sabato 24 marzo 2018

Il Philo Vance di Giorgio Albertazzi: un trionfo della RAI di un tempo.

Oggi ripropongo in un famoso breve saggio da me scritto e pubblicato nel Blog Mondadori anni fa, opportunamente rivisto e ampliato. Data la lunghezza, è stato diviso in due parti: la seconda sarà pubblicata domani.
Nel 1974, La RAI Radiotelevisione Italiana, che un tempo contribuiva alla cultura in Italia creando i più bei sceneggiati e le più belle riduzioni teatrali (talora lo fa ancora), mandò in onda i 3 primi casi di Philo Vance, di S.S. Van Dine (La strana morte del signor Benson, La Canarina assassinata, La fine dei Greene), ridotti per la televisione, affidando il personaggio principale a Giorgio Albertazzi,
Per la TV, Albertazzi aveva gà lavorato e aveva conseguito notevoli risultati, ancor oggi apprezzati (L’Idiota di Dostojevskj, Mr Hyde di Stevenson); il Philo Vance viene ritenuto comunemente un interludio, una produzione minore nell’ambito di quelle interpretate dall’attore: io penso invece che abbia rappresentato una tappa significativa, al pari delle altre produzioni ricordate.
Sia L’Idiota, sia Mr Hyde, sono personaggi difficili, con molte caratterizzazioni presenti nello stesso soggetto, molto sfaccettati, un po’ com’è lo stesso Albertazzi; e non a caso, quando li si ricordano, come il Philo Vance di cui intendiamo parlare, si associano mnemonicamente e visivamente allo stesso interprete, un po’ come il Pinocchio di Carmelo Bene, l’Amleto di Albertazzi o Gassman, la regina Gertrude di Anna Proclemer. E del resto, Albertazzi, in un inciso nel corso della presentazione del suo personaggio, lo dice chiaramente: “..il mio Philo Vance“: questa paternità, questo assumersi la responsabilità della resa del personaggio televisivo, distinguendolo da quello narrativo, dimostra un preciso intento, condiviso dalla produzione. E del resto, il tutto lo si evince da come Philo Vance venga presentato: Albertazzi si presenta, viene truccato, si abbottona una camicia, si sistema una cravatta, e presenta Philo Vance, così come lo fa all’inizio de La strana morte del signor Benson, lo stesso Van Dine: ovviamente Albertazzi riduce la presentazione del personaggio, che nel romanzo è di tre-quattro pagine fitte, e ne sintetizza i caratteri guida, tacendo quelli più macchiettistici (per es. la vanità estrema) e mettendo in evidenza invece quelli più intellettuali.
Il fatto curioso, che metto in evidenza, è che mentre si muove, si aggiusta il gilet, indossa la vestaglia da camera, entra nello studio televisivo, laddove si vedono gli addetti della produzione che sistemano la scena, muovendo la piattaforma con un divano, e altri che osservano, parlano, lui chiede di poter leggere qualcosa (la scaletta?), lui, Giorgio Albertazzi, è già Philo Vance o Philo Vance è ancora Giorgio Albertazzi?
La domanda nasce spontanea dal fatto che molto spesso c’è un’apparente confusione tra come il personaggio sarebbe dovuto essere presentato da Van Dine e come invece lo presenta l’attore: non si capisce bene  se le considerazioni che Albertazzi fa a margine siano proprie o di Van Dine, per esempio quando presenta gli interessi di Philo Vance: che adorava la pittura (ma pare di capire che anche Albertazzi la ami) e le stampe cinesi e giapponesi (in questo caso pare invece di capire che lui, Albertazzi, le ami un po’ meno e si osservi anche come lo dice). Secondo me, Albertazzi gioca volutamente e il suo gioco consiste nel confondere quello che è peculiare di Philo Vance e quello che è peculiare di suo, facendo presente che lui non è Philo Vance pur essendolo. Insomma il Philo Vance di Albertazzi può essere anche una sorta di operazione culturale, in cui nell’attimo in cui viene interpretato il personaggio, si insiste sul fatto che esso sia una interpretazione personale : in altre parole nel corso degli sceneggiati, Giorgio Albertazzi non è tanto Philo Vance quanto il contrario.
