sabato 28 ottobre 2017

Rex Stout – Alta cucina (Too Many Cooks, 1938) – trad. Gianni Montanari – I Classici del Giallo Mondadori N. 659 del 1992

Rex Stout è stato uno dei grandi romanzieri americani del ‘900, che oggi vive una specie di letargo, almeno in Mondadori. Motivi? Non so, probabilmente è che oggi, almeno in Italia, stiamo rivivendo una renaissance del Mystery e Stout non appare un grande esponente di quel genere, e non certo da porre sullo stesso piano di Carr. Però ha molti caratteri interessanti che vale la pena inquadrare.
Indubbiamente, uno di quelli che ha contribuito in certo senso a creargli una patina ambigua, è stato il giudizio di qualche critico, secondo cui Stout sarebbe una via di mezzo tra il Mystery e l’Hard-Boiled americano, una specie di Craig Rice o Jonathan Latimer, non essendo né l’uno né l’altro: Stout non ha mai dei plot entusiasmanti, come siamo portati a trovarne in Van Dine o in Queen o in Carr che pure sono americani seppure con sfumature diverse, tranne in qualche romanzo dei primi, fino all’inizio degli anni ’40, ma pure così i plot non sono mai capaci di catturare l’interesse. E nello stesso tempo, se fosse un Hard-Boiled ci dovrebbe essere violenza, e in Stout non ce n’è. Eppure, Stout piace. Perché? Perchè secondo me ha delle nuances che lo avvicinano ad alcuni grandi esponenti del Giallo Americano degli anni ’30, pur mantenendo una propria indipendenza stilistica. In particolare, il carattere che più si mette in risalto quando si parla di Stout è la sua vena vandiniana originale, o almeno la sua tendenza ad imitare qualcuna delle caratteristiche peculiari di Van Dine. Quali?
Stout inventa il suo personaggio principale, Nero Wolfe (Wolfe è chiaramente riferito a Wolf= Lupo, che è animale pericoloso ma solitario, che rifiuta l’uomo, così come Wolfe, esce raramente da casa sua, vivendo in una sorta di ghetto dorato e volontario) guardando chiaramente a Philo Vance: in questo, non poteva certamente non tenerne conto, visto che il suo primo tentativo in tal senso è Fer-de-Lance,“La traccia del serpente”, che è del 1934, tempo in cui ancora furoreggiava Van Dine. Abbiamo assistito anche noi qualche anno fa alla tendenza di imitare lo stile di qualcuno in Italia per avere successo: ne parlavo con Stefano Di Marino in un Blog, non mi ricordo quale, forse anche quello Mondadori, ma non ricordo bene, a proposito del fatto che anni fa c’era parecchia gente che per avere successo imitava il suo stile, creando cloni per esempio di Montecristo. Lui ha riconosciuto, che a mente fredda, questo accumulo di materiale eterogeneo ha finito per danneggiarlo, anche se lui, nella spinta dell’euforia, quando era e si sentiva un leader carismatico, ne difendeva la portata. Ecco questo è quanto accadde anche a Van Dine: ci fu parecchia gente che, spinta dalla necessità di farsi conoscere, cercò di emularne lo stile, creando una serie di cloni di Philo Vance, non sempre con risultati pari alle aspettative. Un esempio? Per esempio il protagonista di The Death in the Dark di Stacey Bishop (George Antheil) che è chiaramente un clone di Vance, ed anche il romanzo, tradotto in Italia come La morte nel buio (e recensito in questo Blog anni fa) ne ricorda uno in particolare: Antheil sperava di avere più successo di quanto ne ebbe, se è vero che questo piccolo capolavoro è rimasto sotterrato nelle pieghe del tempo per così tanto tempo.
Stout fu uno di questi autori à la mode, come il primo Queen, Charles Daly King, Rufus Gillmore, Anthony Abbot, la Tillett, Clason. Tuttavia, se in questi autori le caratteristiche dei personaggi principali, almeno nei primi romanzi sono esasperatamente accostabili a quelle di Philo Vance (come non pensare al De Puyster, personaggio dei primi racconti di Rufus King, così vicino a Philo Vance, anche nel tempo di apparizione da far pensare che proprio Vance sia derivato da esso?), in Stout sono più velate: è questo il dato più interessante: è come se fossimo costretti ad una caccia al tesoro nei suoi romanzi, alla ricerca di queste somiglianze, come se il lettore fosse egli stesso il detective, in una indagine che è parallela a quella principale ed ovvia in un poliziesco, ma nascosta.
