Nel 1958, con la pubblicazione di The Finishing Stroke, la carriera letteraria dei due cugini Frederic Dannay e Manfred B. Lee, che dal 1929 scrivevano sotto lo pseudonimo Ellery Queen, pareva essersi volontariamente conclusa. The Finishing Stroke, romanzo insolito e singolare anche all’interno di una serie che si era sempre distinta per la sua totale originalità, era stato concepito da Dannay e Lee proprio come il passo definitivo e irrevocabile di quella che i Queen consideravano ormai una attività sempre più difficile e sempre meno gratificante: giustificare e legittimare la sopravvivenza di quello che il critico e romanziere Francis M. Nevins volle poi definire come «enigma deduttivo formale». In sintesi, i due cugini trovavano ormai anacronistico inserire un personaggio come Ellery Queen, quintessenza del ragionamento e della deduzione, all’interno di scenari criminali sempre più dominati da moderne tecniche d’investigazione poliziesca. Il problema, del resto, veniva da lontano, causato non tanto da apparenti epigoni di Raymond Chandler come Ross Macdonald quanto da «eversori» clamorosamente amorali (per l’epoca) come Mickey Spillane, il cui primo romanzo I, the Jury (1947) vendette in pochi anni la bellezza di tre milioni e mezzo di copie. Così come non è da escludere che l’apparizione (1956) e il rapido successo di un autore come Ed McBain col suo 87° Distretto, convinto assertore – almeno nei primi tempi – di una stretta aderenza a forme di rigoroso naturalismo e realismo, avessero persuaso un attento osservatore della scena come Frederic Dannay che il tipo di romanzo poliziesco propugnato da Queen per quasi un trentennio rischiasse di diventare un reperto archeologico (e che poi non sia andata proprio così, e che lo stesso McBain si sia rivelato uno squisito cultore, e a volte praticante, del giallo classico è tutt’altra faccenda).
È comunque innegabile che, già dai primi anni Cinquanta, per l’enigma deduttivo formale le cose avessero preso una brutta piega. Diabolici pilastri della Golden Age come John Dickson Carr (nato nel 1906, attivo dalla fine degli anni Venti e praticamente coetaneo dei Queen) si sentivano a disagio in un mondo molto diverso da quello che avevano conosciuto e annaspavano con grande fatica per restare più o meno a galla, mentre altri autori di pregio come i due componenti della ditta «Patrick Quentin» stavano vivendo fortissime tensioni interne destinate a portarli allo scioglimento della partnership e allo spostamento verso il giallo psicologico e di costume. La Seconda guerra mondiale aveva nettamente contribuito a cambiare i gusti del pubblico, e tra i grandi degli anni Trenta e Quaranta solo i romanzi ibridi di uno Erle Stanley Gardner e di un Rex Stout avevano ancora la forza (e che forza) di tenere botta trovando – nel caso di Gardner – un fondamentale sostegno in un mezzo in rapidissima ascesa come la tv. Di conseguenza, gli anni Cinquanta dei Queen furono un periodo di esperimenti sempre più azzardati, alcuni largamente riusciti e altri assai meno. Il personaggio Ellery, nel nuovo contesto socio-culturale, rischiava di diventare a sua volta una sorta di figura di cartone, e i frenetici tentativi di Dannay e Lee di trovargli una ricollocazione, soprattutto cercando di cancellarne – a volte con mano fin troppo pesante – quell’aria di infallibilità che aveva caratterizzato i loro capolavori degli anni Trenta, recavano dentro di sé l’evidente germe della sconfitta definitiva. E, perlomeno in apparenza, non poteva che finire così.
A posteriori, la cronologia queeniana ci racconta che a The Finishing Stroke avrebbe fatto sì seguito The Player on the Other Side, ma solamente nel 1963, ovvero con un intervallo di cinque anni. Il lettore dell’epoca, invece, vide già nel 1961 apparire sul mercato un nuovo romanzo firmato «Ellery Queen», Dead Man’s Tale. A questo lavoro, che segnava una completa rottura con lo stile e con le tematiche fino ad allora affrontate da Dannay e Lee, avrebbero fatto seguito, fino al 1972, altri ventisette titoli «paralleli»: tutti a nome «Ellery Queen» ma così dissimili tra loro, nell’enorme varietà di argomenti, situazioni e scelte stilistiche, da sembrare – come poi si sarebbe rivelato essere – opera dei più disparati autori. Il mistero, almeno in Italia, è rimasto ufficialmente insoluto fino al 1993, quando una puntigliosa bibliografia queeniana curata da Roberto Pirani, e inclusa in appendice all’Omnibus Mondadori Ellery Queen: sfida al lettore, ha iniziato a squarciare il velo che copriva le identità dei molti illustri collaboratori ingaggiati da Dannay e Lee nella stesura di questi romanzi «minori». Di più; si è anche appreso che la ditta Ellery Queen era in realtà un’impresa aperta anche per quanto riguarda molti romanzi inseriti a pieno titolo nel consolidato canone queeniano, e che titoli come il già citato The Player on the Other Side (scritto da Dannay con Theodore Sturgeon, 1918-1985) o And on the Eighth Day (1964; opera congiunta di Dannay e Avram Davidson, 1923-1993) erano il risultato di un ghostwriting più o meno supervisionato dai Queen titolari.
