Rex
Stout è stato uno dei grandi romanzieri americani del ‘900, che oggi
vive una specie di letargo, almeno in Mondadori. Motivi? Non so,
probabilmente è che oggi, almeno in Italia, stiamo rivivendo una
renaissance del Mystery e Stout non appare un grande esponente di quel
genere, e non certo da porre sullo stesso piano di Carr. Però ha molti
caratteri interessanti che vale la pena inquadrare.
Indubbiamente, uno di quelli che ha
contribuito in certo senso a creargli una patina ambigua, è stato il
giudizio di qualche critico, secondo cui Stout sarebbe una via di mezzo
tra il Mystery e l’Hard-Boiled americano, una specie di Craig Rice o
Jonathan Latimer, non essendo né l’uno né l’altro: Stout non ha mai dei
plot entusiasmanti, come siamo portati a trovarne in Van Dine o in Queen
o in Carr che pure sono americani seppure con sfumature diverse, tranne
in qualche romanzo dei primi, fino all’inizio degli anni ’40, ma pure
così i plot non sono mai capaci di catturare l’interesse. E nello stesso
tempo, se fosse un Hard-Boiled ci dovrebbe essere violenza, e in Stout
non ce n’è. Eppure, Stout piace. Perché? Perchè secondo me ha delle
nuances che lo avvicinano ad alcuni grandi esponenti del Giallo
Americano degli anni ’30, pur mantenendo una propria indipendenza
stilistica. In particolare, il carattere che più si mette in risalto
quando si parla di Stout è la sua vena vandiniana originale, o almeno la
sua tendenza ad imitare qualcuna delle caratteristiche peculiari di Van
Dine. Quali?
Stout inventa il suo personaggio
principale, Nero Wolfe (Wolfe è chiaramente riferito a Wolf= Lupo, che è
animale pericoloso ma solitario, che rifiuta l’uomo, così come Wolfe,
esce raramente da casa sua, vivendo in una sorta di ghetto dorato e
volontario) guardando chiaramente a Philo Vance: in questo, non poteva
certamente non tenerne conto, visto che il suo primo tentativo in tal
senso è Fer-de-Lance,“La traccia del serpente”, che è del 1934,
tempo in cui ancora furoreggiava Van Dine. Abbiamo assistito anche noi
qualche anno fa alla tendenza di imitare lo stile di qualcuno in Italia
per avere successo: ne parlavo con Stefano Di Marino in un Blog, non mi
ricordo quale, forse anche quello Mondadori, ma non ricordo bene, a
proposito del fatto che anni fa c’era parecchia gente che per avere
successo imitava il suo stile, creando cloni per esempio di Montecristo.
Lui ha riconosciuto, che a mente fredda, questo accumulo di materiale
eterogeneo ha finito per danneggiarlo, anche se lui, nella spinta
dell’euforia, quando era e si sentiva un leader carismatico, ne
difendeva la portata. Ecco questo è quanto accadde anche a Van Dine: ci
fu parecchia gente che, spinta dalla necessità di farsi conoscere, cercò
di emularne lo stile, creando una serie di cloni di Philo Vance, non
sempre con risultati pari alle aspettative. Un esempio? Per esempio il
protagonista di The Death in the Dark di Stacey Bishop (George Antheil) che è chiaramente un clone di Vance, ed anche il romanzo, tradotto in Italia come La morte nel buio
(e recensito in questo Blog anni fa) ne ricorda uno in particolare:
Antheil sperava di avere più successo di quanto ne ebbe, se è vero che
questo piccolo capolavoro è rimasto sotterrato nelle pieghe del tempo
per così tanto tempo.
Stout fu uno di questi autori à la mode,
come il primo Queen, Charles Daly King, Rufus Gillmore, Anthony Abbot,
la Tillett, Clason. Tuttavia, se in questi autori le caratteristiche dei
personaggi principali, almeno nei primi romanzi sono esasperatamente
accostabili a quelle di Philo Vance (come non pensare al De Puyster,
personaggio dei primi racconti di Rufus King, così vicino a Philo Vance,
anche nel tempo di apparizione da far pensare che proprio Vance sia
derivato da esso?), in Stout sono più velate: è questo il dato più
interessante: è come se fossimo costretti ad una caccia al tesoro nei
suoi romanzi, alla ricerca di queste somiglianze, come se il lettore
fosse egli stesso il detective, in una indagine che è parallela a quella
principale ed ovvia in un poliziesco, ma nascosta.
