Il romanzo poliziesco era già nato tempo prima, ma fu intorno agli anni ’20 che cominciò a ingranare consensi e attirare le masse: il Poirot di Agatha Christie, il Philo Vance di S.S. Van Dine, il signor Reeder di Edgar Wallace. E anche nell’Italia fascista dei movimenti futuristi, delle trasvolate e delle grandi opere nazionali (e degli assassini politici), un giorno arrivò il Romanzo Poliziesco; e tanto grande allora era il successo che questo genere letterario riscuoteva in ogni parte d’Europa, che, anche in Italia, fu fondata la collana de I Gialli Mondadori, nel 1929. Ma chissà perché l’Italia fascista, nonostante il successo che arrideva a Philo Vance, Poirot e Ellery Queen, non amò questo nuovo genere, semmai lo tollerò inizialmente.
Il fatto era che il fascismo guardava in maniera assai mirata alla comunicazione di massa: e mezzo principe, prima ancora di radio e cinema, erano i libri, diffusi principalmente e inizialmente tra le classi borghesi e nei centri urbani; ma l’esplosione del poliziesco coinvolse ben presto le masse: il fascismo non guardava di buon occhio a questo tipo di letteratura, considerato immorale, per contenuti (la realizzazione di un fatto delittuoso) ma anche per provenienza (l’origine era prevalentemente il mondo anglosassone, il cui stile di vita era visto come corruttore della “sana gioventù fascista”). Ecco allora perché più o meno alla metà degli anni Trenta del Novecento, il fascismo impose delle limitazioni oltre che delle direttive politico culturali: accettato o tollerato il giallo, si richiese che le case editrici includessero almeno per il 20% del proprio parco titoli una quota di gialli creati da autori italiani; inoltre erano indicate delle direttive cui non si poteva derogare: i delitti si imponeva che avvenissero in ambienti esotici se non cosmopolitici; che non venissero rappresentati delinquenti “italici” ma stranieri e che i fatti delittuosi avvenissero in ambienti viziosi quando non depravati, che non ci dovevano essere suicidi, e che il lieto fine fosse obbligatorio a dimostrare che la risoluzione del delitto dovesse identificarsi in un ritorno all’ordine delle cose.
E’ così che in un batter d’occhio la Mondadori mise su un nutrito gruppo di autori da Mariotti a Spagnol, da Vailati a Varaldo. Due autori, emersero in particolar modo, e i loro romanzi ancor oggi si leggono con piacere: Augusto De Angelis creò il Commissario De Vincenzi, Ezio d’Errico il Commissario Richard : due autori italiani, due figure diverse. Entrambi però attirati e conquistati dal mito di Simenon, il commissario Maigret. Perché proprio Maigret fosse l’esempio del detective da seguire, più dei suoi colleghi d’oltreoceano vicini all’esempio sherlockiano, è da ricercarsi nel fatto che Simenon più di altri creasse per la prima volta il romanzo poliziesco borghese, realizzando il tutto attraverso due caratteri che diverranno peculiari caratteristiche di tutti i romanzi con Maigret: l’umanità del commissario ed il realismo delle situazioni. Proprio tali caratteristiche in opposizione al giallo del detective superuomo, dell’indagine puramente indiziaria e della conseguente logica abduttiva necessaria a rimettere ordine nel disordine del delitto, conquistarono gli scrittori italiani. Conseguentemente i personaggi degli scrittori che si votarono a costituire quella che potremmo definire una “scuola di Simenon”, rifuggivano dal sensazionalismo aristocratico per rifulgere invece nella vita di ogni giorno, in cui il delitto è quasi sempre banale come la vita che ci circonda, e non invece quasi un’opera di ingegno, come andava predicando il De Quincey.
De Angelis volle muoversi nell’angusto spazio di casa nostra: per certi versi, la sua scelta fu coraggiosa, nonostante il suo eroe incontrasse in quegli anni un certo successo. La prima avventura è infatti del 1935, e in nove anni, fino al fatidico 1944, in cui De Angelis morì in seguito ad un pestaggio fascista, consegnò il suo lascito nell’ambito del genere poliziesco.
Va detto che anche la critica letteraria aveva cercato di stigmatizzare a riprese – in certo senso anche pilotata – la scelta delle masse di ricorrere ad una scrittura “degenerata” quale il Giallo, che poteva influire pesantemente sull’animo dei giovani fascisti.