Perché Dannay e Lee si fossero fatti convincere dalla loro agenzia letteraria a subappaltare il nome «Ellery Queen» ad altri autori, e soprattutto per romanzi di ben altro taglio stilistico, non è mai stato perfettamente chiaro, fatto salvo l’aspetto di salvaguardia commerciale cui si accennava prima, così come nessuno è mai riuscito a scoprire con certezza quali realmente fossero gli spesso burrascosi metodi di lavoro dei due cugini. Anche Francis M. Nevins, che divenne abbastanza intimo di Dannay negli ultimi anni di vita di quest’ultimo (ovvero dal 1970 al 1982) ma incontrò Lee soltanto un paio di volte, riuscì molto di rado a scalfire l’impenetrabilità dei due autori su questo evidentemente spinoso argomento. Anche il suo recente e dettagliato volume Ellery Queen: The Art of Detection (2013) cerca per l’ennesima volta di far luce sui metodi dei cugini, giungendo però alla conclusione che i due non fossero mai stati in grado di lavorare insieme con tranquillità, neanche ai tempi del loro massimo successo, e che avessero continuato a farlo, pur tra furibonde liti, semplicemente perché la firma «Ellery Queen» si era rivelata una consistente fonte di reddito. Pare, comunque, che la gestione e la revisione finale dei ventotto romanzi apocrifi sia da attribuirsi in toto a Manfred B. Lee, il quale a differenza di Dannay aveva un’ampia famiglia da mantenere e necessitava di regolari entrate: ipotesi suffragata anche dalla drastica interruzione della serie, avvenuta nel 1972: Lee era scomparso l’anno prima, nell’aprile 1971, e per svariate ragioni Dannay non avrebbe mai più scritto una sola riga per l’altra decina d’anni che gli sarebbe rimasta da vivere, pur avendo inizialmente pensato di continuare la serie dedicata a Ellery ingaggiando un nuovo collaboratore.
Si può quindi considerare con buona ragionevolezza – e Nevins lo conferma – che la decisione di lanciare questa serie di nuovi romanzi firmati Queen fosse per i due cugini, oltre che un gradito riscontro economico, un ottimo espediente per mantenere vivo nella memoria del pubblico il loro pseudonimo, tanto più che i nuovi titoli sarebbero usciti direttamente in edizione economica nella popolarissima serie della Pocket Books (che tra l’altro aveva pubblicato anni addietro, nella collana Permabooks, i primi titoli dell’87° Distretto: il tutto, compresi i Queen apocrifi, ideato e gestito dall’agenzia letteraria Scott Meredith, nella quale all’inizio della sua carriera aveva – guarda caso – lavorato come redattore Salvatore Lombino/Evan Hunter/Ed McBain). Dopo il secondo titolo della serie, Death Spins the Platter (1962), la serie ha una decisa impennata quantitativa, corrispondente alla pubblicazione del nuovo romanzo con Ellery Queen, il già citato The Player on the Other Side. Nel 1963, infatti, i nuovi Queen apocrifi per la Pocket Books sono tre; nel 1964 e nel 1965 quattro; nel 1966 ben sette. Dal 1967, a causa delle condizioni di salute di Lee, colpito da una debilitante serie di attacchi cardiaci, la serie inizia a calare numericamente, con due soli libri pubblicati, così come nel 1968 e nel 1969. Il penultimo romanzo del ciclo esce nel 1970 e l’ultimo (The Blue Movie Murders) nel 1972, dopo la morte di Lee: fu l’unico tra gli apocrifi cui mise mano Dannay, per onorare fino in fondo il contratto ancora in vigore.
Esclusa quasi del tutto la partecipazione di Frederic Dannay a questa impegnativa impresa editoriale (che comunque non rappresenta un caso isolato nella letteratura poliziesca: per esempio, tutta la produzione di Brett Halliday successiva al 1958 – circa quaranta romanzi e centinaia di racconti – e legata al suo popolare personaggio Mike Shayne è opera di una dozzina di altri autori, tra cui Robert Terrall, Richard Deming e Bill Pronzini), non resta che esaminare in breve i tratti distintivi dell’insolita serie. Innanzitutto i veri autori; chi si nasconde sotto il nome «Ellery Queen»?