Uno dei romanzi più interessanti della prima produzione stoutiana è il romanzo che mi accingo qui ad analizzare: “Alta cucina” (Too Many Cooks, 1938).
La trama è quantomeno singolare: Nero
Wolfe viene invitato, come esperto indipendente, a tenere una relazione
nel corso della riunione de Les Quinze Maitres, che si svolge
ogni cinque anni, e che vede appunto la partecipazione dei quindici
migliori chef al mondo, tutti riuniti questa volta presso la struttura
dell’Hotel delle Terme Kanawha.
Mentre vi giunge in treno (e già questo è
una prova terribile per Wolfe che è abituato a vivere da solo, nel suo
splendido appartamento, tra la cura delle orchidee, e le portate
sopraffine del suo cuoco di fiducia, soprattutto in virtù della sua
considerevole mole fisica), Wolfe, che è amico di Marko Vuksic, uno dei
quindici chef, viene presentato a Jerome Berin, il famoso chef inventore
di uno dei piatti più mitici, Le Salsicce Mezzanotte, la cui
contraffazione è stata sempre estremamente ardua, nonostante la
semplicità degli ingredienti: Nero Wolfe tenta in tutti i modi di
convincerlo, di adularlo, di tentarlo, al fine di ottenerne la ricetta
per poterla gustare lui solo, nel suo eremitaggio, non facendosela
nemmeno preparare dal suo cuoco, per non divulgarla. Ma non ci riesce.
Tuttavia in questo primo colloquio Wolfe capta che c’è più di uno, tra i
partecipanti a quella singolare riunione, a nutrire sentimenti non
certo di fraternità cristiana nei confronti di John Lazlo, chef
dell’Hotel Churchill di Londra, a causa della condotta avventurosa di
questi che non ha mai rinunciato a fare dello spionaggio nei confronti
dei suoi colleghi al fine di carpirne le ricette migliori o a rubare i
loro assistenti più promettenti. Così Lazlo non si è fatto certamente
degli amici. Non ha nemmeno eccellenti rapporti col suocero, lo chef
italiano Dino Rossi, la cui figlia ha rubato al primo marito, Vuksic,
amico di Wolfe.
Alla riunione, si scatenano le vene creative de I Quindici
che cominciano a ingurgitare, tracannare e apprezzare le tante proposte
culinarie: gli anatroccoli, le ostriche, le tartarughe di acqua dolce, e
chi più ne ha più ne metta. Il fattaccio si verifica quando affrontano i
piccioni: Les Quinze Maitres secondo un ordine prefissato, dovranno tagliare i piccioni e gustarli accompagnandoli alla Salsa Primavera,
una creazione di Lazlo, cercando di riconoscerne tutti gli ingredienti,
ognuno in separata sede dagli altri, nella Stanza da pranzo dell’Hotel.
Tutto va bene finchè si arriva a Berin e Vuksic. Infatti, tra l’entrata
del primo e quella del secondo, Lazlo scompare dalla Sala da Pranzo:
quando entra Berin c’è ancora, quando invece è la volta di Vuksic, egli
non lo vede, ma non ne avverte la mancanza, visti i pessimi rapporti
comuni; qualche minuto dopo, tuttavia, è Nero Wolfe, ammesso anche lui
alla prova, a scoprirne il cadavere, dietro un paravento, già bello
stecchito come una salsiccia, ucciso con una coltellata nel fianco,
inferta con uno dei due coltelli usarti per tagliare i piccioni.
Il Sostituto Procuratore Distrettuale
Tolman, alla prima esperienza, non vuole sbagliare, perché, lo capisce
subito, sarebbe controindicativo sbagliare e fregarsi la carriera
futura: pertanto cerca di blandire Nero Wolfe, anche tramite lo
sceriffo, a dare una mano, ma non ricevendo inizialmente alcun aiuto.
Nero, pur protestando la sua innocenza, riconosciuta anche in virtù
della fama raggiunta con la risoluzione di casi precedenti, e della
considerazione generale, non si sente minimamente coinvolto nel caso, e
anzi vuole andare via il più presto possibile per ritornare nella pace
del suo appartamento dopo aver tenuto la sua relazione a difesa della
gastronomia americana troppo bistrattata da altre più rinomate in sede
internazionale. Tuttavia avverrà qualcosa che ne farà mutare la
condotta.
