The Red Box,
“La scatola rossa”, è il quarto romanzo di Rex Stout. Risale al 1937,
l’epoca d’oro dei romanzi con Nero Wolfe. E’ un classico whodunnit, con
una spiccata propensione tuttavia al giallo psicologico.
Lleweyn Frost, giovane commediografo, affida a Nero Wolfe il mandato
per scoprire chi abbia ucciso una settimana prima, presso l’atelier del
noto stilista Boyden McNair, la modella Molly Lauck, morta dopo aver
assaggiato un confetto alla mandorla, farcito di cianuro, mentre stava
svagandosi assieme a due sue colleghe, tra cui Helen Frost, cugina di
Lew, dopo una sfilata.
Per poter visionare gli ambienti teatro della morte e interrogare i
presenti, Nero Wolfe è costretto materialmente a muoversi dalla sua
casa-serra, e già questo lo manda in bestia; la sua alta soglia di
irritazione si arroventa quando proprio coloro che gli dovrebbero dare
una mano a scoprire le cause della morte, fanno di tutto per
ostacolarlo. A partire dallo stilista, per passare da Dudley Frost, ed
arrivare a Helen Frost, sostando anche dalle parti di Calida Frost,
madre di Helen. Tutti allo stesso modo nascondono qualcosa. Per non
parlare di Perry Gebert, amico di Calida, un essere viscido, che
vorrebbe fidanzarsi con Helen, spinto dalla madre di lei.
In questo ambiente, Wolfe comincia a raccogliere quegli indizi che
neanche lontanamente aveva raccolto Cramer, l’Ispettore della squadra
omicidi, pur essendo stato incaricato delle indagini sette giorni prima
che apparisse Wolfe. Attraverso una serie di puntigliose indagini e
anche con prove sperimentali, Wolfe stabilisce che il veleno è stato
messo non per colpire alla cieca, ma per colpire una persona in
particolare, cioè lo stilista: è lui che nel suo ambiente è notoriamente
ghiotto di confetti. Nell’occasione dell’omicidio, l’assassino è stato
sfortunato perché la possibile vittima era sazia, e per un caso si è
trovata un’altra persona che è venuta a sapere della scatola di dolciumi
e, sottrattala dallo studio dello stilista e senza volerlo salvatolo,
l’ha proposta a delle sue amiche, morendo proprio lei al posto di
McNair.
Al di là delle apparenze Wolfe assiste ad un balletto di mezze verità
e mezze bugie: Helen è amica di McNair che gli potrebbe essere padre,
ma che le regala diamanti come se fossero noccioline: uno è incastonato
nel portacipria, un altro è il solitario che la ragazza porta al dito;
Dudley, suo zio e padre di Lew è sfuggente, non capendo perché il figlio
abbia assoldato Wolfe, che rivangherà negli affari di famiglia; ancor
più sfuggente, il figlio, che innocentemente tenta di proteggere la
cugina quando sembra che i sospetti si concentrino su di lei, dopo che
si viene a sapere che prima che le due amiche si accingessero a mangiare
dolciumi, lei conosceva già il contenuto della scatola, perché l’aveva
vista nello studio di Mcnair, cercando di togliere il mandato a Wolfe e
mandandolo ancora più in bestia. A questo punto Wolfe è sempre più
deciso nel rivelare il nascosto, e in tutti i modi cerca di capire
perché qualcuno voglia uccidere Mcnair e lui sia refrattario a parlare.
Fatto sta che quando McNair gli confida il fatto di averlo nominato nel
suo testamento e averndogli affidato una misteriosa scatola rossa, non
fa a tempo a rivelargli dove essa si trovi, che assumendo un’aspirina,
cade fulminato anche lui, avvelenato da cianuro: l’aspirina era una
compressa di cianuro, avvolta in uno strato di acido acetilsalicilico.
Wolfe che ha dei sospetti, in relazione alla stranezza che Helen
fosse nata più o meno negli stessi giorni in cui nasceva la figlia di
McNair, e di come questi avesse perso moglie e figlia, e avesse a Wolfe
che la moglie era morta ma la figlia era stata persa, e anche al fatto
che Helen era erede di un patrimonio di due milioni di dollari dati dal
padre Edwin Frost prima che cadesse nei cieli francesi durante la prima
guerra mondiale, ma che la madre non aveva beccato neanche un centesimo,
per una cerca cosa che a Edwin non era andata giù, e che il patrimonio
era affidato a a Dudley fino alla maggiore età di Helen. Sospetta anche
di Gebert, in relazione ai trascorsi di Calida. E pertanto scopre tutto
un raggiro, che aveva come scopo quello di impedire che Lew potesse
ereditare i soldi al posto di Helen. Ma perché McNair solo ora è stato
ucciso? E perché poi?