L’allestimento e la costruzione degli ambienti scenografici all’interno del film, quasi che la scena cui noi assistiamo non fosse altro che una scena nella scena ( un po’ come l’accattivante “La tavola dipinta” di Perez Reverte, romanzo in cui i protagonisti sono chiamati a risolvere un mistero inserito in una tela dipinta, ossia una partita a scacchi), mi ha ricordato il precedente Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (in cui una compagnia di attori e cantanti che devono rappresentare la Passione e Morte di Cristo, una volta arrivati sul luogo deputato a fare da sfondo al dramma, da uno sgangherato pullman scaricano anche i vestiti di scena, le armi, la croce); e se Marco Leto non è Norman Jewison, questa trasposizione dei classici polizieschi ha il merito di presentarci Philo Vance, come un esteta, un intellettuale che disprezza la cultura dei soldi facili, come viene riportato in un breve inciso. Si potrebbe quasi dire che Philo Vance sia un aristocratico, un nobile di un tempo posteriore alla Rivoluzione Francese, che disprezza la borghesia arricchita, che cerca in tutti i modi di assurgere a vette sociali e culturali senza averne i caratteri; che interpreta l’aristocrazia delle menti, il possesso di una cultura universale (o quasi) che lo fa sentire al di sopra dell’inutile volgo. Non a caso le vicende di cui si fa interprete Van Dine non avvengono nel mondo del “self made man” americano, di cui sono interpreti vari suoi colleghi, ma solo ed esclusivamente nel jet-set, quasi che la bellezza, l’arte di un delitto perfetto, non possa che avvenire fra mura nobili (noi diremmo debosciate, partendo da una prospettiva opposta; ma quella del resto è la prospettiva di De Quincey).
Philo Vance è ,quel che si può dire, un dandy aristocratico, laddove l’aristocrazia americana è basata sul censo, non come quella europea sul ceto. Philo Vance, come tanti soggetti, non è di destra né di sinistra (ma qual è il concetto di destra e sinistra in America rapportato ai repubblicani e democratici? Molto esile): potrebbe essere di destra, se non palpitasse in lui un’anima di sinistra, con cui interpreta e si accosta alle tragedie dell’uomo comune, pur mantenendo un’algida privacy.
In realtà Philo Vance va al di là della destra e della sinistra; anzi, facendo proprie le simpatie del suo creatore, Willard Huntington Wright, per Nietzsche, si potrebbe dire che Philo Vance essendo “al di là del bene e del male”, risponda più che ad una morale costituita o ad una società imperante, a se stesso. Così, in un certo qual modo, l’unico Dio di Philo Vance è se stesso.
Vance possiede pochi e veri amici (uno dei pochi a conoscerlo bene  e cui sia concesso entrare nella sua sfera intima, è il suo domestico Curie) e l’unica cosa che lo interessi, oltre l’arte, è non lasciare un problema insoluto, non perché un assassino rimanga libero nella società circostante (cosa di cui credo non gli fregherebbe nulla) di cui egli è un rappresentante, ma perché la sua ragione, la sintesi delle sue capacità deduttive ed analitiche, è necessario che vinca sul caos della soluzione mancata. Philo Vance diventa così un campione dello sport della mente, che per modi di fare e comportarsi sembra irridere talora gli stessi meccanismi di cui egli dovrebbe far parte: la società borghese gli interessa poco, anzi la disprezza, come disprezza il volgo, pur intrattenendo rapporti molto cordiali con quei soggetti che si meritano la sua stima per la loro intelligenza: parlando per esempio con Sproof, il maggiordomo di Casa Greene, ammicca sulle letture colte dello stesso (Marziale) e nello stesso tempo lo loda per il suo modo di intendere la vita, quasi da Seneca.
Tutto ciò ha fatto affermare al belga Ernest Mandel, il teorico più in vista del trotzkismo della seconda metà del novecento, autore di un bel saggio sulla storia del genere poliziesco visto seconda la prospettiva economica e sociale (Ernest MandelDelitti per diletto. Storia sociale del romanzo poliziesco, Interno Giallo, 1990), che il Giallo è un prodotto tipico della società borghese, in quanto, rappresentando delle vicende completamente avulse dal contesto reale dei conflitti che avvengono tra gli uomini, si contestualizza come un gioco tipico delle classi borghesi. E scrivendo l’introduzione allo stesso testo, il politologo Giorgio Galli, ha affermato: “..pare a me (come a Mandell) che il giallo sia un prodotto tipico della società industriale capitalistica”(op. cit. pag. V).