Infatti, basandosi sull’odio reciproco, e
quindi sulla esistenza di un movente, pur non avendo prove
incontrovertibili, dovendo pure arrestare qualcuno, il Sostituto
Procuratore fà trarre in arresto Berin. Per Nero, chiamato in causa
dalla di lui figlia, Costanza, sarebbe il modo di trarne beneficio,
facendosi rivelare la ricetta delle Salsicce. Così si mette alla caccia
dell’assassino, cercando innanzitutto le prove dell’innocenza di Jerome,
e cercando ricostruire la dinamica dell’assassinio.
Inoltre, mentre Wolfe ricostruisce la
vicenda, l’assassino fuggito senza che la polizia avesse minimamente
fatto il benchè minimo tentativo di cercare dia cciuffarlo lì per lì,
pur avvisata tempestivamente da Wolfe e dal suo assitente Archie
Gooldwin, non sapendo che Wolfe ha rifiutato di aiutare Sceriffo e
Giudice nel ricostruire la verità, temendo che riesca a individuarlo,
tenta di ucciderlo, sparandogli dalla finestra, a distanza ravvicinata,
protetto dal buio della notte, ma Archie, col suo sesto senso,
avvertendo una presenza vicina, riesce a deviare la traiettoria del
proiettile lanciando davanti alla finestra, prima che che il colpo
parta, una frazione prima, il blocco degli appunti nei quali è scritta
la relazione di Wolfe da tenersi davanti a Les Quinze, in realtà dieci, perché due non sono venuti e tre..sono defunti prima che si arrivasse alla riunione.
Ben presto Wolfe mette in relazione
l’assassinio con il rumore della radio, alla cui musica diffusa, Vuksic
ha esitato ad entrare nella sala dove avrebbe dovuto sottoporsi alla
prova, tentato dalla sua ex-moglie; ricostruisce i movimenti delle
singole persone che tutte quante negano di essersi avvicinate alla Sala
da Pranzo, ed invece beccandone una, Leo, moglie di Lawrence Coyne, un
altro dei Quinze, che afferma di essersi ferita un dito nella
mano chiudendo una porta invece di un’altra e venendo smascherata dalle
rivelazioni del personale dell’albergo. Essa è stata la testimone di una
scenetta, che Nero mette in direzione diretta con l’omicidio: un
dipendente di colore, con la livrea dell’albergo, vicino al paravento
dove è stato trovato il cadavere di Lazlo, avrebbe fatto il gesto di
imporre il silenzio, mettendosi un dito sulle labbra, rivolto ad altro
personaggio di pelle nera dell’albergo. Tutto ciò costringe Nero a
vagliare la posizione dei vari dipendenti del personale dell’albergo in
servizione quella sera, finchè trova che uno dei tanti, studente alla
Harvard University, che si paga gli studi lavorando, è quello che è
stato diretto testimone della scena. Tuttavia egli rivela a Wolfe un
fatto che sconvolge interamente il quadro probante: il personaggio che
egli ha visto non era nero di pelle, ma era travestito in modo da far
pensare che fosse di quel tipo di carnagione: “è un bianco”, afferma….
Si è tinto la faccia col nero dei turaccioli bruciati, e indossava dei
guanti aderenti di colore nero: egli tuttavia ha pensato che si
trattasse di uno scherzo tra i partecipanti della festa e quindi ha
taciuto il fatto. Un altro dei dipendenti poi, chiamato a sua volta in
causa, rivela che andando ad investigare perché il collega, inviato in
Sala da Pranzo a prendere la paprika, ritardasse così tanto, aveva anche
lui visto qualcuno, abbigliato come descritto da…, andare via uscendo
dalla porta finestra della Sala da Pranzo. Questa ulteriore rivelazione
sconvolge i piani accusatori del Procuratore perché sembra prendere in
esame l’intervento di una persona che potrebbe essere venuta anche
dall’esterno e quindi non rientrare più tra le persone presenti lì in
Hotel: un sicario inviato ad uccidere Lazlo. Ma per quale ragione? E
davvero si è trattato di un sicario, oppure è qualcuno che ha finto di
esserlo e si è travestito per ingannare tutti?
