Chi si ricorderà, l’ultimo romanzo di Enrico, pubblicato da Mondadori, non mi aveva entusiasmato: io ho le mie idee, di romanzi ne posseggo diverse migliaia e nello specifico di gialli ne ho letti moltissimi, e cerco sempre di conoscere nuovi autori, e di leggere anche i saggi di critica che vengono scritti a ragione di qualche autore o argomento nello specifico. Non affermo però che le mie idee siano quelle giuste e quelle degli altri, sbagliate. Ognuno ha le proprie. E le mie non coincidevano con i giudizi entusiastici degli altri. Va da sé però che essendo Enrico un amico, mi son sentito in dovere di leggere qualcos’altro di suo che non avessi letto, tanto più che avevo chiuso il mio articolo rimandando a qualche altra sua prova letteraria.
Tutto ciò che non è stato letto, è nuovo, e quindi oggi parlo di un suo romanzo, pubblicato da Mondadori nel 2013, nove anni fa, Buio come una cantina chiusa, un giallo classico, a metà tra lo psicologico e il thriller, che mi è stato rivelato da Enrico fu il primo in assoluto che scrisse nel lontano 1998.
Alfredo Zardi ha ereditato la villa e il terreno su cui poggia, a due passi dal mare, dal padre, morto in circostanze tragiche l’anno prima, suicida. Da allora ne è rimasto ossessionato.
Sua moglie è Veronica, che non è proprio in sintonia con lui: la ragione è che è preoccupata dallo stato mentale del marito, che ha incubi di notte ed è rimasto sconvolto dalla morte del padre a tal punto da aver lasciato abbandonata la villa paterna, in cui aveva trascorso la sua fanciullezza. Di casa è anche suo cognato Alberto, che in più d’una occasione è preoccupato anche lui per il fratello. La ragione? Alfredo è da qualche tempo ossessionato da qualcuno che si veste come si vestiva il padre, con un cappotto color cammello, e coi capelli grigi, che lo pedina e lo osserva da vicino. Questo qualcuno non si limita a visitare la villa in sua assenza, ad oliare cilindretti e serrature che dovrebbero sferragliare ed invece si aprono silenziosamente, a visitare la camera da letto del padre lasciando il libro preferito, a lasciare il disco con la canzone preferita del padre sul piatto del giradischi, J'entends siffler le train, ma si permette di mandargli a casa una pianta oppure una bottiglia di liquore come quelle che piacevano al padre, quasi ad instillargli l’ossessione che il padre non sia morto, ma che lo cerchi allo scopo di farlo impazzire. Perché poi il padre avrebbe dovuto farlo diventare pazzo, non è dato sapere ****
Finchè fossero state solo queste le attenzioni del misterioso tizio vestito come il padre e dall’età anziana come lui, si sarebbe potuto pensare anche a dei misteriosi segnali. Ma quando qualcuno cerca di ucciderlo in metropolitana, il commissario Viani che già si era occupato della morte del padre l’anno prima, pensa seriamente ad un piano premeditato.
A complicare le cose, è anche la misteriosa scomparsa nella stessa giornata in cui il padre si era suicidato lanciandosi dal promontorio in mare, di un barbone, già professore di violino, pare della stessa corporatura del padre.
Il finale vedrà Viani avere ragione e scoprire se qualcuno in effetti aveva concepito un piano per uccidere Alfredo Zardi, e che fine avessero fatto il padre di Zardi e il professore di violino.
Romanzo stupendo, è bene dirlo subito!
Luceri crea una trama in cui il lettore è portato a pensare chi possa essere ad impersonare il padre di Zardi , se il vero padre è in effetti morto, oppure se sia proprio lui, allora di chi sia il cadavere che era stato ritrovato in mare. E questa oscillazione è continua per tutto il romanzo, arricchendosi sempre di nuovi interrogativi e non stanca mai proprio perché è una trama accrescitiva, proponendo sempre nuove possibilità: Zardi è pazzo oppure no? Che ruolo hanno la moglie Veronica e il cognato Alberto? Giacomo Zardi è veramente morto suicida? E che fine ha fatto il professor Savini, ridotto dalla povertà a elemosinare qualcosa per strada con il suo violino? E che ruolo ha Claudia, che ha salvato Zardi in metropolitana?