Così, Philo Vance dovrebbe essere il campione del giallo classico partorito dal capitalismo. Eppure così non è :. per lui l’assioma di Galli non vale, in quanto pur facendo parte di quella civiltà capitalistica, ne disprezza la borghesia arricchita. In altre parole, Philo Vance è un un ibrido, un anarchico del bel mondo, come solo gli appartenenti al mondo delle arti possono esserlo, non appartenendo ad alcun credo politico, a nessuno se non a se stesso, credente solo nelle arti, nell’eleganza dell’essere, nella civiltà, nella bellezza,
Quanto delle letture e dei miti portati in scena da Albertazzi c’è in questo Philo Vance? A parer mio molto. In certo senso Philo Vance, che riassume nella sua complessità altri personaggi interpretati da Albertazzi, è esso stesso un personaggio che proprio nel suo snobismo, nel suo saper tutto e di tutti, nel suo cinismo e distacco dalle cose terrene, nella sua saccenza – tutte cose molto attenuate nella straordinaria interpretazione di Albertazzi – ci risulta oggi un po’reietto, e a molti anche parecchio antipatico (anche se probabilmente è solo un timido cronico, che non intende far vedere agli altri ciò di cui è fatto dentro, per timore di essere in qualche modo ferito); e lo stesso Giorgio Albertazzi, presentandosi e presentandolo al pubblico televisivo, aggiungeva che:  “Perciò, se qualche volta Philo Vance vi sembrerà troppo saccente, cinico, e forse un po’ antipatico, pensate al suo Autore che , non a caso, fu definito, dal critico Mencken, il più affascinante antipatico che avesse mai conosciuto“.
Tuttavia,  a quei tempi, fine degli Anni Venti e per tutti gli Anni Trenta, Philo Vance dovette sembrare ben altro. Del resto, la diversità di prospettiva con la quale si vedeva il personaggio allora, e invece come lo si analizzi oggi, è da mettere strettamente in relazione a quello che era l’entourage culturale del tempo, tanto più che il suo stesso suo creatore, Willard Huntington Wright, il vero nominativo celato dietro lo pseudonimo di S.S. Van Dine,  si era occupato in quegli anni di far tradurre in americano, gli scritti di Nietzsche. Ben si capisce allora quanto della cultura e del mito del Superuomo potesse esser stato tradotto nella figura di Philo Vance.
Rilevo, infine, un certo pudico non rivelare la verità sul come, un bel giorno, Willard Huntington Wright avesse pensato “di darsi al romanzo poliziesco”: Albertazzi, applicando il motto “vizi privati pubbliche virtù”, ci consegna l’immagine di un uomo a cui, a causa di un esaurimento nervoso, fosse stato prescritto di riposarsi e leggere cose amene, per es. gialli; in realtà, secondo il suo biografo John Lougherry, Van Dine, sarebbe stato affetto da una pesante dipendenza dalla cocaina e da droghe in generale, e fu durante una cura per disintossicarsi che scrisse il primo romanzo; e pare che proprio la cocaina ne avesse minato e predisposto il fisico ad una morte tutto sommato imprevista, nel 1939.
Questa interessantissima serie di tre sceneggiati andati in onda dal 3 al 21 settembre 1974, ognuno dei quali divisi in due puntate, ha inizio con La strana morte del signor Benson.