Alberto Savinio nel 1932 aveva detto : “…Il romanzo poliziesco è essenzialmente anglosassone. La metropoli inglese o americana, con i suoi bassifondi sinistri e popolati come gli abissi marini di mostri ciechi, le sue squadre di delinquenti disciplinati e militarizzati, le sue folle nere come l’acqua delle fogne, l’aspetto spettrale delle sue architetture, offre il quadro più favorevole, la messinscena più adatta al quadro del delitto. S’immagina male un romanzo poliziesco dentro la cinta daziaria di Valenza o di Mantova, di Avignone o di Reggio Emilia. Il viaggio di Cristoforo Colombo, nonché segnare la fine dell’evo di mezzo, segna pure nel mondo latino, il fallimento del mistero della mezzanotte. Nel mondo anglosassone invece esso mistero non solo perdura, ma col volgere del tempo si rimoderna, si industrializza, si meccanizza, si standardizza. E come concepire romanzo poliziesco cui manchi l’atmosfera, il brivido del mistero della mezzanotte?” (“Romanzo Poliziesco”, “L’Ambrosiano”, 23/8/1932; anche Souvenirs, Palermo, Sellerio, 1989, p. 144). Alberto Savinio era lo pseudonimo sotto cui si celava il pittore, letterato e critico, Andrea Francesco Alberto de Chirico ( fratello del pittore italiano Giorgio De Chirico), che scrisse tra l’altro dei saggi per la rivista “L’Ambrosiano” diretta da Leo Longanesi.
A questa dichiarazioni di intenti, aveva risposto lo stesso De Angelis nella prefazione a Le sette picche doppiate (N. 211, Romantica Mondiale Sonzogno, 1940), dal titolo : “Il romanzo Giallo. Confessioni e meditazioni”: “..L’essenziale, inoltre, per me è creare un clima. Far vivere al lettore il dramma. E questo lo si può ottenere anche facendo svolgere la vicenda in Italia, con creature italiane. […] Questo è certo, ad ogni modo. Che, se il romanzo poliziesco deve nascere anche da noi, ha da essere romanzo italiano, caratteristicamente nostro, luminosamente nostro.
Metterci proprio noi a scriver storie poliziesche, con personaggi americani o inglesi, che si svolgono su suolo straniero, non potrà mai costituire esercitazione artistica, nonché arte.
Raffazzonatura semmai. Pedissequa imitazione.”.
“Il banchiere assassinato” (anno 1935) è il primo romanzo della serie : qui De Angelis, fine letterato imprestato al genere poliziesco, rivela la sua natura più profonda, attribuendo al suo personaggio il suo amore per la poesia e la letteratura : il Commissario De Vincenzi è una figura anonima, che guarda con sguardo disincantato e anche alquanto atarassico allo svolgersi della vita: nasconde un profondo e cupo pessimismo, un decadentismo che potremmo definire dannunziano, quasi nichilista, nel vedere il mondo non a colori ma secondo varie nuances di grigio; e gli conferisce anche l’interesse per le idee e le tesi freudiane, “l’intuizione psicologica e l’osservazione dell’involontario da cui emerge l’indizio segreto”.
Qualcuno potrebbe storcere il naso: decadentismo dannunziano e filiazione simenoniana? Secondo me le due cose possono anche coesistere: in fondo il decadentismo dannunziano è figlio di un’epoca e al di là del modo di scrivere è espressione di un modo di vedere le cose più in bianco e nero che non a colori: la Milano di De Angelis non è tenebrosa quale poteva essere la Parigi di Balzac, ma nebbiosa e uggiosa, una Milano che attraverso il suo clima esprimeva anche la disaffezione politica del Nostro; nel tempo stesso Simenon è essenzialmente il trionfo del romanzo della borghesia, dell’umanità, e della realtà: si vuole affermare che i romanzi di De Angelis non siano borghesi, umani e realistici? Essi sono gli stessi in cui si muove il più noto Maigret: portinerie, bar, locali fumosi, le strade deserte di notte, le atmosfere caliginose delle città sonnecchianti; “appartamenti, circoli, alberghi, botteghe artigiane, mercati, fiere, ditte industriali, uffici, banche”. E i soggetti, pure simili: garzoni, impiegati, camerieri, facchini, dame, commercianti, gangsters, massaie, commesse, telefoniste, nullatenenti, ricconi annoiati. Del resto, ci pare che proprio a Maigret, De Angelis guardi, introducendo il suo commissario: infatti, come il Maigret che conosciamo in “Pietro il Lettone” : “..Il commissario Maigret..alzò la testa ed ebbe l’impressione che il brontolio della stufa di ghisa posta al centro dell’ufficio e collegata al soffitto da un grosso tubo nero, si stesse affievolendo…” ( Georges Simenon, Pietr il Lettone, Le inchieste del commissario Maigret, RCS Corriere della Sera, Milano, 2009, pag.11), il commissario De Vincenzi, proprio in Il Banchiere assassinato entra in scena subito, sin dalla prima pagina e lo vediamo alle prese con una vecchia stufa : “..mise un legno nella stufa e aprì il tiraggio. Per fumare, fumava, quella stufa..” (Augusto De Angelis, Il banchiere assassinato, Sellerio editore, Palermo, 2009, pag.12). A me il paragone sembra voluto, quasi una citazione, tanto più perché entrambi sono presentati nel proprio ufficio, all’inizio del romanzo.
