Dei tre sceneggiati, il più complesso è La fine dei Greene.
Fu pubblicato
nel 1927, e a detta di molti, assieme a L’Enigma dell’Alfiere e a Il Mistero
del Drago, è tra i capolavori di Van Dine. Il tema non è che sia però così originale!
Infatti, anche se pochi lo sanno, il tema della strage nell’ambito di un gruppo
familiare, da parte di uno dei parenti, risale a parecchi anni prima: fu
infatti nel 1907, un tal Roy Horniman col suo romanzo Israel Rank
, a introdurre la storia di un tale che, volendo essere l’unico a rappresentare
la Casata dei Gascoyne, uccide tutti gli altri eredi. Tuttavia la resa di Van
Dine è stupenda, e lui per la prima volta porta il genere ad un livello da
capolavoro. La Fine dei Greene influenzò parecchio la letteratura di
genere, da quel momento: per esempio, lo stesso Wright, sulla scorta del
successo ottenuto proprio con il nostro romanzo, ne propose un altro, qualche
anno dopo, nel 1934, che si muoveva sulla stessa falsa riga: Signori, il gioco
è fatto! (The Casino Murder Case); e anche “The Garden Murder Case”, Il
Mistero di Casa Garden (1935) ripropone lo stesso iter: riunione di persone
e omicidio. Lo stesso George Antheil, “The Bad Boy of Music”, sotto lo
pseudonimo di Stacey Bishop, pubblicò presso Faber & Faber, Death in the
Dark, un romanzo che guarda molto a Van Dine, e mi par di poter dire, a La
Fine dei Greene, solo che qui il delitto avviene in Casa Denny, e si tratta
di tre delitti impossibili. Il romanzo, mi piace dirlo, inquadra secondo me
un’altra peculiarità del romanzo da cui prende le mosse, cioè il numero dei
personaggi interessati all’azione omicida: 6 sono le persone nella cui cerchia
si instaurava il rito della morte, in Casa Greene: Sibella, Ada, la madre dei
Greene, Julie, Chester e Rex; e 6 guarda caso, sono i personaggi di Casa Denny,
interessati all’azione in Death in the Dark : Gertrude Denny,
F.Alvinson, J.Alvinson, Dottor Stein, Dave Denny, la madre dei Denny. Su
quest’altra falsa riga, il numero 6, si sarebbero potuti muovere degli altri
romanzieri, che anche pur non essendo vandiniani puri, proprio a Van Dine e in
particolare al suo terzo romanzo avrebbero potuto rifarsi, non necessariamente
seguendolo pedissequamente ( ricordo il carattere distintivo dei titoli dei
romanzi di Van Dine, che hanno una struttura simile: The + nome + Murder +
Case. E il nome, non scordiamolo, è stranamente sempre formato da sei
lettere); romanzi che presentano 6 soggetti sospettati, oppure collegati tra
loro da un patto, oppure invitati a pranzo o a cena, oppure ancora altro: dal
James Ronald di Six Were To Die a Mystery Mansion di Herman
Landon, da Dinner-Party at Bardolph’s di Robert Alfred John
Walling a The House of Brass di Ellery Queen, da Six Hommes Morts
di S.A. Steeman a Six Came To Dinner di Roy Vickers, da Six Were Present di
E.R. Punshon a Six Under Suspicions di Charles Kingston. Rispetto
alla vicenda narrata nel romanzo, quella vista in televisione, ha numerose
differenze: innanzitutto nella trama della vicenda, pur mantenendo identico
omicida. Al primo omicidio, quello di Julie, e al ferimento di Ada, non segue
come nel romanzo, l’omicidio di Chester, ma quello di Rex, che avviene più
tardi nel romanzo; Chester così vivrà fino all’arresto dell’omicida e al suo
internamento in un manicomio criminale (mentre nell’originale, quest’ultimo
preferirà uccidersi con un fazzoletto imbevuto di cianuro di potassio); mentre
nel romanzo i Greene compaiono dopo il primo omicidio, nello sceneggiato viene