Dei ventotto romanzi polizieschi pubblicati inizialmente dalla Pocket Books e poi da altre case editrici (ma ne esistono anche sei a carattere storico, scritti da Don Tracy e usciti sotto il nome «Barnaby Ross», ovvero il vecchio pseudonimo usato da Dannay e Lee per narrare i casi di Drury Lane negli anni Trenta) i tre più hard-boiled – The Last Score, The Killer Touch e Kiss and Kill – sono rimasti a lungo senza paternità certa, e solo in anni recenti sono stati attribuiti con certezza a Charles W. Runyon (1928-2015). Per quanto riguarda gli altri, l’autore più utilizzato risulta l’ottimo Richard Deming (1915-1983), ex ufficiale dei marines poi divenuto romanziere popolarissimo negli anni Cinquanta e Sessanta. Deming ha contribuito alla serie con ben dieci titoli, quattro dei quali relativi alla sottoserie che ha come protagonista il capitano Tim Corrigan, veterano della guerra di Corea privo di un occhio. La sottoserie Corrigan, che comprende sei romanzi, era stata iniziata da Manfred B. Lee insieme a Talmage Powell (1920-2000), prolifico autore di pulps e colonna, per molti anni, delle antologie «curate» da Alfred Hitchcock. Powell ha scritto quattro romanzi come «Ellery Queen»: oltre a due della sottoserie Corrigan, anche i notevoli Murder with a Past e Beware the Young Stranger. L’originalissimo Fletcher Flora (1914-1968), scrittore che meriterebbe una seria rivalutazione in proprio, è il vero autore di tre titoli, tra cui il curioso The Devil’s Cook, nel quale l’indizio principale è, incredibile ma vero, un ragù con troppa cipolla. Ma tra i migliori romanzi della serie vi sono i tre delegati a Jack Vance (1916-2013), notissimo scrittore di fantascienza e l’unico tra tutti gli autori coinvolti ad aver deliberatamente adottato situazioni e tematiche di carattere queeniano. The Four Johns vanta ben quattro sospettati con lo stesso nome; The Madman Theory riprende il tema del serial killer apparentemente alla cieca che nasconde invece un piano assai ben predeterminato; A Room to Die, forse il più riuscito tra tutti gli apocrifi, presenta un enigma di camera chiusa di interessante fattura.
Cinque autori diversi hanno invece scritto un romanzo a testa. Henry Kane (1908-1988), il creatore di Peter Gunn e di Peter Chambers, si nasconde dietro Kill As Directed, uno dei primi romanzi della serie; a Stephen Marlowe (ovvero Milton Lesser, 1928-2008), padre del private eye (ma anche spia, alla bisogna) Chester Drum, era toccato il romanzo inaugurale, il già citato Dead Man’s Tale, romanzo di avventura e intrigo internazionale più che giallo vero e proprio. Walt Sheldon (1917-1996), autore praticamente sconosciuto in Italia, ma molto attivo su rivista negli USA, ha invece scritto nel 1968 Guess Who’s Coming to Kill You, una delle due incursioni della serie nel campo dello spionaggio (l’altra è Who Spies, Who Kills?, firmata nel 1966 da Talmage Powell). Infine, la seconda sottoserie dedicata alle avventure di Mike McCall, «The Troubleshooter», assistente speciale del governatore Sam Holland, è stata firmata oltre che da Richard Deming da due autori insoliti, ciascuno a suo modo, come Gil Brewer (1922-1983), autentico archetipo dello scrittore noir «maledetto», e Edward D. Hoch (1930-2008), una delle presenze più qualificate della Ellery Queen’s Mystery Magazine e, forse, unico vero erede dei Queen nella forma del racconto breve.
La serie McCall merita qualche parola in più, perché in essa il suo supervisore Manfred B. Lee sembra voler esplorare territori ancora una volta insoliti: McCall affronta casi dal forte substrato politico, calati in pieno clima fine anni Sessanta e nei quali si parla di argomenti allora poco frequenti nel poliziesco come la contestazione studentesca, le rivolte nei ghetti, la nascente industria del porno (soggetto, quest’ultimo, spesso affrontato da Edward D. Hoch anche in proprio: per esempio, nel racconto Captain Leopold Saves a Life del 1973: giusto pochi mesi dopo il suo contributo alla serie McCall, The Blue Movie Murders).
Come si sarà potuto quindi vedere da questa sommaria disamina, anche in un aspetto apparentemente secondario della sua attività il marchio «Ellery Queen» è stato ed è in grado di offrire al lettore e allo studioso motivi di interesse non secondario. Gli apocrifi di Ellery Queen, lungi dall’essere romanzi mediocri, consentono invece di poter meglio inquadrare la cosiddetta «quarta fase» del canone: quella, per intendersi, che si apre nel 1963 con The Player on the Other Side e che, dopo altri sette romanzi, si conclude nel 1971 – in maniera definitiva e inevitabile – con A Fine and Private Place, trionfo assoluto della logica deduttiva e del tema, assolutamente queeniano, della manipolazione dell’individuo da parte di un’entità superiore (vera o presunta). E il segno della grande attualità dei romanzi di Queen è l’influenza che hanno continuato a esercitare su molti autori di generazioni successive come, per esempio, Dennis Lehane, il cui Darkness, Take My Hand (1996) riprende e amplifica in maniera del tutto inaspettata ma entusiasmante le tematiche giustappunto «manipolatorie» di The Player on the Other Side.
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