 Non so per quali motivi furono scelte per la loro trasposizione televisiva proprio le prime tre avventure di Philo Vance. Tuttavia è da mettere in chiaro come, nel novero di tutte quante, proprio le prime tre costituiscano “un tutt’uno” diversamente dalle altre: La strana morte del Signor Benson, rappresenterebbe la vicenda di un uomo solo, un single; la vicenda di una donna e di una storia di coppia, La canarina assassinata; e a coronamento ideale, con la storia di una famiglia, La fine dei Greene. E si osservi anche come in quello stesso anno, in cui per la prima volta la serie dei tre sceneggiati andò in onda, ci fu il referendum popolare sul divorzio: possibile che qualcuno, pur nella RAI cattolico-democristiana, che doveva formare le coscienze della nazione, puntando soprattutto sui cardini del vivere civile, innanzitutto sulla famiglia, non abbia riconosciuto la valenza rivoluzionaria di questo sceneggiato? Che nelle sue diverse tre parti in sostanza metteva alla sbarra tre diversi modi sbagliati di vedere la famiglia: il single Don Giovanni che finisce ammazzato; la Canarina che,ambiziosa, vuole costruirsi a tutti i costi una posizione sociale, ma finirà distrutta nei meccanismi del suo sogno; e una famiglia in cui invece che amarsi, tutti quanti i figli e la madre, tutti, si odiano vicendevolmente. Del resto, come il divorzio è la fine di una famiglia, così lo è pure La fine dei Greene, in cui invece viene rappresentato il suo ideale contrappasso. Infatti, la distruzione di una famiglia tipo, oltre che essere data dal divorzio, può esserlo anche in ragione del desiderio dissennato di tenere avvinti, oltre le loro effettive aspirazioni, i singoli suoi appartenenti. Cosicché l’unica strada possibile alla distruzione della famiglia, sembra essere “il non attuare l’estremo disegno di tenere unita una famiglia che non lo è” forzando i singoli, cosa che invece è il desiderio del patriarca dei Greene, Tobias, perché così si possono solo avere due possibili risultati, che sono ambedue, delle liberazioni: il divorzio o la morte.
Nel suo primo romanzo, il prologo è incentrato su casa Vance: qui arriva il Procuratore Distrettuale Markham che sulla base di una promessa fatta precedentemente a Philo Vance, lo invita a seguire con lui un caso di cui egli è chiamato ad occuparsi: la morte di Benson, un affarista, socio e fratello di un suo amico, il maggiore Benson (interpretato da Quinto Parmeggiani). Subito notiamo la caratterizzazione del vestiario: nei romanzi di Van Dine, Philo Vance ha dei caratteri quasi sempre simili ( monocolo, capelli brillantinati e tirati all’indietro ) e degli abiti all’ultima moda di quegli anni. Van Dine dice per es. che : “..Chiamò Currie con il campanello e gli ordinò di portare i suoi abiti. – Assisterò a una levée tenuta dal signor Markham in presenza di un cadavere e vorrei mettermi in ghingheri. Fa abbastanza caldo per un completo di seta?…E una cravatta color lavanda, assolutamente” (S.S. Van Dine, La strana morte del signor Benson, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, trad. Pietro Ferrari, 1992,  pag. 17). Ora, Albertazzi/Vance non è vestito così: anzi, pur elegante, il completo non è di seta ( è possibile che i vestiti di scena della RAI non lo contemplassero) e la cravatta, che qui è scura, sarebbe dovuta essere color lavanda.
All’inizio della pagina dopo, Vance rintuzza un’osservazione del suo amico, dicendo che lui non porta mai fiori all’occhiello, “che è un vezzo caduto in disgrazia  e che lo praticano solo i gaudenti e i suonatori di sassofono” (op. cit. pag.18).Tuttavia, nel corso dello sceneggiato, Vance porterà sovente all’occhiello proprio un fiore: dimenticanza, o voler rendere più farfallone, quel Philo Vance che in realtà è molto più cupo di quanto non appaia?
Davanti alla morte com’è Philo Vance? Vance ne è al di là, in una sfera tutta propria. Egli non si pone, come invece lo fa il suo alter ego televisivo, il problema di non essere offensivo in un contesto di morte:, se ne fa un baffo, analizza tutto distaccato, quale potrebbe essere una divinità greca in mezzo al  mondo degli umani, capace di analizzare, di ponderare, di superare le passioni. Ma anche nella morte cerca di essere elemento di contrasto, di essere al centro dell’attenzione: ecco un completo di seta e una cravatta color lavanda. Ma un italiano, potrebbe mai andare laddove c’è (o c’è stato) un morto con un abito sconveniente? Ecco allora un Philo Vance-Albertazzi vestito più sobriamente..