La morte tragica di De Angelis ci fornisce una traccia per poter a posteriori analizzare la sua opera: molto spesso si nota, anche nel consueto giro di luoghi comuni e di linguaggi acquisiti, una sua netta distanza dal regime fascista, molto pericolosa, tanto da farlo tenere sott’occhio dalla censura; e del resto, la creazione di un commissario per niente celebrativo del regime e così poco impegnato ad esaltarne le positive virtù italiche, così poco fisico, anzi tanto anonimo dal comparire nel suo primo romanzo naturalmente, come se fosse un amico già conosciuto, e non illustrandone per niente l’aspetto, ma solo virtù nascoste, l’amore per la letteratura (“Le serpent à plumes” di Lawrence; “Le Epistole” di San Paolo; l’ “Eros” di Platone), tanto da interrogarsi : “.. Perché mai aveva fatto il commissario di Pubblica Sicurezza, lui?” (Il banchiere assassinato, pag. 12), beh proprio questo sarebbe bastato a interrogarsi sulla sua identità fascista o meno. Tanto più che il fascismo rimase sempre estremamente sospettoso verso la cultura letteraria cosiddetta d’elite, e quindi il Giallo, anche se non era proprio il prodotto che ci si sarebbe aspettato di perorare, finiva per essere pur sempre un prodotto di massa.
Tuttavia, crediamo di poter dire che una sua politica letteraria più accorta, avrebbe potuto concorrere ad evitargli guai successivi: sarebbe bastato anche dare al suo così anonimo commissario un’ “aurea più fascista” : un personaggio più fisico, baldanzoso, bombastico, un detective più ruffiano anche.
Il suo non sentirsi intimamente fascista, che all’indomani del settembre del 1943 gli procurò l’accusa di antifascismo, l’internamento nel carcere di Como (pare per l’accusa rivoltagli da una donna) e poi la morte avvenuta a Bellagio nel 1944 dopo un violento pestaggio (pare che proprio la donna che l’aveva accusato, vedendolo molto deperito, si fosse scusata e che lui avesse liquidato le scuse di lei con sufficienza, “provocando la reazione” dell’accompagnatore di lei, un fascista, che lo massacrò di botte), si rende già manifesto ne “Il Candeliere a sette fiamme”. Qui il delitto matura in uno squallido albergo, e nel milieu in cui ben presto il Commissario deve investigare si ritrovano i soliti elementi stranieri, una vera spy-story in cui elementi ebrei hanno un ruolo di primo piano nella neonata questione palestinese. Ma proprio nel tratteggiarli, De Angelis rinuncia in certo modo alla propaganda di regime e pur nei luoghi comuni (l’ebreo è un soggetto con dei rilievi fisici ben definiti) egli è dalla loro parte, prende le parti degli ebrei e ne fa degli eroi nel suo romanzo.
I romanzi di De Angelis, sono innanzitutto “d’atmosfera”, perché devono indicare gli ambienti di vita che sono alla base delle vicende delittuose. Sono anche ricchi di vita talora, di ritmo, ma il commissario vi partecipa quasi flemmaticamente: come un placido fiume che scorre sotto le arcate del ponte, il commissario è lì, che collega le varie intuizioni e i vari indizi, in attesa che gli baleni l’intuizione giusta: poi basta solo non perderla di vista e semmai collegarla al resto, per avere la meglio sull’evento delittuoso; egli è un fine poeta, ma diversamente dagli altri investigatori tipo Philo Vance non si da mai arie; pur essendolo non incarna la figura del commissario tutto d’un pezzo, come se la cosa non lo interessasse poi molto; è versato nelle arti, osserva, ma non fa risaltare mai la profonda conoscenza; è taciturno e come chiuso in una sua sfera di interiorità, e analizza la realtà con raro acume psicologico.