inventata tutta una situation presentando l’atmosfera in casa Greene, i
personaggi, e l’omicidio e tentato omicidio stessi (una trovata televisiva,
però di forte impatto e intelligenza); non è Chester che si reca dal
Procuratore, ma il contrario; nello sceneggiato viene addirittura inventata di
sana pianta una tresca tra Rex e la seconda cameriera, Alice Barton, e un loro
incontro quasi in contemporanea col primo delitto; mentre nel romanzo Rex dorme
in camera sua allorchè il delitto viene commesso, nello sceneggiato arriva poco
a casa dopo essere uscito; nel romanzo, una sua parte importante ce l’ha la
neve fuori alla casa, non perché si sviluppi una camera chiusa, ma perché il
tutto sia funzionale per esempio alla sparizione della pistola nel primo
tentato omicidio, che non avviene invece per opera del marchingegno usato per
la morte di Rex (come invece nello sceneggiato); nello sceneggiato non si parla
proprio della cuoca, vedendola di sfuggita, stagliata sullo sfondo e neanche
coi lineamenti netti del volto, nella scena iniziale, della cena a casa Greene,
la sera prima del primo omicidio, mentre nel romanzo una sua importanza ce l’ha
tutta; nel romanzo ad un certo punto scompare la fiala di stricnina e della
morfina, nello sceneggiato solo la stricnina (la morfina servirà per un secondo
tentativo di omicidio, sempre ai danni di Ada, di cui nello sceneggiato non v’è
traccia); infine nello sceneggiato, nella biblioteca della casa, chiusa da
anni, si aggira una presenza che legge il trattato di criminologia “Handbuch
für Untersuchungsrichter“ di Gross, invece nel romanzo oltre a quello,
l’omicida legge anche un trattato di tossicologia (perché altrimenti non si
spiega come avesse acquisito la necessaria competenza ad usare delle sostanze
farmacologiche sconosciutegli), mentre nello sceneggiato ne si indica solo il
dorso, assieme ad un testo sull’ isterismo; nello sceneggiato viene
addormentata una poliziotta, messa al posto dell’infermiera, per evitare guai
alla madre, che viene però avvelenata con la stricnina, mentre nel romanzo ad
essere dopata è Ada con una dose quasi letale di morfina. Questo per la trama.
Ma ci sono anche delle altre discrepanze.Innanzitutto le date della tragedia:
chissà perché nello sceneggiato esse cominciano dal 16 (non si sa il mese),
mentre nel romanzo l’inizio è in data 9 novembre; Vance-Albertazzi viene
ricevuto dal maggiordomo Sproot che a detta del romanzo dovrebbe essere un uomo
bassino e dai capelli grigi, e che invece ci appare abbastanza alto e coi
capelli neri; Albertazzi-Vance entra nella camera della madre dei Greene e qui
ella rivolgendoglisi lo chiama per nome e cognome e gli annuncia che non
venderà mai alcuna delle sue opere che ancora la villa possiede (ma nel romanzo
non accade nulla di ciò e né la madre si rivolge a Vance né lo fa lui nei suoi
confronti); la cameriera Barton, quella che nello sceneggiato ha la tresca con
Rex, e che purtuttavia resta alla sua morte in casa, nel romanzo alza i tacchi
e se ne va dopo il primo omicidio; nel romanzo non è il dottor Oppenheimer a
confermare la tesi di Von Blon (il medico della signora Greene e amante di
Sibella, che poi si scoprirà esserne il marito da oltre sei mesi) sulla natura
organica della paralisi della madre, quanto invece il dottor Doremus; Sibella,
nello sceneggiato rimane viva e vegeta, mentre nel romanzo viene quasi
accoppata nella parte finale del romanzo, con una chiave inglese dall’omicida.
Insomma, il
romanzo viene riscritto quasi completamente da Biagio Proietti e Belisario R.