Dopo l’assassinio proprio di Gebert con un espediente ingegnoso (un
piattino sospeso da scotch al tettuccio dell’auto, contenente
nitrobenzolo misto ad acqua che gli cola addosso avvelenandolo), Wolfe,
dopo aver inscenato il falso ritrovamento della scatola (in realtà una
scatola rossa acquistata presso un rigattiere, con al suo interno una
fiala di nitrobenzolo), smaschera durante un confronto nel suo studio,
alla presenza di tutti gli attori del dramma, l’omicida, che preferirà
uccidersi piuttosto che essere arrestato e sottoposto a processo.
Il romanzo si concluderà con Helen Frost quasi contenta di aver
trovato il vero padre, erede di molto più che due milioni dollari, e
Wolfe che finalmente potrà ritirare la parcella di diecimila dollari.
Il romanzo, è ancora ed è riconoscibile in questo, un romanzo in cui
Stout si rivela essere un vandiniano. Di solito la pesante eredità in
tutti coloro che inizialmente vollero conformare la loro opera ai
dettami stabiliti da Van Dine, sfuma nel prosieguo dell’attività, e
soprattutto nel passaggio attraverso la seconda guerra mondiale: le
opere di Queen per es. già a partire da La casa delle metamorfosi,
diventano più singolari, e meno ripetitive di cliches, e così anche
quelle di Stout; Daly King è più singolarmente vandiniano solo per il
fatto che le sue opere non arrivano alla seconda guerra mondiale e
scontano il fatto di appartenere agli anni ’30.
In cosa è ancora un romanzo vandiniano? Principalmente nella tendenza
di Wolfe a ritenersi un artista della sua professione: questa tendenza
ad autoincensarsi (e automaticamente a svilire il basso volgo) è tipica
del detective vandiniano, per le sue doti di intelligenza e capacità di
risolvere qualsiasi tipo di problema gli venga sottoposto. Poi vi è un
indizio, chiaro, lampante: un’ accezione inusuale per definire un certo
tipo di parentela. Lew accenna al rapporto con la cugina, dicendo che
sono orto-cugini: il fatto che vi accenni è in relazione al fatot che
evidentemente Lew, segretamente innamorato della cugina e ostile a
Gebert, aveva però già studiato tutte le possibilità che la legge gli
desse per unirsi alla cugina: orto-cugini sta ad indicare una parentela
singolare in cui padre e madre sono fratello e sorella di un’altra
coppia , e che entrambi abbiano generato figli che tra loro non sono
solo cugini, ma orto-cugini, provenienti cioè da avi dello stesso ceppo
familiare. Ovverossia nel nostro caso, Dudley e la moglie (che non si
vede: è vedovo?) sono fratello e sorella di Calida e Edwin. Tuttavia
alla fine si scoprirà che Lew e Helen in realtà non sarebbero proprio
orto-cugini.
Il romanzo oltre che avvincere proprio per questi rapporti di
parentela molto stretti, tali da evitare che sconosciuti possano
attentare all’essenza del clan (a ragione, perché sono famiglie
originarie della Scozia), proprio per gli stessi motivi è come se
evidenziasse degli elementi di repulsione, allorchè si viene a scoprire
tutta una manovra tendente a far unire in matrimonio Helen a Gebert, che
parte da Calida, che al tempo dell’arruolamento in aviazione di Edwin
Frost lo aveva tradito proprio con Gebert. Allora, questa madre che era
stata l’amante di un uomo, non esita a buttare tra le sue braccia la
figlia, pur di poter così godere indirettamente di quel patrimonio di
due milioni di dollari da cui altrimenti sarebbe estromessa.
