Attenzione : Spoilers !
Non avevo letto nulla di Patrizia Calamia, anzi non
sapevo neanche chi fosse. Poi un bel giorno, non mi ricordo come sia
cominciato, o forse stavo commentando qualcosa con Stefano Di Marino sulla sua
pagina, fatto sta che si è inserita lei, e dopo qualche battuta, così si è
presentata. Conoscenza nata e destinata a far parte delle tante di Facebook? Ma
neanche per nulla. Qualche giorno dopo mi contatta: Stefano Di Marino le aveva
suggerito di mandarmi il suo ultimo libro e di chiedermi di recensirlo sul mio
blog. Io non mi sottraggo mai, tanto a me basta leggere. Però stavolta il libro
era di quei…come li chiamava Fabio Lotti? Mallopponi. 400 pagine. Non sono
abituato a ingoiarmi 400 pagine, e quindi l’ho avvisata che se mi avesse
contattato prima che prendessi servizio a scuola dopo le vacanze estive, avrei
potuto terminarlo prima e quindi anche recensirlo in tempi più stretti.
Patrizia è stata amabile e mi ha lasciato libero di governare il mio tempo come
volessi.
I protagonisti principali di Sola nell’auto, è una donna, una poliziotta. Una criminologa, e
ispettrice di polizia. E l’omicida: inafferrabile, spietato. E’ una lotta a
due, anche se potrebbe sembrare che anche altri sono gli attori: il commissario
Cavallero, il Questore Verdani, l’agente Lia Van, il sospettato principale del
delitto da cui parte l’indagine: Donati. Ma in realtà sempre tra loro due si
gioca la partita a scacchi ideale: l’assassino che vuole continuare ad
uccidere, la criminologa che vuole fermarlo prima che un’altra vittima ne vada
di mezzo. E qui le vittime sono adolescenti, ragazzine. E gli indiziati, sono i
padri.
Ma cominciamo per ordine.
Già l’inizio è un po’ spiazzante. C’è un prologo, in cui
si assapora già quale sarà il tema del romanzo, anzi uno dei temi: una ragazzina
adolescente viene strangolata e viene lasciata in un’auto.
Anni dopo.. incomincia il romanzo vero e proprio, con un
altro delitto, uguale nelle modalità al precedente: Firenze…una ragazzina
strangolata, messa in un’auto. Nessun apparente segno di violenza carnale. Ma
inequivocabile, la firma dell’assassino, di quello che sembra un appagamento
sessuale post mortem: liquido seminale sul sedile posteriore e persino sui
vestiti e sulle gambe della vittima, come se l’assassino si fosse masturbato.
Un’eventualità orrenda perché significherebbe necrofilia.
Se l’ipotesi è già orrenda di suo, essa acquista una
valenza ancora peggiore quando, esaminando gli alibi delle persone della
cerchia della ragazza, si appura che lo sperma e l’auto in cui il cadavere è
stato messo, sono del padre della ragazza, un certo Donati, separato dalla
moglie: la vittima sarebbe dovuta andare da lui, e lui non ha alcun alibi per
il periodo in cui il medico legale ha ipotizzato che sia morta la ragazza. Per
cui, viene arrestato. Un caso semplice, semplice. Il padre si professa
innocente, e del resto non si capisce il motivo per cui l’avrebbe uccisa. Il genitore
non fa alcun tentativo per nascondere le prove, anzi mette a disposizione degli
inquirenti, tutti i suoi effetti personali, e tutti i suoi strumenti di lavoro,
anche informatici. In essi la polizia non trova nulla che possa incriminare l’uomo,
tranne una conoscenza “sessuale” recente con la figlia del presidente della banca
di cui lui è funzionario: una ragazza giovane, che ha un marito giovane, ma che
abbisogna dell’esperienza sessuale di un uomo più grande di lei. Tra le cose
che appurano dall’interrogatorio di questa donna, è che recentemente aveva
avuto, nella macchina usata come provvisoria bara, un rapporto orale con lui, e
questo potrebbe aver spiegato la presenza di seme, che però non sarebbe stato presente
sulla ragazza, a meno di non ipotizzare che lui e lei avessero avuto un
rapporto orale davanti al cadavere della ragazzina. Un’ipotesi ancor più
devastante. Cosa che non si accorda per nulla con la vita e la personalità del
padre, ma anche della ragazza quanto mai furba ma solo desiderosa di non far
sapere nulla a suo marito delle sue scappatelle.