Randone, adattandolo al mezzo televisivo, cioè alleggerendo la trama, addolcendo
i contenuti, creando delle love stories, e facendo in modo che il personaggio
centrale, cioè Philo Vance, risulti, interpretato da Albertazzi, molto meno
antipatico di quello che lui sembrerebbe indicare; prosa brillante e ad
effetto, e talora delle glosse:
come avrebbe
fatto mai l’omicida a usare su di sé la pistola senza vedere dove essa avrebbe
prodotto il danno, se non utilizzando uno specchio? L’omicida è pazzo, ma
finchè insegue il suo piano, è molto lucido: non avrebbe mai rischiato di
morire, non portando a termine la sua macchinazione. Nel romanzo c’è
ovviamente, nello sceneggiato no.
E ancora..una
chicca, che sarà sfuggita ai più:
il sergente
Heath davanti al corpo di Rex esclama : “E anche stavolta la rivoltella è
una calibro 32!”. Come mai avrà fatto il sergente a poter fare una simile
affermazione in mancanza della pistola (che verrà trovata solo alla fine) e
senza che neanche il dottor Doremus abbia fatto l’autopsia? Il bello è che
Philo Vance-Giorgio Albertazzi rinforza quell’affermazione con la sua : “Già :
stessa arma, stesso assassino”. Incredibile! Tanto più che nell’originale
vandiniano, si usa un altro tono: “Questa ferita sembra di una calibro 32“,
dice il sergente; mentre Van Blon, rafforza: “Sembra prodotta dalla stessa
pistola usata contro gli altri“. E Vance: “Si tratta della stessa arma…E
si tratta dello stesso assassino” (S.S. Van Dine, La fine dei Greene,
trad. Caterina Ciccotti, Grandi Gialli Rusconi, pag. 145).
Non è la stessa
cosa. Nello sceneggiato, prima di questo omicidio, ce n’è stato solo uno (ed un
tentato omicidio), mentre nel romanzo questo è il terzo; e se Vance rafforza
una propria idea, i due che lo precedono nel dialogo non esprimono certezze, ma
solo congetture, ipotesi.
E poi si guardi
la scena, grottesca: il cadavere di Rex giace lì per terra, in camera sua,
dinanzi al camino, e Philo Vance e il Procuratore Markham sono sprofondati in
due poltrone, avendo tra loro il cadavere, e mentre l’uno aspira una Rége,
l’altro pontifica fumando la pipa, tutt’e due impegnati a parlare di un
omicidio il cui corpo è lì davanti a loro, con la stessa intenzione che
avrebbero parlando non so..del balletto cui si è assistito la sera prima.
I protagonisti
fissi dei tre sceneggiati, oltre ad Albertazzi, furono Varo Soleri (Curie),
Silvio Anselmo (il Sergente Heath) cui fu affidata la parte del sergente che
procede all’individuazione del colpevole secondo le regole consolidate e che è
costretto a perdere ogni confronto con Philo Vance, che invece rappresenta
l’imprevedibilità dell’azione poliziesca in cui l’intelligenza e la deduzione
sono preponderanti sul resto; Sergio Rossi (Markham) uno degli attori più amati
dal pubblico televisivo e Gianfranco Barra (il dottor Doremus) un grande attore
caratterista del cinema italiano dalla fine degli anni sessanta ad oggi.
A dirla tra
noi, Albertazzi non so se per richiesta sua o per casualità, finì in pratica
per lavorare con un gruppo di attori, alcuni dei quali o avevano fatto parte
della sua compagnia oppure comunque con lui (e Anna Proclemer) avevano lavorato
in alcune produzioni: Anselmo, per esempio, che aveva già lavorato qualche anno
prima di questa produzione, nell’Amleto diretto da Zeffirelli e in Antigone
Lo Cascio con la regia dello stesso Albertazzi; ancor più Varo Soleri, il
domestico Currie, che oltre a figurare nelle stesse due produzioni
citate per Anselmo, aveva interpretato assieme ad Albertazzi, l’Agamennone
televisivo e Come tu mi vuoi di Pirandello, in teatro.