Luceri crea un giallo psicologico, molto forte, con una forte tensione, ma che spesso sconfina nel thriller, quando la trama porta il lettore a dover scoprire qualcosa di lì appresso e si deve fare presto affinchè…
Devo riconoscere una cosa, che ho pensato spesso leggendo i romanzi di Enrico, che è presente anche nell’ultimo romanzo con Bonocore del maggio scorso, e che è presente anche qui: che Enrico sia il più grande maestro giallista in Italia non lo so, quello che è certo è che è un grandissimo maestro della Suspence, della tensione. Questo è certo! Anche nel romanzo con Bonocore che non mi piacque, riconobbi la mano del maestro nelle scene di suspence all’hotel. Quella sua particolarissima vena, che probabilmente è stata alimentata dalla visione di molti films italiani e non, di cui ha analizzato i meccanismi in grado di paralizzare lo spettatore, è presente in tutte le sue opere. Il suo modo per generare tensione non è però solo artificio stilistico, ma anche vena narrativa vera, fatta, è bene dirlo, di descrizioni analitiche che ricreano in ogni momento della narrazione, una successione di quadri, come se il lettore stesse lì in quel momento e assistesse all’azione, invisibile: come per esempio quando Viani mangia una caramella, la scarta, butta la carta cercando di centrare il cestino, come farebbe chiunque al posto suo.
Qui, però, a differenza con il suo ultimo romanzo Mondadori, il colpevole si conosce alla fine, e nonostante io l’abbia individuato prima di quando appaia, in realtà sfido altri a capirlo prima: bisognerebbe aver fatto un ragionamento, ed essere andato anche a senso.
E anche qui è rispettato il leit-motive di tutte le sue opere, ossia la tragedia originata dal dolore. Non so se Enrico abbia attinto da altre opere di scrittori del passato, ma..la danza ossessiva che si impernia sul fatto che Giacomo Zardi sia vivo oppure no, a me ha riportato alla mente un altro thriller che si basa su un meccanismo molto simile, Cat and Mouse di Christianna Brand. E quando scrissi all’epoca su di esso, potrebbe a ben donde applicarsi anche qui, in maniera automatica:
“Si potrebbe dire che il merito principale… nella scrittura di questo romanzo, sia quello di aver giocato coi personaggi e con i lettori, mettendo gli indizi ben in vista ma dissimulandoli al tempo stesso, secondo un procedimento che ci rinvia ad Agatha Christie. Tuttavia peculiari …sono i virtuosismi stilistici, in base ai quali riesce, data una certa cosa, a rivoltarla non so quante volte, e ogni volta mostrandone un aspetto nascosto e perlomeno importante: in questo modo riesce, con un numero di personaggi assai risicato, a caratterizzarli in maniera superba; e anche se evidenzia nella pochezza dei sospettabili, un limite insormontabile, che fin dalle prime pagine convince il lettore che il possibile colpevole possa essere solo uno, e in questo toglie molto mordente alla suspence, riesce tuttavia proprio in relazione alla capacità tutta sua di rivoltare continuamente le situazioni e di gettare il lettore nella confusione, facendogli dubitare persino delle sue legittime convinzioni, a mantenerne alta l’aspettativa”.
La scena finale, nell’Epilogo (il romanzo consta di un Prologo, Tre parti ed Epilogo) rimanda a tanti troppi romanzi, da Carr a Berkeley, ad Halter, per cui potrebbe anche essere che non abbia preso da nessuno, tanto..è una cosa che chiunque si aspetterebbe in un determinato luogo. Quello che mi ha molto colpito in positivo, è la spiegazione del perchè della scena finale, che a sua volta spiega la sparizione di Giacomo Zardi: un piano architettato fin nei minimi particolari.Gran bel romanzo, non molto lungo (146 pagine) ma che si legge con gusto e non tradisce le aspettative: il suo esordio.
Col botto.
Pietro De Palma
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