Si atteggia come se fosse distaccato, tanto da parere cinico, ma in realtà è interessato e toccato dagli eventi: “Margaret Odell, eh? La bionda Aspasia di Broadway, o era Frine che aveva la coiffure d’or?..Molto doloroso! Nonostante i modi distaccati, mi accorsi che era profondamente interessato” (S.S. Van Dine, La Canarina Assassinata, trad. Pietro Ferrari, I Gialli del Lunedì, L’Unità/Mondadori, pag. 18). Eppure la sua vanità viene sempre prima : “Che mancanza di tatto!..Scusatemi, devo scegliere una tenuta adatta per l’occasione. Sparì nella camera da letto, mentre Markham estraeva un grosso sigaro..In meno di dieci minuti, Vance ricomparve pronto per uscire. – Bien , mon vieux – annunciò gaiamente, mentre Currie gli porgeva il cappello, i guanti ed un bastone di malacca. – Allons-y!” (op. cit. pag. 18).
Si osservi la differenza di comportamento che intrattiene Vance nel caso de La strana morte del Signor Benson e de La Canarina Assassinata, cosa che ancora una volta desumiamo dal suo vestiario: nel primo caso si veste in ghingheri, come se andasse ad una festa, non certo ad un funerale. La ragione c’è : Vance dice espressamente: “- Molto premuroso – mormorò Vance, aggiustandosi il largo cravattino bianco di piqué davanti a un piccolo specchio policromo vicino alla porta, prima di rivolgersi a me: – Vieni con noi, Van. Daremo tutti un’occhiata al defunto Benson. Sono sicuro che qualcuno dei segugi di Markham svelerà come io detestassi il farabutto accusandomi del delitto; mi sentirò più sicuro, sai, con un talento giuridico a portata di mano… Nessuna obiezione, vero, Markham?”( S.S. Van Dine, La strana morte del signor Benson, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, trad. Pietro Ferrari, 1992,  pag. 18).
Philo Vance detestava Benson giudicandolo un farabutto: ecco perché non indossa certo una tenuta da funerale. Ma nei confronti de “La canarina”, il suo atteggiamento è diverso: lo dimostra il fatto che di lui, così attento come ogni dandy all’abbigliamento, non si sa cosa scelga di indossare; presumiamo qualcosa che esprima se non il suo dolore, almeno il suo composto rispetto.
Si noti anche quali abiti indossi il Procuratore (nello sceneggiato, Sergio Rossi): abiti più dozzinali, contrapposti a quella di ottima fattura dell’investigatore. Anche qui c’è un’operazione culturale. Noto tuttavia come Markham nel romanzo abbia i capelli grigi, mentre nello sceneggiato li ha tutti neri; inoltre, chissà perché il Markham di Marco Leto fuma la pipa, mentre il Markham di Van Dine fuma sigarette o sigari. Per quanto riguarda invece Philo Vance-Albertazzi, vengono rispettati i clichet: il protagonista funa solo sigarette, le Rége, preferibilmente col bocchino.
Ovviamente Vance-Albertazzi è molto più teatrale, di quanto non appaia il vero Vance nelle pagine dei romanzi: si veda come duetti nella breve scena con la protagonista femminile de La canarina assassinata, cioè con una Virna Lisi allora al massimo del suo splendore fisico, oppure in varie scene con Lia Tanzi che interpreta una mantenuta; oppure soprattutto con Paola Quattrini, interprete della prima memorabile riduzione, La strana morte del Signor Benson: si assiste quasi ad uno scontro-incontro fra titani del palco, in uno più ridotto, ma più visto, il palco televisivo.
E che la parte della Quattrini (allora molto attiva in TV: aveva girato nel 1972 I demoni di Dostojevskij e nel 1973 Puccini) fosse centrale nella trasposizione, lo si capisce dal fatto che assistendo attentamente all’azione, si osserva come il piccolo scrigno coi gioielli, che nell’opera originale viene preso dall’assassino e  si ritrova nella sua abitazione, nello sceneggiato televisivo RAI passi di mani in mano: prima viene messo dall’assassino nell’armadietto del Capitano Hagedorn, fidanzato di Muriel Clair; poi quello lo trova e allora spaventato lo nasconde in casa sua, dove viene ritrovato da Muriel-Paola Quattrini. Tutto ciò è funzionale al fatto che Vance si rechi a casa della bella Muriel proprio mentre lei sta uscendo di casa con lo scrigno per disfarsene, e abbia con lei un dialogo che è un miracolo di resa teatrale, quasi un duello fatto di attacchi e parate, che nel romanzo originale non c’è proprio; perché poi, lui possa averla come propria complice per smascherare il vero assassino, a casa del quale la bella Muriel porta i gioielli.