Così, andandolo
ad analizzare, La fine dei Greene è il maggiore tra i tre lavori, per
vari motivi, tra cui le stesse partecipazioni degli altri interpreti: se
infatti nei primi due, Philo Vance-Albertazzi aveva duellato con Paola
Quattrini e Quinto Parmeggiani in La strana morte del signor Benson ,
e Lia Tanzi e Virna Lisi in La Canarina Assassinata, ne La fine dei
Greene si trova a interagire con alcuni dei più bei nomi del teatro
italiano: Micaela Esdra, grande attrice di teatro e televisione, che
aveva lavorato, un po’ più giovane in I ragazzi di padre Tobia, una
serie televisiva che vedevo quando ero bambino e di cui mi ricordo la sigla
“Chi trova un amico trova un tesoro”) ma attiva anche dopo; un altro grande
caratterista del cinema italiano (e anche del teatro) come Marco Tulli, che
interpretava l’allampanato Sproof, il maggiordomo di casa Greene; Mico Cundari,
altro grande attore televisivo di quegli anni (fu lui il Conte Certaldo
discendente del Certaldo negromante in “Ritratto di donna velata” di Daniele
D’Anza) attivo anche in pellicole cinematografiche di impegno, come Il caso
Pisciotta o Il delitto Matteotti; Anna Maria Gherardi, che qui
interpreta la Greene Sibilla, aveva lavorato precedentemente con Gassman in
Adelchi prima e Orestiade, lavorando in televisione in Eneide; o ancora, la
grande Elena Zareschi, che aveva lavorato con Gassman in Troilo e Clessidra, e
Amleto di Shakespeare, Tieste di Seneca e Ornifle di Jean Anouilh; e ancora
Mario Avocadro, Linda Sini, Nais Lago. Insomma..delle presenze variegate. Quel
che mancava era però, a mio parere, una personalità di spicco, conosciuta dal
pubblico televisivo, qualcuno che ne La fine dei Greene potesse essere
quel che era stata la Quattrini in La strana morte del signor Benson, e
Virna Lisi in La canarina assassinata. Ecco perché, a parer mio, si inventò
un cameo per Tino Bianchi, altro personaggio conosciutissimo nella televisione
di quegli anni (non scordiamoci che era stato l’indimenticabile Sir Olivier in
“La Freccia Nera” di Anton Giulio Majano), che per di più aveva già lavorato
con Albertazzi e Proclemer in Spettri di Ibsen, a teatro : gli si affidò
la parte del notaio Ross, notaio sia di Vance che del vecchio Tobias, l’unico
che avrebbe potuto edocere le autorità di polizia e lo stesso Vance sulla
strana volontà testamentaria alla base della tragedia: eredità in blocco alla
moglie, e alla sua morte, divisa in parti uguali tra i figli (anche Ada,
adottata) a patto che vivessero, fino alla morte della madre, insieme, nella
casa paeterna. In realtà la figura del notaio, è un’ulteriore invenzione degli
sceneggiatori, in quanto nel romanzo, non esiste un tal personaggio, e tutto
quanto riguarda le volontà testamentarie del patriarca Tobias, lo si evince
leggendo il capitolo XVIII.
Per quello che
invece riguarda la fedeltà dell’azione visiva rispetto a quella letteraria,
credo di poter dire che mi sembra essere La canarina assassinata, lo
sceneggiato meno variato rispetto all’originale, nelle linee guida.
Detto ciò, si
evince che la serie non si può certo definire un’opera minore della TV di
quegli anni l’atmosfera è resa televisivamente molto bene, e la bravura degli
interpreti è conclamata. Bisogna dire che del resto condensare tutta l’azione
di un romanzo “summa” com’è La fine dei Greene, con tutte le morti,
l’azione e le complicazioni, la resa dei personaggi e quant’altro, in sole due
puntate portava necessariamente alla rinuncia di qualcosa.