Uno dei romanzi più interessanti della prima produzione stoutiana è il romanzo che mi accingo qui ad analizzare: “Alta cucina” (Too Many Cooks, 1938).
La trama è quantomeno singolare: Nero Wolfe viene invitato, come esperto indipendente, a tenere una relazione nel corso della riunione de Les Quinze Maitres, che si svolge ogni cinque anni, e che vede appunto la partecipazione dei quindici migliori chef al mondo, tutti riuniti questa volta presso la struttura dell’Hotel delle Terme Kanawha.
Mentre vi giunge in treno (e già questo è una prova terribile per Wolfe che è abituato a vivere da solo, nel suo splendido appartamento, tra la cura delle orchidee, e le portate sopraffine del suo cuoco di fiducia, soprattutto in virtù della sua considerevole mole fisica), Wolfe, che è amico di Marko Vuksic, uno dei quindici chef, viene presentato a Jerome Berin, il famoso chef inventore di uno dei piatti più mitici, Le Salsicce Mezzanotte,  la cui contraffazione è stata sempre estremamente ardua, nonostante la semplicità degli ingredienti: Nero Wolfe tenta in tutti i modi di convincerlo, di adularlo, di tentarlo, al fine di ottenerne la ricetta per poterla gustare lui solo, nel suo eremitaggio, non facendosela nemmeno preparare dal suo cuoco, per non divulgarla. Ma non ci riesce. Tuttavia in questo primo colloquio Wolfe capta che c’è più di uno, tra i partecipanti a quella singolare riunione, a nutrire sentimenti non certo di fraternità cristiana nei confronti di John Lazlo, chef dell’Hotel Churchill di Londra, a causa della condotta avventurosa di questi che non ha mai rinunciato a fare dello spionaggio nei confronti dei suoi colleghi al fine di carpirne le ricette migliori o a rubare i loro assistenti più promettenti. Così Lazlo non si è fatto certamente degli amici. Non ha nemmeno eccellenti rapporti col suocero, lo chef italiano Dino Rossi, la cui figlia ha rubato al primo marito, Vuksic, amico di Wolfe.
Alla riunione, si scatenano le vene creative de I Quindici che cominciano a ingurgitare, tracannare e apprezzare le tante proposte culinarie: gli anatroccoli, le ostriche, le tartarughe di acqua dolce, e chi più ne ha più ne metta. Il fattaccio si verifica quando affrontano i piccioni: Les Quinze Maitres secondo un ordine prefissato, dovranno tagliare i piccioni e gustarli accompagnandoli alla Salsa Primavera, una creazione di Lazlo, cercando di riconoscerne tutti gli ingredienti, ognuno in separata sede dagli altri, nella Stanza da pranzo dell’Hotel. Tutto va bene finchè si arriva a Berin e Vuksic. Infatti, tra l’entrata del primo e quella del secondo, Lazlo scompare dalla Sala da Pranzo: quando entra Berin c’è ancora, quando invece è la volta di Vuksic, egli non lo vede, ma non ne avverte la mancanza, visti i pessimi rapporti comuni; qualche minuto dopo, tuttavia, è Nero Wolfe, ammesso anche lui alla prova, a scoprirne il cadavere, dietro un paravento, già bello stecchito come una salsiccia, ucciso con una coltellata nel fianco, inferta con uno dei due coltelli usarti per tagliare i piccioni.
Il Sostituto Procuratore Distrettuale Tolman, alla prima esperienza, non vuole sbagliare, perché, lo capisce subito, sarebbe controindicativo sbagliare e fregarsi la carriera futura: pertanto cerca di blandire Nero Wolfe, anche tramite lo sceriffo, a dare una mano, ma non ricevendo inizialmente alcun aiuto. Nero, pur protestando la sua innocenza, riconosciuta anche in virtù della fama raggiunta con la risoluzione di casi precedenti, e della considerazione generale, non si sente minimamente coinvolto nel caso, e anzi vuole andare via il più presto possibile per ritornare nella pace del suo appartamento dopo aver tenuto la sua relazione a difesa della gastronomia americana troppo bistrattata da altre più rinomate in sede internazionale. Tuttavia avverrà qualcosa che ne farà mutare la condotta.