Devo dire che questa vicenda viene sviscerata
abbondantemente, finchè Monica Quanti,
cioè l’Ispettrice criminologa a cui è stata affidata l’indagine perché elabori
anche il profilo criminale del killer, riesce a convincere il suo superiore, il
Commissario Cavallero, a riaprire mentalmente il caso, non tenendo presente
quella che è la prova schiacciante: lo sperma maschile trovato sul luogo del
delitto, ammesso e non concesso che sia quello e che invece la vittima non vi
sia stata portata in un secondo tempo. Il tutto sulla base di un analogo fratto
di sangue, accaduto a Roma, anni prima: anche lì stesse modalità di esecuzione
del caso Donati. Monica si reca a Rebibbia per conoscere qualcosa che avvalori
la sua ipotesi, ma si trova un uomo distrutto mentalmente e fisicamente,
provato da un tumore di cui è affetto, che ha perso ogni aspirazione di vita.
Pochissime le occasioni in cui poteva aver avuto rapporti sessuali prima della
morte della figlia, e comunque non attinenti anche nel tempo, a quell’omicidio.
Ma la Quanti non si arrende. E comincia a prendere corpo nella sua mente un’ipotesi
assurda: un killer seriale, che uccida spinto dall’impulso sessuale e che si
sia procurato, non si sa come, il seme del padre delle sue vittime. Che tra
loro non hanno nessun tipo di legame.
Così, tanto per provare, e seguendo il proprio istinto,
viene esaminato, grazie ad un programma informatico del Ministero, tutto lo
schedario italiano di fatti di sangue che abbiano caratteristiche simili a
quello esaminato fino a quel momento, e trova l’impensabile: sette casi in
tutto che hanno stesse modalità: una ragazzina uccisa, lasciata nell’auto di
suo padre; sul corpo della vittima, strangolata, e vicino ad essa. Tracce di
liquido seminale; il padre, di solito separato, non ha alibi; ma nemmeno
movente. Eppure è inchiodato dalla prova definitiva: il suo seme, di cui ognuno
degli accusati non sa come sia arrivato sulla scena del crimine.
Ora però, la presenza sistematica di uno stesso modus
operandi, in sette casi diversi, in varie città d’Italia, fa sì che l’ipotesi
fantasiosa di un Killer seriale prenda sempre più corpo, e anche se non si
riesce a capire come il liquido seminale
di ognuno dei genitori sia potuto arrivare sulla scena del crimine, la Quanti
conduce una indagine sempre più serrata. Anche se commette un fatale errore:
Donati, era una sua conoscenza e come tale si lascia scappare con lui, la notizia
che vi sono vari casi già apparentemente risolti, che hanno modalità esattamente
identiche a quello per cui è stato accusato lui. Ovviamente la notizxia
rimbalza sui giornali, la Quanti è messa sotto accusa, Cavallero è furibondo, e
ancor più il Questore Verdani, che se all’inizio non è ancora del tutto
persuaso dell’innocenza di Donati, se ne convince piano piano successivamente
quando il killer, allarmato dalle notizie dei giornali, uccide uno dei padri in
carcere, agendo per mezzo di una infermiera, pagata da lui evidentemente; e
tenta di ucciderne un altro, il cui alibi, altrimenti assente come negli altri
casi, aveva beneficiato di una eventualità remota: un cambio nella
disponibilità di un turno di notte, per cui il padre in questo caso chirurgo si
era salvato dall’accusa di aver ucciso la figlia, da un’operazione chirurgica
che aveva condotto nelle ore in cui lei veniva uccisa.
Accadono altre cose, tra cui la scoperta di un possibile sospettato, e cade l’ipotesi che fosse una
serie di delitti provocati da un insano desiderio sessuale, affermandosi quello
reale: una vendetta. Ma contro chi? Cosa hanno fatto quei padri, tutti diversi
e non legati da un qualsivoglia legame?
Ma la Quanti tra le cose rinvenute in questo luogo, trova
anche una foto che le sembra in qualche modo familiare finchè ne mette a fuoco
il significato:la sua famiglia è in pericolo.
Finale sconvolgente e imprevisto.