Il dialogo con la bella Paola Quattrini (anche assai brava) che è uno scontro felpato tra felini in cui ognuno dei due cerca di far presa sull’altro (il seduttore e la seduttrice), fa da pendant a quello con Lia Tanzi ne La canarina assassinata (laddove lui fa il gatto sornione e lei..il topolino). Va detto che però, la presenza di dialoghi e scene che nell’originale non esistono, e l’eventuale cambiamento di scene  (qualcosa detto in casa è invece ambientato in auto nell’originale) hanno lo scopo di sostituire le analisi troppo sofisticatamente poliziesche e forse un po’ pedanti, che avrebbero guastato la resa televisiva, volutamente più brillante. Tuttavia quella centrale che si basa sull’altezza dell’omicida è resa meravigliosamente: c’è tutto, tranne una cosa : nell’originale si parla di una vasta macchia dovuta al sangue e alla materia cerebrale che il colpo ha fatto schizzare fuori e ha impregnato il tappeto, qui non vi è nulla (neanche il tappeto!), tutto asettico e pulito (forse che sarebbe potuto essere troppo impressionabile per il pubblico italiano?). E un’altra incongruenza: nell’originale il morto leggeva qualcosa quando è stato ucciso ed è morto indicando qualcosa, mentre nello sceneggiato non ve n’è traccia.
Del resto, se parliamo di incongruenze, quelle de La fine dei Greene sono straordinarie: la prima e la terza delle prime tre avventure di Philo Vance sono le più complicate, mentre La Canarina assassinata è come se fosse un meraviglioso divertissement, la prima vera Camera Chiusa di Van Dine, un gioco  in cui rimpianti, vezzosità, incongruenze, voci che vengono dall’oltretomba ( perché nel momento in cui si sente la voce di Odell provenire al di là della porta d’ingresso, lei, La Canarina, era già morta) formano un puzzle intricatissimo la cui soluzione era lì, sotto gli occhi di tutti. A cominciare dalla porta secondaria dell’albergo che Vance-Albertazzi dimostra platealmente come potesse essere chiusa dall’esterno ricorrendo ad una semplice pinzetta e ad uno spago; e finendo con qualcosa in grado di sostituire la voce umana: un grammofono. Sottolineo, tra l’altro come un altro grandissimo che giocherà con l’illusionismo nei suoi romanzi, Clayton Rawson, a qualcosa di simile affiderà una parte importante del suo Death from a Top Hat: una radio che, con un sistema ingegnoso (una bolla di cera tiene uniti due fili, finchè al calore essa si scioglie, determinando l’allontanamento di quelli e quindi lo spegnimento della radio) si spegne al tempo debito, non prima però d’avere convinto qualcuno che lì, in quella stanza, ci fosse qualcuno. Come appunto in Van Dine. Ma se lo scopo dell’uso del grammofono è quello di creare un’illusione, cioè dimostrare al portiere dell’albergo (sollecitato a correre presso la porta dell’abitazione di Margaret Odell, dallo stesso assassino) che a quell’ora, la Canarina è ancora viva (mentre non lo è più), e la stessa radio in Rawson, sostanzialmente ha la funzione di creare un’illusione, in altro romanzo, And Then There Were None di Agatha Christie, del 1939, la voce incisa su un disco, e amplificata dal grammofono, di Mr. Owen, il padrone di casa, vanamente aspettato dai dieci presenti, ha il compito di creare un’illusione opposta, cioè dimostrare alle dieci persone presenti, i cosiddetti “10 piccoli indiani”, che la persona che parla attraverso la voce registrata sul disco, non sia materialmente presente in mezzo a loro, cosa che invece è.

Fine 1^ parte

Pietro De Palma

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