Albertazzi-Philo
Vance, che guarda dallo spioncino della porta della cella del manicomio
l’omicida ormai preda della sua pazzia, è l’ultima scena dello sceneggiato:
quello sguardo è terribile. C’è un misto di repulsione e compassione, e anche
di interesse scientifico, che solo un attore consumato come Giorgio Albertazzi
avrebbe potuto rendere. Anche questa scena, nel romanzo, però, non c’è.
Tuttavia la sua importanza l’ha tutta: concentra l’attenzione ancora su Philo
Vance. Con Giogio Albertazzi non ancora Philo Vance era cominciata la serie,
con Giorgio Albertazzi non più Philo Vance termina. Perché ovviamente, anche se
non è rappresentato, possiamo immaginarci che dopo quella scena finale, le luci
si siano spente, i riflettori pure, e Giorgio Albertazzi seguito da Micaela
Esdra, finita la rappresentazione, dimessi i panni recitativi, siano andati
via, come accade nel ricordato Jesus Christ Superstar di Jewison.
E se il
bravissimo Albertazzi, ad un certo punto della sua presentazione di Philo
Vance, nell’ambito del primo episodio, afferra e offre alla telecamera un
grosso libro appoggiato lì vicino, l’Omnibus Mondadori “Ritorna un eroe
degli anni ’30, Philo Vance di Van Dine” (Omnibus in cui erano raccolte
alcune delle avventure di Philo Vance in quelle traduzioni vetuste e non
integrali, che avevano preceduto la ritraduzione di Pietro Ferrari), con la sua
bella copertina di colore rosso, quasi a dimostrare come le storie sceneggiate
non debbano essere che il rimando a quelle narrate nell’Omnibus, è anche vero,
invece, che un indizio, per di più comune ai tre sceneggiati e estremamente
appariscente, ci fa capire come i tre sceneggiati di Philo Vance siano più di
Albertazzi che di Van Dine : è l’ assenza della spalla di Philo Vance nello
sceneggiato (di colui che illustra le sue imprese, di colui che scrive, che
descrive, che ci apre un mondo nelle pagine del libro), anche se questa assenza
potrebbe essere spiegata in parte dalla sostituzione dello sceneggiato stesso,
con le sue scene, dell’azione descrittiva nei romanzi, di Van Dine, fedele
amico e consulente legale di Philo Vance, come si annuncia nella prima pagina
di La strana morte del Signor Benson: “..Un breve cenno sui miei
rapporti con Vance è qui necessario per chiarire il mio ruolo di narratore in
questa cronaca. La professione giuridica è profondamente radicata nella mia
famiglia, sicché quando uscii dalla scuola preparatoria, quasi inevitabilmente
venni mandato ad Harvard a studiare diritto. Fu là che conobbi Vance, una
matricola dal carattere caustico, cinico e riservato, croce dei docenti e
terrore dei compagni di corso. Perché, fra tutti i compagni di università, lui
abbia scelto me, per quel sodalizio extra-scolastico, non mi è stato del tutto
chiaro. La mia simpatia si spiegava con facilità: Vance mi affascinava ed
interessava offrendomi un genere inedito di diversione intellettuale. La sua
inclinazione per me, tuttavia, non si basava su alcuna attrattiva del genere.
Ero (e sono tuttora) una persona ordinaria, tendenzialmente conservatrice e
piuttosto convenzionale. Ma perlomeno, la mia mentalità non era rigida, né si
lasciava troppo impressionare dalla ponderosa procedura legale – motivo, senza
dubbio, del mio limitato interesse per la professione ereditata -; ed è
possibile che questi miei tratti trovassero qualche rispondenza nell’inconscio
di Vance. Vi è, a dire il vero, la meno consolante spiegazione che lui fosse
attratto da me come dal suo rovescio, o da un ancoraggio, quasi avvertendo,
nella mia natura, un’antitesi complementare alla sua. Qualunque fosse il
motivo, trascorrevamo molte ore insieme e con l’andar degli anni, quella
comunanza sbocciò in un’inscindibile amicizia.