Ed è da mettere in
relazione col tutto il tentativo di Lazlo, prima di essere ucciso, di
imbrogliare la prova, cambiando l’ordine dei piatti da esaminare dalle
persone ammesse alla prova? Può aver influito sulla dinamica
dell’omicidio? Infatti ciascuno degli Chef avrebbe dovuto individuare
gli ingredienti della salsa inventata da Lazlo, sulla base tuttavia di
un altro aggiunto di proposito da lui che variava nell’ordine della
partecipazione: a ciascun piatto, indicato da un numero, era assegnata
una determinata salsa variata. Lazlo aveva cercato di imbrogliare fino
alla fine, imbrogliando l’ordine delle salse, in modo da rendere ancora
più ardua la prova: gli Chef, almeno i due che si scopre erano poi stati
gli unici ad essere stati sfavoriti maggiormente, cioè Vuksic e Berin,
avevano dovuto riconoscere nella salsa un ingrediente che in realtà
nella loro non c’era perché appartenente all’altro.
Wolfe, troverà ancora molti indizi prima di capire chi abbia ucciso Lazlo e perché?
Capolavoro riconosciuto, Too Many Cooks
ha avuto un cammino subito in discesa, merito dell’idea della prova e
dei soggetti chiamati in causa: fino a quel momento un cuoco non era mai
stato chiamato in causa in un omicidio. Non tragga tuttavia in inganno
la scelta: è perfettamente in linea con l’ascendenza vandiniana di
questo primo Stout anche se tuttavia..singolare. Infatti, il carattere
più evidente della “nidiata vandiniana” è che per la prima volta, in
maniera decisa, si fissa la peculiarità che il delitto di un certo tipo,
premeditato ancor meglio, frutto di una mende diabolica ma
straordinariamente intelligente, non può che essere il prodotto di una
classe socio-economica elevata. E del resto, tutti i delitti che
avvengono nei romanzi di Daly King, Ellery Queen, Abbot, Stout e
naturalmente, Van Dine, sono il prodotto di una classe emergente: l’Alta
Borghesia, tipica del mondo finanziario e del mito del Self Made Man
tipicamente americano. E tutti questi Quinze Maitres, non sono semplici
cuochi, ma Maestri di fama internazionale, che guadagnano somme
astronomiche. Inoltre è presente anche un altro carattere vandiniano,
riconoscibilissimo: il detective ha una grande cultura personale.
Mentre Philo Vance era esperto di arti,
soprattutto figurative, Nero Wolfe è esperto di arte…culinaria. E in
questo Rex Stout stesso si manifesta molto vicino a Van Dine : infatti,
mentre Van Dine stesso, grande esperto e critico d’arte statunitense,
immise nel suo personaggio le sue aspirazioni e le sue conoscenze, così
Nero Wolfe è lo specchio di Rex Stout, grande esperto, gourmet e
gastronomo della cucina americana. Questo lo si apprezza nelle pagine
riservate alle indicazioni contenute nel discorso che Nero Wolfe
dovrebbe tenere, in cui peraltro viene fatto sfoggio in talune occasioni
anche della lingua francese.
La cosa singolare è un carattere
singolare che lo identifica non proprio come un seguace pedissequo del
“verbo vandiniano”, ma come invece un romanziere che cerca una propria
strada: in contrapposizione con “le venti regole da osservare nella
scrittura di un romanzo poliziesco” elaborate da Van Dine e con le dieci
derivate, di Knox, Stout affaccia per la prima volta un’alternativa sua
personale: al divieto di far identificare l’assassino in un personaggio
estraneo al numero dei sospettati, egli inserisce la possibilità che
l’assassino possa essere venuto dal di fuori e quindi che non fosse uno
dei presenti. Tuttavia anche questa sua alternativa deve essere vista
nell’ambito del quadro temporale in cui viene elaborata.
Nel 1938, Van Dine non è più l’elemento
caratterizzante della scena culturale letteraria statunitense, anzi vive
un momento di reflusso (morirà a distanza di un anno) e già non ha
prodotto più romanzi di grande impatto, riconosciuti dalla critica, e
originali, a partire da Signori, il gioco è fatto!, ultimo romanzo originale, pervaso di grande penetrazione psicologica, che è stato scritto nel 1934. Nel momento in cui scrive Too Many Cooks,
la scena americana è riservata ad altri autori, tra cui Stout stesso,
tipo Daly King, Ellery Queen, Jonathan Latimer, Dashiel Hammett, John
Dickson Carr, diversi nella propria proposta narrativa, ma tutti di
primo piano. Stout quindi, che è riuscito già a ritagliarsi una nicchia
di lettori, può tentare una via nuova e cercare di allontanarsi
sensibilmente dal modello originale, cosa che peraltro è già avvenuta in
Ellery Queen con un romanzo già diverso come “La porta chiusa” e due
altri “nuovi”come “Hollywood in subbuglio” e “Il Quattro di cuori”,
entrambi del 1938, testimoni di nuovo modo di proporre l’indagine e i
rapporti del protagonista con la società circostante.