Infatti, basandosi sull’odio reciproco, e quindi sulla esistenza di un movente, pur non avendo prove incontrovertibili, dovendo pure arrestare qualcuno, il Sostituto Procuratore fà trarre in arresto Berin. Per Nero, chiamato in causa dalla di lui figlia, Costanza, sarebbe il modo di trarne beneficio, facendosi rivelare la ricetta delle Salsicce. Così si mette alla caccia dell’assassino, cercando innanzitutto le prove dell’innocenza di Jerome, e cercando ricostruire la dinamica dell’assassinio.
Inoltre, mentre Wolfe ricostruisce la vicenda, l’assassino fuggito senza che la polizia avesse minimamente fatto il benchè minimo tentativo di cercare dia cciuffarlo lì per lì, pur avvisata tempestivamente da Wolfe e dal suo assitente Archie Gooldwin, non sapendo che Wolfe ha rifiutato di aiutare Sceriffo e Giudice nel ricostruire la verità, temendo che riesca a individuarlo, tenta di ucciderlo, sparandogli dalla finestra, a distanza ravvicinata, protetto dal buio della notte, ma Archie, col suo sesto senso, avvertendo una presenza vicina, riesce a deviare la traiettoria del proiettile lanciando davanti alla finestra, prima che che il colpo parta, una frazione prima, il blocco degli appunti nei quali è scritta la relazione di Wolfe da tenersi davanti a Les Quinze, in realtà dieci, perché due non sono venuti e tre..sono defunti prima che si arrivasse alla riunione.
Ben presto Wolfe mette in relazione l’assassinio con il rumore della radio, alla cui musica diffusa, Vuksic ha esitato ad entrare nella sala dove avrebbe dovuto sottoporsi alla prova, tentato dalla sua ex-moglie; ricostruisce i movimenti delle singole persone che tutte quante negano di essersi avvicinate alla Sala da Pranzo, ed invece beccandone una, Leo, moglie di Lawrence Coyne, un altro dei Quinze, che afferma di essersi ferita un dito nella mano chiudendo una porta invece di un’altra e venendo smascherata dalle rivelazioni del personale dell’albergo. Essa è stata la testimone di una scenetta, che Nero mette in direzione diretta con l’omicidio: un dipendente di colore, con la livrea dell’albergo, vicino al paravento dove è stato trovato il cadavere di Lazlo, avrebbe fatto il gesto di imporre il silenzio, mettendosi un dito sulle labbra, rivolto ad altro personaggio di pelle nera dell’albergo. Tutto ciò costringe Nero a vagliare la posizione dei vari dipendenti del personale dell’albergo in servizione quella sera, finchè trova che uno dei tanti, studente alla Harvard University, che si paga gli studi lavorando, è quello che è stato diretto testimone della scena. Tuttavia egli rivela a Wolfe un fatto che sconvolge interamente il quadro probante: il personaggio che egli ha visto non era nero di pelle, ma era travestito in modo da far pensare che fosse di quel tipo di carnagione: “è un bianco”, afferma…. Si è tinto la faccia col nero dei turaccioli bruciati, e indossava dei guanti aderenti di colore nero: egli tuttavia ha pensato che si trattasse di uno scherzo tra i partecipanti della festa e quindi ha taciuto il fatto. Un altro dei dipendenti poi, chiamato a sua volta in causa, rivela che andando ad investigare perché il collega, inviato in Sala da Pranzo a prendere la paprika, ritardasse così tanto, aveva anche lui visto qualcuno, abbigliato come descritto da…, andare via uscendo dalla porta finestra della Sala da Pranzo. Questa ulteriore rivelazione sconvolge i piani accusatori del Procuratore perché sembra prendere in esame l’intervento di una persona che potrebbe essere venuta anche dall’esterno e quindi non rientrare più tra le persone presenti lì in Hotel: un sicario inviato ad uccidere Lazlo. Ma per quale ragione? E davvero si è trattato di un sicario, oppure è qualcuno che ha finto di esserlo e si è travestito per ingannare tutti?
