maurice, una doppiogiochista scaltra e
furba, il movente determinante è quello delle opere d’arte. E nell’arco di un
giorno perviene alla soluzione del caso, dopo aver fatto il giro dell’immensa
villa e aver visitato tutte le stanze e i piani e persino esser stato nelle soffitte;
dopo aver trovato della carta stracciata, nel locale deputato alla spazzatura;
dopo aver sentito del grido di un pavone, nella notte dell’omicidio; dopo aver
trovato le icone rubate, dietro a degli innocenti quadretti.
Ci troviamo dinanzi ad un romanzo di altissima classe,
con una tensione che non si allenta un attimo. Varie sono le caratteristiche
che individuo.
Innanzitutto l’assenza di un prologo, di una parte
introduttiva al delitto: Innes, pur essendo un puro britannico, e quindi
inserito nel filone della detective story di marca anglosassone, alla Christie
o alla Heyer insomma, si comporta invece come soleva fare Carr: inserire il
proprio personaggio a delitto avvenuto, il più delle volte, estraneo al
contesto in cui è maturato il delitto, imparziale, “super homines” e quindi in
grado di valutare le mezze verità anche come mezze bugie.
Poi la presenza di figure retoriche sparse qua e là,
tra cui alcune rappresentazioni allegoriche molto efficaci.
John Innes Mackintosh Stewart era un cattedratico
di grande cultura umanistica, qualità che si poteva apprezzare nella tendenza
più volte espressa nei suoi romanzi, al riferimento letterario di opere di
autori latini e britannici del passato: anche qui, ogni tanto, emergono le sue
conoscenze letterarie.
All’inizio del romanzo, c’è un passo emblematico: “Il boschetto ammicca al boschetto, ogni
sentiero ha il suo gemello, e metà della piattaforma rispecchia l’altra metà”,
che il lettore non molto curioso, potrebbe falsamente attribuire a William
Blake che viene citato qualche rigo più sotto, e che soprattutto potrebbe
attribuire ad uno sfoggio assolutamente vanitoso di cultura poetica.
In
realtà, “Grove nods at grove, each alley
has a brother,
And half the platform just reflects the other” , che è un passo tratto da “Epistles to Several Persons: Epistle IV, To Richard Boyle” (Moral Essays, ep. IV, l. 117) di Alexander Pope, a parere mio sottende ad altro ragionamento.
And half the platform just reflects the other” , che è un passo tratto da “Epistles to Several Persons: Epistle IV, To Richard Boyle” (Moral Essays, ep. IV, l. 117) di Alexander Pope, a parere mio sottende ad altro ragionamento.
Come avevo supposto per The Gay Phoenix, anche qui Michael Innes sfrutta le sue conoscenze
umanistiche utilizzandole anche in preziosismi lessicali ed enigmatici
riferimenti, che, quando inserite nel dialogo, mai sono avulse dal contesto del
plot ma anzi anticipano la natura della rivelazione e le deduzioni successive.
Così, se il titolo del romanzo del 1975 alludeva non tanto ad una qualità della
Fenice quanto ad una sottile allusione alla natura omosessuale di uno dei
protagonisti, così anche qui in più occasioni, Innes si serve di figure
retoriche per rivelare talune caratteristiche del plot. L’allegoria che
è insita nel distico di Pope, può esser riferita oltre che alla doppiezza
psicologica dei personaggi, anche alla doppia natura di una caratteristica del
plot che sarà alla base della rivelazione finale. Non credo proprio sia una mia
personale supposizione, tant’è vero che l’inizio del distico “Grove nods at grove” viene ripetuto più
in là nel prosieguo del romanzo, quasi a cadenzarne il significato nascosto.
Tuttavia Innes inserisce altre figure retoriche nella
tessitura narrativa del romanzo: una similitudine tra il modo di
sbucciare la mela del reverendo Voysey e la leggiadria con cui sale la rampa
delle scale di Elvedon Court: “Gli
rammentava assurdamente il modo in cui il reverendo Voysey aveva sbucciato la
mela, con tanta delicatezza, tanto elegante era la sua aggraziata spirale in
pietra di Bath finemente intagliata” (cap.4 pag 75); oppure un’altra
allegoria, quella riferita al sogno di Archie: “Il tavolo da biliardo diventava sempre più grande e così le stecche. E
le palle alla fine erano come palle da cannone, e lui doveva continuamente
farle sbattere di qua e di là, freneticamente” (cap. 3 pag. 41). In questo
caso l’allegoria è chiara, a parere mio: alluderebbe ad una rappresentazione
dell’amplesso, in una figurazione anche piuttosto oscena: il tavolo da biliardo
potrebbe essere l’amante o il letto, le stecche sono spesso rappresentazioni
figurate del membro maschile,le palle dei testicoli. Il loro movimento
frenetico figurativamente esprime proprio la foga di un amplesso, in una
rappresentazione estremamente plastica.
