sabato 28 ottobre 2017

Rex Stout : La scatola rossa (The Red Box, 1937) – trad.Nicoletta Lamberti – I Classici del G.M. n.573 del 1989

The Red Box, “La scatola rossa”, è il quarto romanzo di Rex Stout. Risale al 1937, l’epoca d’oro dei romanzi con Nero Wolfe. E’ un classico whodunnit, con una spiccata propensione tuttavia al giallo psicologico.
Lleweyn Frost, giovane commediografo, affida a Nero Wolfe il mandato per scoprire chi abbia ucciso una settimana prima, presso l’atelier del noto stilista Boyden McNair, la modella Molly Lauck, morta dopo aver assaggiato un confetto alla mandorla, farcito di cianuro, mentre stava svagandosi assieme a due sue colleghe, tra cui Helen Frost, cugina di Lew, dopo una sfilata.
Per poter visionare gli ambienti teatro della morte e interrogare i presenti, Nero Wolfe è costretto materialmente a muoversi dalla sua casa-serra, e già questo lo manda in bestia; la sua alta soglia di irritazione si arroventa quando proprio coloro che gli dovrebbero dare una mano a scoprire le cause della morte, fanno di tutto per ostacolarlo. A partire dallo stilista, per passare da Dudley Frost, ed arrivare a Helen Frost, sostando anche dalle parti di Calida Frost, madre di Helen. Tutti allo stesso modo nascondono qualcosa. Per non parlare di Perry Gebert, amico di Calida, un essere viscido, che vorrebbe fidanzarsi con Helen, spinto dalla madre di lei.
In questo ambiente, Wolfe comincia a raccogliere quegli indizi che neanche lontanamente aveva raccolto Cramer, l’Ispettore della squadra omicidi, pur essendo stato incaricato delle indagini sette giorni prima che apparisse Wolfe. Attraverso una serie di puntigliose indagini e anche con prove sperimentali, Wolfe stabilisce che il veleno è stato messo non per colpire alla cieca, ma per colpire una persona in particolare, cioè lo stilista: è lui che nel suo ambiente è notoriamente ghiotto di confetti. Nell’occasione dell’omicidio, l’assassino è stato sfortunato perché la possibile vittima era sazia, e per un caso si è trovata un’altra persona che è venuta a sapere della scatola di dolciumi e, sottrattala dallo studio dello stilista e senza volerlo salvatolo, l’ha proposta a delle sue amiche, morendo proprio lei al posto di McNair.
Al di là delle apparenze Wolfe assiste ad un balletto di mezze verità e mezze bugie: Helen è amica di McNair che gli potrebbe essere padre, ma che le regala diamanti come se fossero noccioline: uno è incastonato nel portacipria, un altro è il solitario che la ragazza porta al dito; Dudley, suo zio e padre di Lew è sfuggente, non capendo perché il figlio abbia assoldato Wolfe, che rivangherà negli affari di famiglia; ancor più sfuggente, il figlio, che innocentemente tenta di proteggere la cugina quando sembra che i sospetti si concentrino su di lei, dopo che si viene a sapere che prima che le due amiche si accingessero a mangiare dolciumi, lei conosceva già il contenuto della scatola, perché l’aveva vista nello studio di Mcnair, cercando di togliere il mandato a Wolfe e mandandolo ancora più in bestia. A questo punto Wolfe è sempre più deciso nel rivelare il nascosto, e in tutti i modi cerca di capire perché qualcuno voglia uccidere Mcnair e lui sia refrattario a parlare. Fatto sta che quando McNair gli confida il fatto di averlo nominato nel suo testamento e averndogli affidato una misteriosa scatola rossa, non fa a tempo a rivelargli dove essa si trovi, che assumendo un’aspirina, cade fulminato anche lui, avvelenato da cianuro: l’aspirina era una compressa di cianuro, avvolta in uno strato di acido acetilsalicilico.