Ed è da mettere in relazione col tutto il tentativo di Lazlo, prima di essere ucciso, di imbrogliare la prova, cambiando l’ordine dei piatti da esaminare dalle persone ammesse alla prova? Può aver influito sulla dinamica dell’omicidio? Infatti ciascuno degli Chef avrebbe dovuto individuare gli ingredienti della salsa inventata da Lazlo, sulla base tuttavia di un altro aggiunto di proposito da lui che variava nell’ordine della partecipazione: a ciascun piatto, indicato da un numero, era assegnata una determinata salsa variata. Lazlo aveva cercato di imbrogliare fino alla fine, imbrogliando l’ordine delle salse, in modo da rendere ancora più ardua la prova: gli Chef, almeno i due che si scopre erano poi stati gli unici ad essere stati sfavoriti maggiormente, cioè Vuksic e Berin, avevano dovuto riconoscere nella salsa un ingrediente che in realtà nella loro non c’era perché appartenente all’altro.
Wolfe, troverà ancora molti indizi prima di capire chi abbia ucciso Lazlo e perché?
Capolavoro riconosciuto, Too Many Cooks ha avuto un cammino subito in discesa, merito dell’idea della prova e dei soggetti chiamati in causa: fino a quel momento un cuoco non era mai stato chiamato in causa in un omicidio. Non tragga tuttavia in inganno la scelta: è perfettamente in linea con l’ascendenza vandiniana di questo primo Stout anche se tuttavia..singolare. Infatti, il carattere più evidente della “nidiata vandiniana” è che per la prima volta, in maniera decisa, si fissa la peculiarità che il delitto di un certo tipo, premeditato ancor meglio, frutto di una mende diabolica ma straordinariamente intelligente, non può che essere il prodotto di una classe socio-economica elevata. E del resto, tutti i delitti che avvengono nei romanzi di Daly King, Ellery Queen, Abbot, Stout e naturalmente, Van Dine, sono il prodotto di una classe emergente: l’Alta Borghesia, tipica del mondo finanziario e del mito del Self Made Man tipicamente americano. E tutti questi Quinze Maitres, non sono semplici cuochi, ma Maestri di fama internazionale, che guadagnano somme astronomiche. Inoltre è presente anche un altro carattere vandiniano, riconoscibilissimo: il detective  ha una grande cultura personale.
Mentre Philo Vance era esperto di arti, soprattutto figurative, Nero Wolfe è esperto di arte…culinaria. E in questo Rex Stout stesso si manifesta molto vicino a Van Dine : infatti, mentre Van Dine stesso, grande esperto e critico d’arte statunitense, immise nel suo personaggio le sue aspirazioni e le sue conoscenze, così Nero Wolfe è lo specchio di Rex Stout, grande esperto, gourmet e gastronomo della cucina americana. Questo lo si apprezza nelle pagine riservate alle indicazioni contenute nel discorso che Nero Wolfe dovrebbe tenere, in cui peraltro viene fatto sfoggio in talune occasioni anche della lingua francese.
La cosa singolare è un carattere singolare che lo identifica non proprio come un seguace pedissequo del “verbo vandiniano”, ma come invece un romanziere che cerca una propria strada: in contrapposizione con “le venti regole da osservare nella scrittura di un romanzo poliziesco” elaborate da Van Dine e con le dieci derivate, di Knox, Stout affaccia per la prima volta un’alternativa sua personale: al divieto di far identificare l’assassino in un personaggio estraneo al numero dei sospettati, egli inserisce la possibilità che l’assassino possa essere venuto dal di fuori e quindi che non fosse uno dei presenti. Tuttavia anche questa sua alternativa deve essere vista nell’ambito del quadro temporale in cui viene elaborata.