Patrizia Calamia si impone nel vasto mercato italiano del
genere con uno straordinario romanzo, a tutto tondo. Mi spiego.
Non è un romanzo giallo, tout court, ma è un romanzo di
riflessione. Vorrei dire un romanzo poliziesco sociale. Un romanzo che quando
finisce fa male. Un po’ come il romanzo di Bernardo Cicchetti che recensii
tempo fa, Il rifugio dell’orco: due
romanzi simili nella concezione, perché entrambi parlano di infanzia negata, di
pedofilia. Sofferta dall’omicida per la sofferenza del figlio, nel primo;
sofferta dall’omicida in prima persona, nel secondo. Non Noir ma gialli
classici, anche se legati e venati da strutture narrative che afferiscono più
al noir che al mystery. Ma di mystery si tratta.
Un Mystery, in cui il detective è una poliziotta. Le
indagini sono quelle di routine di una struttura di indagine, e quindi ci
troviamo dinanzi ad un Procedural. Condotto con estrema intelligenza.
Patrizia Calamia si manifesta scrittrice a tutto tondo. Le
piace scrivere, le piace narrare. Non si ferma alla storia in se per sé, ma per
rendere simpatici i personaggi, crea tante storie parallele, anche di
personaggi comprimari. Tra i tanti, quella del Commissario Cavallero, caduto
nel tranello della gemella monozigote di un agente scelto della sua squadra,
Lia Van, senza che lui sappia nulla delle due gemelle identiche, che solo in un
secondo tempo capisce che quella con cui è andato a letto è la sorella, mentre
il suo agente scelto è quello invece con cui è andato ad eventi culturali. Tra i
due nasce qualcosa, che nel romanzo è accennato, per cui è come se Patrizia
avesse pensato ad un sequel, che io sono sicuro che ci sarà. Il finale è troppo
brutto e troppo irrisolto perché la storia finisca così, solo col dolore di una
madre, dell’amore di una madre di cui l’assassino non aveva mai goduto.
Il romanzo si manifesta per di più come un romanzo dei
falliti, degli sconfitti: il killer che è stato molestato quando era giovane e
che non ha mai avuto una madre, ma solo due padri indegni, viene fermato per
sempre; ognuno dei padri accusati dell’omicidio della figlia è debole di per sé;
Monica è fallita perché rivela il disegno dell’omicida condannando a morte sua
figlia, pur non sapendolo, e anche perché viene tradita da suo marito; suo
marito è fallito perchè attratto nella rete dell’assassino in maniera puerile;
e sconfitti sono tutti quelli che lì sul luogo, per non colpire omicida e
vittima, hanno indugiato troppo e si son trovati poi una ragazza esanime.
Il dolore di una madre deve distruggere il male prodotto da dei padri
indegni. Il dolore di una madre che non solo distrugge una sequenza di morte,
ma distrugge anche il male dell’omicida, trasformandolo nel rimorso per aver
fatto piangere una madre non avuta.
Il romanzo è lungo (400 pagine) e corposo. Dopo un inizio scoppiettante, si adagia per
200 pagine sull’omicidio di Donati, per poi ritrovare lena e ritmo appena si
scopre la sequenza di omicidi simili, e diventare molto fluido appena si
capisce il fine ultimo dell’assassino e il tentativo della madre di impedirlo.
Romanzo scritto da una donna, molto delicato in
determinati frangenti, per tutti. Non solo per lettura evasiva, ma per pensare.
In certi momenti mi è sembrato più un tentativo di dire qualcosa, di trasmettere
un messaggio, che non quello di scrivere solo un romanzo giallo. Non so..come
lo può essere Dopo lunga e penosa
malattia di Andrea Vitali.
Più che un romanzo giallo, un anti romanzo.
Devo dire che la genialata dell'espediente dello sperma e la sua
soluzione mi hanno messo nel sacco. Ed è raro che uno scrittore ci
riesca. I miei lettori lo sanno. Solo i grandi riescono a farlo. E chi
ha una grande fantasia. Patty ha una grande fantasia, che è un vanatggio
enorme per chi scrive mystery. Altrimenti sono piatti e ovvi.
E questo non lo è.
Da leggere assolutamente
E questo non lo è.
Da leggere assolutamente
Pietro
De Palma
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