Dopo la laurea,
io feci ingresso nello studio legale di mio padre – Van Dine & Davis – e,
dopo cinque anni di grigio apprendistato, entrai in ditta come socio più
giovane. Al momento, sono il secondo Van Dine dell’ufficio Van Dine, Davis e
Van Dine, con sede al centoventi di Broadway. Circa all’epoca in cui il mio
nome apparve per la prima volta nei fogli di carta intestata dello studio,
Vance tornò dall’Europa, dove si era trattenuto durante il mio noviziato legale
e, alla morte di una zia, di cui era il principale beneficiario, m’incaricò di
adempiere le operazioni burocratiche necessarie perché potesse entrare in
possesso dell’eredità.
Questa
incombenza segnò l’inizio, fra noi, di un rapporto nuovo e, per certi versi,
insolito. Vance provava una radicata ripugnanza per ogni genere di transazione
commerciale, per questo motivo, col tempo, io divenni curatore di tutti i suoi
interessi finanziari e suo agente in generale. Scoprii che i suoi affari erano
abbastanza vari da occupare per intero la porzione di tempo che io intendevo
dedicare al diritto e, poiché Vance poteva permettersi il lusso di un factotum
legale privato, per così dire, lasciai lo studio paterno e mi dedicai esclusivamente
alle sue necessità e ai suoi capricci.
Se, fino al
momento in cui il mio amico mi chiamò per discutere l’acquisto dei Cézanne, io
avevo nutrito eventuali segreti o repressi rimpianti per aver privato lo studio
Van Dine, Davis e Van Dine dei miei modesti talenti giuridici, essi furono
definitivamente spazzati in quella mattina densa di avvenimenti; infatti a
cominciare dal notorio omicidio di Benson, e per un periodo di circa quattro
anni, ebbi il privilegio di essere spettatore di quella che, a mio avviso, fu
la più sorprendente serie di casi criminali mai passata davanti agli occhi di un
giovane avvocato. Posso dire anzi che i tetri drammi a cui assistetti
costituirono uno dei documenti segreti più sensazionali nella storia della
polizia di questo paese.
Data la mia
particolare amicizia con Vance, io ebbi modo non solo di prender viva parte a
tutti i casi in cui lui fu coinvolto, ma anche di essere presente alla maggior
parte delle discussioni informali a loro riguardo, intercorse tra il mio amico
e il procuratore distrettuale; essendo inoltre metodico per temperamento, ne
tenni una registrazione pressoché integrale.
Annotai anche
(per quanto mi fu possibile) gli originali metodi psicologici che Vance usava
per individuare il colpevole, così come lui me li spiegò di tanto in tanto. È
una vera fortuna che io abbia svolto quest’opera gratuita di accumulazione e
trascrizione, poiché, ora che le circostanze mi hanno inaspettatamente
concesso di render quei casi di pubblico dominio, posso presentarli in tutti i
particolari, completi di tutte le loro informazioni suppletive e nel loro graduale
svolgimento, un compito impossibile, non fosse stato per i miei numerosi
appunti e adversaria”(S.S. Van Dine,
La strana morte del Signor Benson, Il Giallo del Lunedì,
L’Unità/Mondadori, 1992, trad. Pietro Ferrari, pagg. 7,8,9).
Ma
siccome S.S. Van Dine (nominativo ottenuto da “S.S.” somma delle lettere
iniziali di Smart Set, una rivista cui lo stesso Wright aveva collaborato
precedentemente, con “Van Dine”, ricordo di Van Dyck, grande pittore del
seicento, fiammingo, pittore della corte d’Inghilterra, che si assomigliava
abbastanza con Wright stesso) è anche l’autore delle storie, la sua
mancanza nella serie dei tre sceneggiati, ci può far capire anche altro: cioè
che, forse, questo Philo Vance, più che rimandare a Van Dine, sia il Philo
Vance di Marco Leto, di Biagio Proietti e Belisario L. Randone. Insomma,
il Philo Vance di Giorgio Albertazzi.
Pietro De Palma
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