Nell’analisi mai meramente indiziaria, De Angelis rivela un aspetto che lo caratterizza peculiarmente: il suo commissario, dalla figura malinconica e sempre distaccata dai clamori del mondo in cui si muove, è un soggetto che fa della riflessione esistenziale, ed è perciò in certo senso in posizione critica rispetto a quanto lo attornia, senza ricalcare in alcun modo i modelli proposti da altri detectives di successo. De Angelis del resto lo manifestò in più d’una occasione : “..Mi sono proposto di fare romanzi polizieschi in cui le persone vivono secondo natura”. Maigret ( come poi fa De Vincenzi ), sa ascoltare e guardare e scopre più verità con la psicologia di quanto non avvenga con le perizie balistiche” (G. Benelli, “La fortuna italiana di Georges Simenon”,in Critica e società di massa,Trieste, Lint, 1983, p. 306).
E lo stesso Commissario De Vincenti che in fondo è l’immagine incarnata dell’immaginario di De Angelis, muove le sue indagini partendo da caratteristiche che sono proprie del decadentismo romantico che egli incarna: con sensibilità romantica, intuizione e psicologia l’indagine poliziesca diventa per lui la “considerazione psicologica del clima del delitto e delle persone, che si muovono dentro e attorno al dramma”; e lui, che è un sensitivo, “..in fondo è un romantico a cui lo studio dell’anima umana, a ogni nuova esperienza, procura soltanto dolore. Qualcuno aveva detto di lui che, come il demonio cercava più le anime che i corpi… Un povero demonio, lui… E un tristo mestiere il suo: cercatore di anime”. Perché De Vincenti, per acchiappare il reo, deve entrare nella sua testa, ragionare come lui, diventare per un attimo egli stesso l’assassino, secondo un modo di fare che è tipico dei detectives d’oltreoceano.
Interessante è sottolineare che ancora, nonostante il tentativo di privilegiare l’indagine psicologica a scapito di quella indiziaria, e nonostante ancora egli dica, sempre nella sue “Confessioni e Meditazioni” : “..Da noi, manca tutto, nella vita reale per poter congegnare un romanzo poliziesco del tipo americano o inglese. Mancano i detectives, mancano i policemen, mancano i gangsters, mancano persino gli ereditieri fragili e i vecchi potenti di denaro e di intrighi disposti a farsi uccidere.Non mancano, sebbene in scala ridotta, pur troppo i delitti. Non mancano le tragedie.Perché non considerare tali ineluttabili fenomeni della vita sociale come materia di vita umana, come materia di indagine artistica?”, egli prenda tuttavia anche qualcos’altro dal giallo d’oltreoceano: lo testimonia la tendenza alla “spiegazione finale” tipica del Giallo Classico di tipo anglosassone, che in lui diventa, nel suo primo Giallo, “Il banchiere assassinato”, “la Conferenza di De Vincenzi”.
Altro carattere ancora che rileviamo in De Angelis è una tendenza già espressa da Simenon: in “..un elemento innovativo all’interno del genere poliziesco: l’analisi del carattere dei personaggi, l’attenzione prestata dall’autore alla loro psicologia e specialmente alle delicate espressioni e ai più misteriosi recessi dell’animo femminile, un oggetto narrativo trascurato o mortificato prima di Simenon” (Valentina Catania, Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco” in Italia nel primo trentennio del Novecento, APAV, 2006, pag.72). Lo si vede ne “Il mistero delle tre orchidee”: “..Sapeva che con una domanda improvvisa e inaspettata si può prendere di sorpresa un uomo; ma non si prende mai alla sprovvista una donna. Essa ha la menzogna facile, il diversivo pronto, la deviazione immediata” (Augusto De Angelis, Il mistero delle tre orchidee, Sellerio, 2001, pag.38): vien quasi da chiedersi quale fosse il successo con le donne di De Angelis/De Vincenzi, velato secondo noi da una certa misoginia.
Pietro De Palma
(*) L’articolo originariamente fu pubblicato anni fa su EuroPolar
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