Ma il carattere di portata eccezionale,
per cui Stout si manifesta scrittore al di là del poliziesco tout court,
che egli inserisce in questo suo romanzo, è la presa di posizione
contro il razzismo, una delle prime voci contro l’apartheid, da parte di
una classe emergente di scrittori, che non solo fa divertire il proprio
pubblico ma lo fà anche pensare, portando avanti, nelle pagine di un
libro, una proposta politica assolutamente rivoluzionaria per l’epoca.
La cosa è tanto più intenzionale in quanto la sede della trama, le Terme
Kanawha, è posta in West Virginia, uno degli Stati del Sud, in cui era
ancora presente in quel tempo una cultura pervasa di gretta difesa dei
propri ideali e di razzismo più che palese, ben prima che il John Ball
dell’Ispettore Tibbs apparisse sulla scena internazionale. La cosa è
tanto più interessante quando si analizzi la figura di Stout, esponente
della sinistra progressista, tanto impegnato politicamente e
ideologicamente da essere stato inquisito più volte durante “la caccia
alle streghe” intrapresa dal senatore McCarth, dal direttore dell’FBI
Hoover, portatore di una ideologia che è anche culturale, propria degli
stati industriali del nord, contrapposta a quella a difesa dei diritti
dei bianchi degli stati del sud, ideologia che egli trasferisce come un
suo alter ego nel suo Nero Wolfe. Nei capitoli 10 e 11 Nero Wolfe
riesce, con la dolcezza, a ottenere delle informazioni proprio da quei
dipendenti (si noti come il personale dell’albergo si componga solo di
lavoratori di colore) che, prima, bruscamente interrogati dallo sceriffo
(esponente della cultura “bianca” imperante che impone a questa classe
di individui solo lavori manuali rifiutati dalla società dei bianchi e
non tollera e sottovaluta lo sforzo di alcuni di loro di elevarsi
socialmente e culturalmente), non avevano detto di ciò nulla. E nel
tempo stesso li difende dalla giustizia, ottenendo che essi non vengano
inquisiti e neanche costretti a rimanere in città fino al processo (Nero
Wolfe prende le difese dello studente-lavoratore Paul Whipple), contro
la pretesa dello sceriffo Pettigrew di incriminarli per reticenza quando
non costringerli a rimanere in città, per poi perseguitarli in un
secondo tempo; tra i due si interpone la figura del procuratore, il
quale, pur esponente dell’Alta Borghesia degli Stati del Sud, è pur
sempre un individuo che deve fare di necessità virtù, e che quindi, per
avere da Nero Wolfe le prove che una certa persona sia l’assassino, che
egli sia stato aiutato da altra persona, che abbia agito con lui allo
scopo premeditato di uccidere Lazlo, riconoscendo allo stesso tempo che
Berin non possa essere stato l’uccisore, non esita ad accettare le 4
condizioni impostegli dal detective, imprescindibili per avere ragione
in aula e riportare un successo personale. E’ una figura tutto sommato
positiva: imbranato, goffo, impacciato, innamorato della figlia di
Berin, che pure lui ha arrestato, non sa darsi pace, ancora quando il
colpevole ed il complice sono stati arrestati, del livore che Costanza
Berin gli palesa, e per questo il buon Archie, gran tombeur de femmes,
lo aiuterà, nel finale del libro, rovesciando addosso a Costanza il suo
drink a mettendo Tolman nella condizione di asciugarle il vestito, e
quindi di ristabilire tra i due l’idillio amoroso che l’arresto del
padre di lei aveva interrotto.