E anche descrive meravigliosamente la figura di
Archie, legando la comprensione della sua natura psicologica ad una
rappresentazione che è anche visiva, esplicativa nella sua volgarità e
associabile ad un tipo di persona particolare.
Un passo celebrativo è quello presente nel cap.4 della
traduzione italiana del libro, pag.92:
“Tenete alte le vostre spade lucenti o la rugiada le
farà arrugginire”. Il distico è riferito al celebre discorso che l’Otello
di Shakespeare fa e che in inglese recita: “Keep up your bright swords, for
the dew will rust them” (William Shakespeare : Othello, Atto 1, Scena
II, verso 60).
Il matterello levato in aria dalla moglie del
maggiordomo Catmull e pronto a colpire, richiama la spada levata in aria da
Otello. Qui l’immagine epica del discorso shakespeariano, assume un tono
assolutamente e volutamente più ruspante: perché al guerriero del mare è
contrapposta una guerriera della cucina. La rugiada, che come si sa si posa sui
fiori e sull’erba, quindi su qualcosa che è in basso. Se non si usa sovente la
spada, quella resterà inoperosa, infilata nel fodero, e potrà correre il
rischio di arrugginirsi. Se invece la si usa, combattendo, essa non potrà
arrugginirsi, perché sarà sempre usata, e quindi pulita e affilata.
Altra figura retorica che mi appare è la
circonlocuzione: la frase presa in esame è
“L’assoluta inutilità dei regni sommersi”, a pag. 114 del cap. 6^ del romanzo
nella versione italiana, con cui Appleby commenta tra sé e sé il suo errare
nelle soffitte di Elvedon Court. Comunque sia, la frase nella sua versione
originale è “The superannuations of sunk
realms”, ha significato ben diverso dalla sua resa in italiano, direi
alquanto strana: infatti, se volessi letteralmente tradurre il verso inglese,
che è tratto da “The Fall of Hyperion – A dream” di John Keats (1, 66),
scriverei “L’obsolescenza (o il pensionamento) di reami irrecuperabili”.
Solo in questa resa si potrebbe apprezzare il senso della perifrasi citata da
Innes perché in questo caso meglio si accorderebbe con una soffitta polverosa
in cui sono accatastate tante cose oramai messe in pensione perchè non più
utilizzabili oppure passate di moda.
Tuttavia queste figure retoriche ed espressioni, che
ogni tanto si incontrano, hanno tutte un’aria molto ironica, classica
estrinsecazione dell’humour britannico, una risata a denti stretti, che sgrava
la tensione, mitigandola con la battuta dell’uomo colto.
Il risultato nella sua complessità, è una scrittura
non molto facile da interpretare, preziosa nei suoi giochi di parole, nei suoi
significati, molto spesso doppi, difficile e quindi anche lenta nel suo
incedere, assimilabile a quella lentezza dell’incedere con cui una persona
anziana, come Appleby, si muove e parla: insomma una similitudine nascosta
nella stessa natura stilistica del modo di scrivere..
Altro significato nascosto mi parrebbe essere il
riferimento all’urlo del pavone appollaiato sulla testa della statua di
Hermes: come lo stesso Innes dice, citando la natura di Psicopompo di Hermes: “ E’ Ermes, signorina Kentwell. Conduce le
anime dei morti nell’Ade, ed è perciò indicato con l’attributo di psychopompos
dagli antichi greci…con un chiaro di luna come quello vedemmo subito di che si
trattava: il grido era stato lanciato da un pavone, appollaiato sulla testa
della statua.” (pag.101, cap.5). Infatti Hermes era l’accompagnatore degli
spiriti dei morti, nel viaggio per il mondo sotterraneo dell’aldilà: quindi, il
riferimento di Hermes e del pavone, sarebbe un’allusione ricercata: il pavone
che urla (di notte, anche l’upupa urla, ed è un simbolo di morte), appollaiato
sulla testa di una divinità , con valenza di divinità dell’oltretomba,
alluderebbe alla morte di qualcuno, in questo caso di Maurice. In altre parole,
quando il pavone urla appollaiato sulla testa della statua di Hermes, Maurice è
già morto e Hermes lo sta conducendo nel Regno dei Morti.
Tuttavia, la classe di Innes sta nel servirsi di
queste sottigliezze della pratica poetica, e di queste citazioni dotte, non
come abbiamo detto prima, per sfoggiare solamente la propria cultura, ma
soprattutto per sottolineare talune caratteristiche del romanzo. In questo,
quindi, ancora una volta, il romanzo rivela dei tesori, non così palesi alla
prima interpretazione.
Il romanzo infine possiede anche delle citazioni molto
significative, di autori polizieschi: esse sono manifeste, quando cita “Il problema sul ponte della Thor” di
Conan Doyle da Il taccuino di Sherlock
Holmes, e celate, quando molto probabilmente si rifa nella soluzione, ad un
celeberrimo racconto di John Dickson Carr.
Pietro De Palma
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