Nel 1938, Van Dine non è più l’elemento caratterizzante della scena culturale letteraria statunitense, anzi vive un momento di reflusso (morirà a distanza di un anno) e già non ha prodotto più romanzi di grande impatto, riconosciuti dalla critica, e originali, a partire da Signori, il gioco è fatto!, ultimo romanzo originale, pervaso di grande penetrazione psicologica, che è stato scritto nel 1934. Nel momento in cui scrive Too Many Cooks, la scena americana è riservata ad altri autori, tra cui Stout stesso, tipo Daly King, Ellery Queen, Jonathan Latimer, Dashiel Hammett, John Dickson Carr, diversi nella propria proposta narrativa, ma tutti di primo piano. Stout quindi, che è riuscito già a ritagliarsi una nicchia di lettori, può tentare una via nuova e cercare di allontanarsi sensibilmente dal modello originale, cosa che peraltro è già avvenuta in Ellery Queen con un romanzo già diverso come “La porta chiusa” e due altri “nuovi”come “Hollywood in subbuglio” e “Il Quattro di cuori”, entrambi del 1938, testimoni di nuovo modo di proporre l’indagine e i rapporti del protagonista con la società circostante.
Ma il carattere di portata eccezionale, per cui Stout si manifesta scrittore al di là del poliziesco tout court, che egli inserisce in questo suo romanzo, è la presa di posizione contro il razzismo, una delle prime voci contro l’apartheid, da parte di una classe emergente di scrittori, che non solo fa divertire il proprio pubblico ma lo fà anche pensare, portando avanti, nelle pagine di un libro, una proposta politica assolutamente rivoluzionaria per l’epoca. La cosa è tanto più intenzionale in quanto la sede della trama, le Terme Kanawha, è posta in West Virginia, uno degli Stati del Sud, in cui era ancora presente in quel tempo una cultura pervasa di gretta difesa dei propri ideali e di razzismo più che palese, ben prima che il John Ball dell’Ispettore Tibbs apparisse sulla scena internazionale. La cosa è tanto più interessante quando si analizzi la figura di Stout, esponente della sinistra progressista, tanto impegnato politicamente e ideologicamente da essere stato inquisito più volte durante “la caccia alle streghe” intrapresa dal senatore McCarth, dal direttore dell’FBI Hoover, portatore di una ideologia che è anche culturale, propria degli stati industriali del nord, contrapposta a quella a difesa dei diritti dei bianchi degli stati del sud, ideologia che egli trasferisce come un suo alter ego nel suo Nero Wolfe. Nei capitoli 10 e 11 Nero Wolfe riesce, con la dolcezza, a ottenere delle informazioni proprio da quei dipendenti  (si noti come il personale dell’albergo si componga solo di lavoratori di colore) che, prima, bruscamente interrogati dallo sceriffo (esponente della cultura “bianca” imperante che impone a questa classe di individui solo lavori manuali rifiutati dalla società dei bianchi e non tollera e sottovaluta lo sforzo di alcuni di loro di elevarsi socialmente e culturalmente), non avevano detto di ciò nulla. E nel tempo stesso li difende dalla giustizia, ottenendo che essi non vengano inquisiti e neanche costretti a rimanere in città fino al processo (Nero Wolfe prende le difese dello studente-lavoratore Paul Whipple), contro la pretesa dello sceriffo Pettigrew di incriminarli per reticenza quando non costringerli a rimanere in città, per poi perseguitarli in un secondo tempo; tra i due si interpone la figura del procuratore, il quale, pur esponente dell’Alta Borghesia degli Stati del Sud, è pur sempre un individuo che deve fare di necessità virtù, e che quindi, per avere da Nero Wolfe le prove che una certa persona sia l’assassino, che egli sia stato aiutato da altra persona, che abbia agito con lui allo scopo premeditato di uccidere Lazlo, riconoscendo allo stesso tempo che Berin non possa essere stato l’uccisore, non esita ad accettare le 4 condizioni impostegli dal detective, imprescindibili per avere ragione in aula e riportare un successo personale. E’ una figura tutto sommato positiva: imbranato, goffo, impacciato, innamorato della figlia di Berin, che pure lui ha arrestato, non sa darsi pace, ancora quando il colpevole ed il complice sono stati arrestati, del livore che Costanza Berin gli palesa, e per questo il buon Archie, gran tombeur de femmes, lo aiuterà, nel finale del libro, rovesciando addosso a Costanza il suo drink a mettendo Tolman nella condizione di asciugarle il vestito, e quindi di ristabilire tra i due l’idillio amoroso che l’arresto del padre di lei aveva interrotto.
