domenica 21 ottobre 2018

Patrizia Calamia: Sola nell'auto. Bertoni Editore, 405 pagine, 2018.


 
 Attenzione : Spoilers !
 
Non avevo letto nulla di Patrizia Calamia, anzi non sapevo neanche chi fosse. Poi un bel giorno, non mi ricordo come sia cominciato, o forse stavo commentando qualcosa con Stefano Di Marino sulla sua pagina, fatto sta che si è inserita lei, e dopo qualche battuta, così si è presentata. Conoscenza nata e destinata a far parte delle tante di Facebook? Ma neanche per nulla. Qualche giorno dopo mi contatta: Stefano Di Marino le aveva suggerito di mandarmi il suo ultimo libro e di chiedermi di recensirlo sul mio blog. Io non mi sottraggo mai, tanto a me basta leggere. Però stavolta il libro era di quei…come li chiamava Fabio Lotti? Mallopponi. 400 pagine. Non sono abituato a ingoiarmi 400 pagine, e quindi l’ho avvisata che se mi avesse contattato prima che prendessi servizio a scuola dopo le vacanze estive, avrei potuto terminarlo prima e quindi anche recensirlo in tempi più stretti. Patrizia è stata amabile e mi ha lasciato libero di governare il mio tempo come volessi.

I protagonisti principali di Sola nell’auto, è una donna, una poliziotta. Una criminologa, e ispettrice di polizia. E l’omicida: inafferrabile, spietato. E’ una lotta a due, anche se potrebbe sembrare che anche altri sono gli attori: il commissario Cavallero, il Questore Verdani, l’agente Lia Van, il sospettato principale del delitto da cui parte l’indagine: Donati. Ma in realtà sempre tra loro due si gioca la partita a scacchi ideale: l’assassino che vuole continuare ad uccidere, la criminologa che vuole fermarlo prima che un’altra vittima ne vada di mezzo. E qui le vittime sono adolescenti, ragazzine. E gli indiziati, sono i padri.

Ma cominciamo per ordine.

Già l’inizio è un po’ spiazzante. C’è un prologo, in cui si assapora già quale sarà il tema del romanzo, anzi uno dei temi: una ragazzina adolescente viene strangolata e viene lasciata in un’auto.

Anni dopo.. incomincia il romanzo vero e proprio, con un altro delitto, uguale nelle modalità al precedente: Firenze…una ragazzina strangolata, messa in un’auto. Nessun apparente segno di violenza carnale. Ma inequivocabile, la firma dell’assassino, di quello che sembra un appagamento sessuale post mortem: liquido seminale sul sedile posteriore e persino sui vestiti e sulle gambe della vittima, come se l’assassino si fosse masturbato.

Un’eventualità orrenda perché significherebbe necrofilia.

Se l’ipotesi è già orrenda di suo, essa acquista una valenza ancora peggiore quando, esaminando gli alibi delle persone della cerchia della ragazza, si appura che lo sperma e l’auto in cui il cadavere è stato messo, sono del padre della ragazza, un certo Donati, separato dalla moglie: la vittima sarebbe dovuta andare da lui, e lui non ha alcun alibi per il periodo in cui il medico legale ha ipotizzato che sia morta la ragazza. Per cui, viene arrestato. Un caso semplice, semplice. Il padre si professa innocente, e del resto non si capisce il motivo per cui l’avrebbe uccisa. Il genitore non fa alcun tentativo per nascondere le prove, anzi mette a disposizione degli inquirenti, tutti i suoi effetti personali, e tutti i suoi strumenti di lavoro, anche informatici. In essi la polizia non trova nulla che possa incriminare l’uomo, tranne una conoscenza “sessuale” recente con la figlia del presidente della banca di cui lui è funzionario: una ragazza giovane, che ha un marito giovane, ma che abbisogna dell’esperienza sessuale di un uomo più grande di lei. Tra le cose che appurano dall’interrogatorio di questa donna, è che recentemente aveva avuto, nella macchina usata come provvisoria bara, un rapporto orale con lui, e questo potrebbe aver spiegato la presenza di seme, che però non sarebbe stato presente sulla ragazza, a meno di non ipotizzare che lui e lei avessero avuto un rapporto orale davanti al cadavere della ragazzina. Un’ipotesi ancor più devastante. Cosa che non si accorda per nulla con la vita e la personalità del padre, ma anche della ragazza quanto mai furba ma solo desiderosa di non far sapere nulla a suo marito delle sue scappatelle.