Wolfe che ha dei sospetti, in relazione alla stranezza che Helen fosse nata più o meno negli stessi giorni in cui nasceva la figlia di McNair, e di come questi avesse perso moglie e figlia, e avesse a Wolfe che la moglie era morta ma la figlia era stata persa, e anche al fatto che Helen era erede di un patrimonio di due milioni di dollari dati dal padre Edwin Frost prima che cadesse nei cieli francesi durante la prima guerra mondiale, ma che la madre non aveva beccato neanche un centesimo, per una cerca cosa che a Edwin non era andata giù, e che il patrimonio era affidato a a Dudley fino alla maggiore età di Helen. Sospetta anche di Gebert, in relazione ai trascorsi di Calida. E pertanto scopre tutto un raggiro, che aveva come scopo quello di impedire che Lew potesse ereditare i soldi al posto di Helen. Ma perché McNair solo ora è stato ucciso? E perché poi?
Dopo l’assassinio proprio di Gebert con un espediente ingegnoso (un piattino sospeso da scotch al tettuccio dell’auto, contenente nitrobenzolo misto ad acqua che gli cola addosso avvelenandolo), Wolfe, dopo aver inscenato il falso ritrovamento della scatola (in realtà una scatola rossa acquistata presso un rigattiere, con al suo interno una fiala di nitrobenzolo), smaschera durante un confronto nel suo studio, alla presenza di tutti gli attori del dramma, l’omicida, che preferirà uccidersi piuttosto che essere arrestato e sottoposto a processo.
Il romanzo si concluderà con Helen Frost quasi contenta di aver trovato il vero padre, erede di molto più che due milioni dollari, e Wolfe che finalmente potrà ritirare la parcella di diecimila dollari.
Il romanzo, è ancora ed è riconoscibile in questo, un romanzo in cui Stout si rivela essere un vandiniano. Di solito la pesante eredità in tutti coloro che inizialmente vollero conformare la loro opera ai dettami stabiliti da Van Dine, sfuma nel prosieguo dell’attività, e soprattutto nel passaggio attraverso la seconda guerra mondiale: le opere di Queen per es. già a partire da La casa delle metamorfosi, diventano più singolari, e meno ripetitive di cliches, e così anche quelle di Stout; Daly King è più singolarmente vandiniano solo per il fatto che le sue opere non arrivano alla seconda guerra mondiale e scontano il fatto di appartenere agli anni ’30.
In cosa è ancora un romanzo vandiniano? Principalmente nella tendenza di Wolfe a ritenersi un artista della sua professione: questa tendenza ad autoincensarsi (e automaticamente a svilire il basso volgo) è tipica del detective vandiniano, per le sue doti di intelligenza e capacità di risolvere qualsiasi tipo di problema gli venga sottoposto. Poi vi è un indizio, chiaro, lampante: un’ accezione inusuale per definire un certo tipo di parentela. Lew accenna al rapporto con la cugina, dicendo che sono orto-cugini: il fatto che vi accenni è in relazione al fatot che evidentemente Lew, segretamente innamorato della cugina e ostile a Gebert, aveva però già studiato tutte le possibilità che la legge gli desse per unirsi alla cugina: orto-cugini sta ad indicare una parentela singolare in cui padre e madre sono fratello e sorella di un’altra coppia , e che entrambi abbiano generato figli che tra loro non sono solo cugini, ma orto-cugini, provenienti cioè da avi dello stesso ceppo familiare. Ovverossia nel nostro caso, Dudley e la moglie (che non si vede: è vedovo?) sono fratello e sorella di Calida e Edwin. Tuttavia alla fine si scoprirà che Lew e Helen in realtà non sarebbero proprio orto-cugini.
Il romanzo oltre che avvincere proprio per questi rapporti di parentela molto stretti, tali da evitare che sconosciuti possano attentare all’essenza del clan (a ragione, perché sono famiglie originarie della Scozia), proprio per gli stessi motivi è come se evidenziasse degli elementi di repulsione, allorchè si viene a scoprire tutta una manovra tendente a far unire in matrimonio Helen a Gebert, che parte da Calida, che al tempo dell’arruolamento in aviazione di Edwin Frost lo aveva tradito proprio con Gebert. Allora, questa madre che era stata l’amante di un uomo, non esita a buttare tra le sue braccia la figlia, pur di poter così godere indirettamente di quel patrimonio di due milioni di dollari da cui altrimenti sarebbe estromessa.