Sempre nell’alveo della presa di
posizione di Wolfe a favore dei lavoratori di colore, noto un altro
carattere interessante: non c’è solo la contrapposizione tra bianchi e
neri, tra Pettigrew e Whipple per esempio, o Moulton, altro lavoratore
di colore e capo dei camerieri, ma anche tra bianchi (Wolfe, e Pettigrew
e Tolman): si osservi come Stout ridicolizzi lo sceriffo, descrivendone
la strabicità, ed invece descriva positivamente Whipple; ma c’è anche
il diverso atteggiamento dinanzi a Wolfe dei dipendenti di colore, una
contrapposizione che è non solo sociale, ma culturale ed ideologica:
Moulton è espressione della maggioranza nera che ha accettato di servire
e che rimprovera a Whipple la sua audacia verbale e il suo orgoglio
personale, mentre Whipple invece rappresenta la nuova generazione “nera”
che cerca un affrancamento anche culturale: Gli occhi di Wolfe si
spostarono oltre: – Signor Whipple, vi conosco, naturalmente. Siete un
cameriere abile e attento, a cena siete riuscito ad anticipare i miei
desideri. Sembrate giovane per aver acquisito tanta competenza. Quanti
anni avete? Il giovanotto con il naso schiacciato fisso Wolfe dritto
negli occhi e disse: – Ventuno. Moulton, il capo cameriere, gli lanciò
una occhiataccia e borbottò: – Devi dire “signore”. – Poi si rivolse a
Wolfe: – Paul studia all’università. – Capisco. E in quale ateneo,
signor Whipple? All’Howard University. Signore. (si noti come il
“Signore”, posto da solo, ne accentui la forza dirompente e anche una
forma di forzato rispetto, prontamente riconosciuto da Wolfe).
Wolfeagitò un dito. – Se il Signore non vi va a genio, fatene pure a
meno. La coprtesia forzata è peggio della scortesia. Frequentate
l’università per farvi una cultura? – Mi interessa l’antropologia. –
Davvero. Ho conosciuto Franz Boas, e possiedo tutti i suoi libri con
dedica autografa…Vi rammento che Lawrence Dunbar una volta ha detto: “
la cosa migliore che un opossum sia in grado di fare è riempire una
pancia vuota”. Il giovanotto lo guardò sbalordito. – Conoscete Dunbar ? –
Certo, non sono un barbaro. (pagg. 134-135).
Il dialogo esemplifica come Wolfe,
facendo leva proprio su una umanità che è anche psicologia applicata,
riesca ad entrare nella guardia alzata di Whipple e a farla abbassare,
parlando non da suo superiore ma da persona che possieda una tale
cultura, l’unica cosa che Whipple riconosce come mezzo per affrancarsi
dalla situazione di schiavitù anche sociale, ottenendo l’ammirazione del
giovane. Osservo infine come la stessa presa di posizione di Stout
contro il razzismo (figlio di quaccheri dell’Indiana e quindi
espressione della cultura del Nord) sia espressione ideologica di un
progressismo liberale che si tinge talora di socialismo, e che si
distingue chiaramente da quella di Van Dine, pur espressione della
intelleghentja new yorkese, ma pur sempre di destra, esaltatore del mito
nietzschiano del super-uomo, di cui Philo Vance è fedele espressione, e
che mai aveva espresso sentimenti radicali di sovversione sociale se
non rispetto culturale, umano e sociale di un’altra classe, ancora
ritenuta, settant’anni dalla fine della Guerra di Secessione, una
“classe inferiore”.
Un altro carattere che si evince dalla
lettura, e qui termino, è l’atmosfera tutta particolare, che si respira,
e che è affidata alle descrizioni veramente maniacali sia degli
ambienti che delle portate culinarie, di cui è espressione il linguaggio
pregnante di Stout, che si esplica in un’affabulazione senza limiti,
piena di riferimenti dotti ed espressioni caratterizzanti, di cui è
espressione la traduzione sontuosa di Gianni Montanari. Proprio a questo
riguardo, osservo come questo sia uno dei pochi casi di ritraduzioni
dello stesso testo che riconosco come necessari per operare una
rivalutazione dello stesso, la cui forza già emergeva nella traduzione
sforbiciata di Alfredo Pitta, ma che solo quella integrale di Montanari
riesce a far mergere compiutamente.
Pietro De Palma
Mi scuso coi miei lettori ma ho avuto molti problemi di connessione , per cui il post che era programmato per essere pubblicato ad una data ora non lo veniva, e poi si sono verificati altri disservizi (un post è stato tolto, poi rimesso).
RispondiEliminaNessun problema, sempre interessante
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