Devo dire che questa vicenda viene sviscerata abbondantemente, finchè Monica Quanti,  cioè l’Ispettrice criminologa a cui è stata affidata l’indagine perché elabori anche il profilo criminale del killer, riesce a convincere il suo superiore, il Commissario Cavallero, a riaprire mentalmente il caso, non tenendo presente quella che è la prova schiacciante: lo sperma maschile trovato sul luogo del delitto, ammesso e non concesso che sia quello e che invece la vittima non vi sia stata portata in un secondo tempo. Il tutto sulla base di un analogo fratto di sangue, accaduto a Roma, anni prima: anche lì stesse modalità di esecuzione del caso Donati. Monica si reca a Rebibbia per conoscere qualcosa che avvalori la sua ipotesi, ma si trova un uomo distrutto mentalmente e fisicamente, provato da un tumore di cui è affetto, che ha perso ogni aspirazione di vita. Pochissime le occasioni in cui poteva aver avuto rapporti sessuali prima della morte della figlia, e comunque non attinenti anche nel tempo, a quell’omicidio. Ma la Quanti non si arrende. E comincia a prendere corpo nella sua mente un’ipotesi assurda: un killer seriale, che uccida spinto dall’impulso sessuale e che si sia procurato, non si sa come, il seme del padre delle sue vittime. Che tra loro non hanno nessun tipo di legame.

Così, tanto per provare, e seguendo il proprio istinto, viene esaminato, grazie ad un programma informatico del Ministero, tutto lo schedario italiano di fatti di sangue che abbiano caratteristiche simili a quello esaminato fino a quel momento, e trova l’impensabile: sette casi in tutto che hanno stesse modalità: una ragazzina uccisa, lasciata nell’auto di suo padre; sul corpo della vittima, strangolata, e vicino ad essa. Tracce di liquido seminale; il padre, di solito separato, non ha alibi; ma nemmeno movente. Eppure è inchiodato dalla prova definitiva: il suo seme, di cui ognuno degli accusati non sa come sia arrivato sulla scena del crimine.

Ora però, la presenza sistematica di uno stesso modus operandi, in sette casi diversi, in varie città d’Italia, fa sì che l’ipotesi fantasiosa di un Killer seriale prenda sempre più corpo, e anche se non si riesce  a capire come il liquido seminale di ognuno dei genitori sia potuto arrivare sulla scena del crimine, la Quanti conduce una indagine sempre più serrata. Anche se commette un fatale errore: Donati, era una sua conoscenza e come tale si lascia scappare con lui, la notizia che vi sono vari casi già apparentemente risolti, che hanno modalità esattamente identiche a quello per cui è stato accusato lui. Ovviamente la notizxia rimbalza sui giornali, la Quanti è messa sotto accusa, Cavallero è furibondo, e ancor più il Questore Verdani, che se all’inizio non è ancora del tutto persuaso dell’innocenza di Donati, se ne convince piano piano successivamente quando il killer, allarmato dalle notizie dei giornali, uccide uno dei padri in carcere, agendo per mezzo di una infermiera, pagata da lui evidentemente; e tenta di ucciderne un altro, il cui alibi, altrimenti assente come negli altri casi, aveva beneficiato di una eventualità remota: un cambio nella disponibilità di un turno di notte, per cui il padre in questo caso chirurgo si era salvato dall’accusa di aver ucciso la figlia, da un’operazione chirurgica che aveva condotto nelle ore in cui lei veniva uccisa.



Accadono altre cose, tra cui la scoperta di un possibile sospettato, e cade l’ipotesi che fosse una serie di delitti provocati da un insano desiderio sessuale, affermandosi quello reale: una vendetta. Ma contro chi? Cosa hanno fatto quei padri, tutti diversi e non legati da un qualsivoglia legame?

Ma la Quanti tra le cose rinvenute in questo luogo, trova anche una foto che le sembra in qualche modo familiare finchè ne mette a fuoco il significato:la sua famiglia è in pericolo.