Sempre nell’alveo della presa di posizione di Wolfe a favore dei lavoratori di colore, noto un altro carattere interessante: non c’è solo la contrapposizione tra bianchi e neri, tra Pettigrew e Whipple per esempio, o Moulton, altro lavoratore di colore e capo dei camerieri, ma anche tra bianchi (Wolfe, e Pettigrew e Tolman): si osservi come Stout ridicolizzi lo sceriffo, descrivendone la strabicità, ed invece descriva positivamente Whipple; ma c’è anche  il diverso atteggiamento dinanzi a Wolfe dei dipendenti di colore, una contrapposizione che è non solo sociale, ma culturale ed ideologica: Moulton è espressione della maggioranza nera che ha accettato di servire e che rimprovera a Whipple la sua audacia verbale e il suo orgoglio personale, mentre Whipple invece rappresenta la nuova generazione “nera” che cerca un affrancamento anche culturale: Gli occhi di Wolfe si spostarono oltre: – Signor Whipple, vi conosco, naturalmente. Siete un cameriere abile e attento, a cena siete riuscito ad anticipare i miei desideri. Sembrate giovane per aver acquisito tanta competenza. Quanti anni avete? Il giovanotto con il naso schiacciato fisso Wolfe dritto negli occhi e disse: – Ventuno. Moulton, il capo cameriere, gli lanciò una occhiataccia e borbottò: – Devi dire “signore”. – Poi si rivolse a Wolfe: – Paul studia all’università. – Capisco. E in quale ateneo, signor Whipple? All’Howard University. Signore. (si noti come il “Signore”, posto da solo, ne accentui la forza dirompente e anche una forma di forzato rispetto, prontamente riconosciuto da Wolfe). Wolfeagitò un dito. – Se il Signore non vi va a genio, fatene pure a meno. La coprtesia forzata è peggio della scortesia. Frequentate l’università per farvi una cultura? – Mi interessa l’antropologia. – Davvero. Ho conosciuto Franz Boas, e possiedo tutti i suoi libri con dedica autografa…Vi rammento che Lawrence Dunbar una volta ha detto: “ la cosa migliore che un opossum sia in grado di fare è riempire una pancia vuota”. Il giovanotto lo guardò sbalordito. – Conoscete Dunbar ? – Certo, non sono un barbaro. (pagg. 134-135).
Il dialogo esemplifica come Wolfe, facendo leva proprio su una umanità che è anche psicologia applicata, riesca ad entrare nella guardia alzata di Whipple e a farla abbassare, parlando non da suo superiore ma da persona che possieda una tale cultura, l’unica cosa che Whipple riconosce come mezzo per affrancarsi dalla situazione di schiavitù anche sociale, ottenendo l’ammirazione del giovane. Osservo infine come la stessa presa di posizione di Stout contro il razzismo (figlio di quaccheri dell’Indiana e quindi espressione della cultura del Nord) sia espressione ideologica di un progressismo liberale che si tinge talora di socialismo, e che si distingue chiaramente da quella di Van Dine, pur espressione della intelleghentja new yorkese, ma pur sempre di destra, esaltatore del mito nietzschiano del super-uomo, di cui Philo Vance è fedele espressione, e che mai aveva espresso sentimenti radicali di sovversione sociale se non rispetto culturale, umano e sociale di un’altra classe, ancora ritenuta, settant’anni dalla fine della Guerra di Secessione, una “classe inferiore”.
Un altro carattere che si evince dalla lettura, e qui termino, è l’atmosfera tutta particolare, che si respira, e che è affidata alle descrizioni veramente maniacali sia degli ambienti che delle portate culinarie, di cui è espressione il linguaggio pregnante di Stout, che si esplica in un’affabulazione senza limiti, piena di riferimenti dotti ed espressioni caratterizzanti, di cui è espressione la traduzione sontuosa di Gianni Montanari. Proprio a questo riguardo, osservo come questo sia uno dei pochi casi di ritraduzioni dello stesso testo che riconosco come necessari per operare una rivalutazione dello stesso, la cui forza già emergeva nella traduzione sforbiciata di Alfredo Pitta, ma che solo quella integrale di Montanari riesce a far mergere compiutamente.

Pietro De Palma

2 commenti:

  1. Mi scuso coi miei lettori ma ho avuto molti problemi di connessione , per cui il post che era programmato per essere pubblicato ad una data ora non lo veniva, e poi si sono verificati altri disservizi (un post è stato tolto, poi rimesso).

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