Il romanzo ha punti di contatto con altri romanzi dello stesso periodo. E’ evidente una possibile filiazione di The Red Box di Stout da The Poisoned Chocolates Case di Anthony Berkeley : il punto di contatto non è solo il metodo di avvelenamento singolare (scatola di dolciumi in uno, scatola di cioccolatini nell’altra) quanto anche uno dei veleni che si trovano citati in ambedue i romanzi, cioè il nitro-benzolo. Tra i due ovviamente la fonte originale è la più precisa in relazione alle modalità di avvelenamento: 8-10gocce di nitrobenzolo sono già una dose letale, ma il nitrobenzolo non si comporta come il cianuro per cui i tempi di avvelenamento mortale sono molto rapidi; ha più un comportamento simile all’avvelenamento da arsenico, cioè l’avvelenamento di solito è progressivo ed è di tipo sociale, cioè avviene in quelle persone che per motivi di lavoro vi vengono a contatto: infatti è una delle poche sostanze velenose che possono essere assorbite per via cutanea, determinando attraverso questa via, però mai la morte improvvisa. Quando è letale, l’avvelenamento acuto (raro) deve essere massiccio. Non a caso la vittima del romanzo di Berkeley se avesse mangiato un solo cioccolatino, non sarebbe mai morta: muore perché ne fa una scorpacciata. Nel romanzo di Stout invece, per l’avvelenamento da dolciumi viene usato il cianuro, che è mortale, ma l’avvelenamento cutaneo mortale di cui è vittima Gebert da nitrobenzolo è un paradosso, non potendo mai il nitrobenzolo per quanto detto, uccidere per avvelenamento cutaneo in maniera improvvisa. In questo riscontriamo una notevole imprecisione di Stout che non aveva verificato probabilmente il livello di mortalità effettiva dovuto alla sostanza.
Dal romanzo fu tratto in Italia uno degli sceneggiati del Nero Wolfe con Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, per la precisione il primo, quello pilota della serie: trasmesso nel febbraio del 1969, la sceneggiatura di Belisario Randone non si discostava molto dal romanzo, tranne che aver saltato la parentesi di Glenanna (un cottage in cui ad un certo punto si suppone possa essere stata nascosta la famosa scatola rossa) per ovvi motivi, essendo uno sceneggiato interamente ripreso in studi televisivi, e soprattutto per la sorpresa finale della falsa scatola, in cui nella trama vera c’è solo una fiala di nitrobenzolo, di cui l’omicida si serve per uccidersi (è evidente che Nero Wolfe avendo inscenato il ritrovamento della scatola, voglia dare la possibilità all’omicida di uccidersi, perché in questo modo salva anche dallo scandalo persone già provate per fatti precedenti), mentre nella trama sceneggiata in tv, di fiale non ce n’è neanche l’ombra ma solo un malloppo di documenti (quelli che in verità vengono trovati nella vera scatola dietro una pietra del camino della casa della sorella di McNair in Scozia) che in questo modo erudiscono lo spettatore su quella serie di fatti di cui invece il lettore è stato già messo a parte.
Nondimeno è evidente un altro più recondito intendimento nello sceneggiato, trasmesso sul secondo programma nazionale della RAI: quello di non parlare di suicidio, una pratica di morte che nell’Italia cattolico-democristiana era assolutamente condannata (con la dannazione eterna), ma piuttosto di arresto del reo affinchè scontasse il fio della sua colpa ed eventualmente si ravvedesse. Del resto questa tendenza a sostituire l’arresto al suicidio, è ravvisabile in altro sceneggiato di quegli anni, il Philo Vance televisivo, con Giorgio Albertazzi, in cui, ne La fine dei Greene, l’omicida viene internato in un manicomio criminale, invece che finire suicida con la propria auto. Anche nell’episodio conclusivo della miniserie di Philo Vance, lo sceneggiatore è lo stesso che di quello tratto da La scatola rossa di Stout, “Veleno in sartoria”: Belisario Randone.
Come struttura, il romanzo non è un mystery veramente classico, ma come tutti i Nero Wolfe, soprattutto quelli dagli anni 40 in poi, ma un mystery movimentato, dinamico, con ceneri hardboiled (l’interrogatorio della polizia di Perren Gebert, trovato ad introdursi di nascosto nella vilal di Glenanna, è sintomatico) ed anche una certa filiazione oltre che da Berkeley, per certi versi anche da quei romanzi che originavano da Conan Doyle, per la singolarità di far derivare tutta una situazione di cui si parla nel romanzo, da un dramma accaduto nel passato.

Pietro De Palma

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