Finale sconvolgente e imprevisto.



Patrizia Calamia si impone nel vasto mercato italiano del genere con uno straordinario romanzo, a tutto tondo. Mi spiego.

Non è un romanzo giallo, tout court, ma è un romanzo di riflessione. Vorrei dire un romanzo poliziesco sociale. Un romanzo che quando finisce fa male. Un po’ come il romanzo di Bernardo Cicchetti che recensii tempo fa, Il rifugio dell’orco: due romanzi simili nella concezione, perché entrambi parlano di infanzia negata, di pedofilia. Sofferta dall’omicida per la sofferenza del figlio, nel primo; sofferta dall’omicida in prima persona, nel secondo. Non Noir ma gialli classici, anche se legati e venati da strutture narrative che afferiscono più al noir che al mystery. Ma di mystery si tratta.

Un Mystery, in cui il detective è una poliziotta. Le indagini sono quelle di routine di una struttura di indagine, e quindi ci troviamo dinanzi ad un Procedural. Condotto con estrema intelligenza.

Patrizia Calamia si manifesta scrittrice a tutto tondo. Le piace scrivere, le piace narrare. Non si ferma alla storia in se per sé, ma per rendere simpatici i personaggi, crea tante storie parallele, anche di personaggi comprimari. Tra i tanti, quella del Commissario Cavallero, caduto nel tranello della gemella monozigote di un agente scelto della sua squadra, Lia Van, senza che lui sappia nulla delle due gemelle identiche, che solo in un secondo tempo capisce che quella con cui è andato a letto è la sorella, mentre il suo agente scelto è quello invece con cui è andato ad eventi culturali. Tra i due nasce qualcosa, che nel romanzo è accennato, per cui è come se Patrizia avesse pensato ad un sequel, che io sono sicuro che ci sarà. Il finale è troppo brutto e troppo irrisolto perché la storia finisca così, solo col dolore di una madre, dell’amore di una madre di cui l’assassino non aveva mai goduto.

Il romanzo si manifesta per di più come un romanzo dei falliti, degli sconfitti: il killer che è stato molestato quando era giovane e che non ha mai avuto una madre, ma solo due padri indegni, viene fermato per sempre; ognuno dei padri accusati dell’omicidio della figlia è debole di per sé; Monica è fallita perché rivela il disegno dell’omicida condannando a morte sua figlia, pur non sapendolo, e anche perché viene tradita da suo marito; suo marito è fallito perchè attratto nella rete dell’assassino in maniera puerile; e sconfitti sono tutti quelli che lì sul luogo, per non colpire omicida e vittima, hanno indugiato troppo e si son trovati poi una ragazza esanime.

Il dolore di una madre deve distruggere il male prodotto da dei padri indegni. Il dolore di una madre che non solo distrugge una sequenza di morte, ma distrugge anche il male dell’omicida, trasformandolo nel rimorso per aver fatto piangere una madre  non avuta.

Il romanzo è lungo (400 pagine) e corposo.  Dopo un inizio scoppiettante, si adagia per 200 pagine sull’omicidio di Donati, per poi ritrovare lena e ritmo appena si scopre la sequenza di omicidi simili, e diventare molto fluido appena si capisce il fine ultimo dell’assassino e il tentativo della madre di impedirlo.

Romanzo scritto da una donna, molto delicato in determinati frangenti, per tutti. Non solo per lettura evasiva, ma per pensare. In certi momenti mi è sembrato più un tentativo di dire qualcosa, di trasmettere un messaggio, che non quello di scrivere solo un romanzo giallo. Non so..come lo può essere Dopo lunga e penosa malattia di Andrea Vitali.

Più che un romanzo giallo, un anti romanzo.  

Devo dire che la genialata dell'espediente dello sperma e la sua soluzione mi hanno messo nel sacco. Ed è raro che uno scrittore ci riesca. I miei lettori lo sanno. Solo i grandi riescono a farlo. E chi ha una grande fantasia. Patty ha una grande fantasia, che è un vanatggio enorme per chi scrive mystery. Altrimenti sono piatti e ovvi. 
E questo non lo è.
Da leggere assolutamente



Pietro De Palma

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