Il romanzo ha punti di contatto con altri romanzi dello stesso periodo. E’ evidente una possibile filiazione di The Red Box di Stout da The Poisoned Chocolates Case
di Anthony Berkeley : il punto di contatto non è solo il metodo di
avvelenamento singolare (scatola di dolciumi in uno, scatola di
cioccolatini nell’altra) quanto anche uno dei veleni che si trovano
citati in ambedue i romanzi, cioè il nitro-benzolo. Tra i due ovviamente
la fonte originale è la più precisa in relazione alle modalità di
avvelenamento: 8-10gocce di nitrobenzolo sono già una dose letale, ma il
nitrobenzolo non si comporta come il cianuro per cui i tempi di
avvelenamento mortale sono molto rapidi; ha più un comportamento simile
all’avvelenamento da arsenico, cioè l’avvelenamento di solito è
progressivo ed è di tipo sociale, cioè avviene in quelle persone che per
motivi di lavoro vi vengono a contatto: infatti è una delle poche
sostanze velenose che possono essere assorbite per via cutanea,
determinando attraverso questa via, però mai la morte improvvisa. Quando
è letale, l’avvelenamento acuto (raro) deve essere massiccio. Non a
caso la vittima del romanzo di Berkeley se avesse mangiato un solo
cioccolatino, non sarebbe mai morta: muore perché ne fa una
scorpacciata. Nel romanzo di Stout invece, per l’avvelenamento da
dolciumi viene usato il cianuro, che è mortale, ma l’avvelenamento
cutaneo mortale di cui è vittima Gebert da nitrobenzolo è un paradosso,
non potendo mai il nitrobenzolo per quanto detto, uccidere per
avvelenamento cutaneo in maniera improvvisa. In questo riscontriamo una
notevole imprecisione di Stout che non aveva verificato probabilmente il
livello di mortalità effettiva dovuto alla sostanza.
Dal romanzo fu tratto in Italia uno degli sceneggiati del Nero Wolfe
con Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, per la precisione il primo, quello
pilota della serie: trasmesso nel febbraio del 1969, la sceneggiatura di
Belisario Randone non si discostava molto dal romanzo, tranne che aver
saltato la parentesi di Glenanna (un cottage in cui ad un certo punto si
suppone possa essere stata nascosta la famosa scatola rossa) per ovvi
motivi, essendo uno sceneggiato interamente ripreso in studi televisivi,
e soprattutto per la sorpresa finale della falsa scatola, in cui nella
trama vera c’è solo una fiala di nitrobenzolo, di cui l’omicida si serve
per uccidersi (è evidente che Nero Wolfe avendo inscenato il
ritrovamento della scatola, voglia dare la possibilità all’omicida di
uccidersi, perché in questo modo salva anche dallo scandalo persone già
provate per fatti precedenti), mentre nella trama sceneggiata in tv, di
fiale non ce n’è neanche l’ombra ma solo un malloppo di documenti
(quelli che in verità vengono trovati nella vera scatola dietro una
pietra del camino della casa della sorella di McNair in Scozia) che in
questo modo erudiscono lo spettatore su quella serie di fatti di cui
invece il lettore è stato già messo a parte.
Nondimeno è evidente un altro più recondito intendimento nello
sceneggiato, trasmesso sul secondo programma nazionale della RAI: quello
di non parlare di suicidio, una pratica di morte che nell’Italia
cattolico-democristiana era assolutamente condannata (con la dannazione
eterna), ma piuttosto di arresto del reo affinchè scontasse il fio della
sua colpa ed eventualmente si ravvedesse. Del resto questa tendenza a
sostituire l’arresto al suicidio, è ravvisabile in altro sceneggiato di
quegli anni, il Philo Vance televisivo, con Giorgio Albertazzi, in cui,
ne La fine dei Greene, l’omicida viene internato in un manicomio
criminale, invece che finire suicida con la propria auto. Anche
nell’episodio conclusivo della miniserie di Philo Vance, lo
sceneggiatore è lo stesso che di quello tratto da La scatola rossa di
Stout, “Veleno in sartoria”: Belisario Randone.
Come struttura, il romanzo non è un mystery veramente classico, ma
come tutti i Nero Wolfe, soprattutto quelli dagli anni 40 in poi, ma un
mystery movimentato, dinamico, con ceneri hardboiled (l’interrogatorio
della polizia di Perren Gebert, trovato ad introdursi di nascosto nella
vilal di Glenanna, è sintomatico) ed anche una certa filiazione oltre
che da Berkeley, per certi versi anche da quei romanzi che originavano
da Conan Doyle, per la singolarità di far derivare tutta una situazione
di cui si parla nel romanzo, da un dramma accaduto nel passato.
Pietro De Palma
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