John Michael Ward Bingham non dice alcunché in Italia,
eppure è un autore molto conosciuto in Inghilterra.
Di origine nobile (fu il settimo Barone Clanmorris of
Newbrook), nacque nel 1908. Fu educato nelle migliori scuole e poi durante il
secondo conflitto mondiale, volle arruolarsi come volontario, ma fu scartato
per un difetto alla vista. Tuttavia fu arruolato nel MI5, Il Controspionaggio
militare britannico, nel quale servì non solo durante la guerra, ma anche per
parecchio tempo dopo, fino agli anni sessanta inoltrati.
La sua figura fu presa ad esempio da John LeCarrè per
il personaggio di George Smiley.
Scrisse parecchi thrillers, gialli classici e storie
di spionaggio.
In Italia è stato parecchio tradotto nei primi anni
’50 (Romanzi de Il Corriere della Sera), poi è seguito un periodo di oblio, dal
quale è riemerso con la pubblicazione per Mondadori, proprio del suo primo
romanzo. Alcuni suoi lavori sono stati adattati per il piccolo schermo da
Alfred Hitchcock. E’ morto nel 1988.
My Name Is Michael Sibley, 1952 è una storia in
prima persona.
Michael Sibley è un giornalista che è fidanzato con
Kate Marsden. E’ stato amico di John Prosset, sin dai tempi dalla scuola.
Strana amicizia quella con John! Più che amicizia, dovremmo chiamarla una sorta
di vassallaggio, un riconoscimento della propria debolezza spirituale ed un
riconoscimento della forza altrui. John gli è stato amico ma anche nemico:
insomma un’amicizia strana in cui amicizia e odio hanno formato un connubio
strano ma duraturo, almeno sino a quando Michael si è allontanato dall’ambiente
di casa. Ma Prosset si ì rifatto vivo per caso, più tardi: i due si rivedono
per caso e l’occasione fa sì che i due ricomincino a frequentarsi. Michael fa
lo sbaglio di presentargli la fidanzata e allora il falso amico, per scherzo,
uno scherzo di pessimo gusto, insomma per ridere alle sue spalle, gli insidia
la fidanzata, non perché voglia conquistarla ma solo per il gusto di rompere le
scatole all’amico. Insomma, l’amicizia o quel che sembrava, presto cede il
passo al vero e proprio astio, all’odio di Michael per John e i due hanno un
violento alterco.
Michael va via. L’indomani viene a sapere che John è
morto in seguito all’incendio della sua villetta. Fin qui nulla di anormale, e
la cosa sembra destinata ad essere archiviata come un incidente, fin quando
qualcuno comincia a sospettare che l’incendio abbia coperto un assassinio.
Michael era stato dall’amico poco prima che questi
morisse, e allora inspiegabilmente, per una irragionevole paura, ai funzionari
di Scotland Jard, Ispettore e Sergente, recatisi da lui per interrogarlo in
merito alla sua passata amicizia con Prosset, Sibley comincia a mentire. E man
mano che dice delle bugie, deve inventarne altre che rendano plausibili quelle
precedenti. Questo incastro traballante, lo porta anche a chiedere alla sua
compagna di sostenere le sue bugie, nate anche in seguito a una sua
superficialità nel lasciarsi alle sue spalle tutta una serie di azioni che lo
rendono se non colpevole almeno fortemente sospettabile.
Per cui cerca a questo punto di sapere cosa possa una
sua passata fidanzata Cynthia Harrison aver detto alla Polizia e ne ricava la
certezza che quella ha raccontato alla Polizia delle cose che possono metterlo
in cattiva luce; per di più egli inspiegabilmente ha avuto con sé da parecchio
tempo un tirapugni ed ora ritiene che il possesso di quell’oggetto potrebbe
arrecargli dei fastidi; infine, un altro trascurabile fatto lo fa assurgere a
colpevole perfetto agli occhi di Scotland Yard: pensando che lui sia l’assassino
di Prosset, la polizia pensa che di frugare tra le sue cose e così viene a
sapere dalla domestica di Joh che i suoi abiti completi non sono più 5 ma
4: quello mancante può spiegarsi con la sua distruzione perché sporco del
sangue di Prosset? Scotland Yard pensa di sì, ma non sa che Michael ha regalato
uno dei suoi cinque abiti, il più liso, ad un reduce di guerra che gli ha
ispirato sentimento di carità. Fatto sta che tutte queste circostanze unite
alle bugie colossali che ha inventato, fanno sì che egli sia arrestato per
l’omicidio dell’amico.
Sulla base di uno specifico odore, egli pensa che il
socio in affari di John , che egli immagina poco puliti e legati al
contrabbando, sia il vero assassino dell’amico ma non ha nulla per dimostrarlo.
Intanto si celebra il processo per omicidio a suo
danno. Il dibattimento prende una piega ostile e a suo danno, e quando Sibley
si dà oramai per spacciato e ritenuto di omicidio di Joh Prosset, ecco
che l’avvocato difensore di Sibley, mettendo in seria difficoltà una testimone
a carico dell’accusa, la cui testimonianza era ritenuta decisiva per
l’incriminazione del suo assistito, causa l’assoluzione di Sibley, la sua
libertà, e il successivo sposalizio con Kate rallegrato dalla nascita di due
figli.
Strano ma affascinante romanzo.
Innanzitutto il debutto di Bingham non è un classico
romanzo di detection ma qualcosa di innovativo, anche per l’epoca in cui fu
scritto: prende le distanze da tutti i romanzi che fino a quel momento erano
stati scritti, e non propone affatto una storia in cui il fine sia
l’acciuffamento del colpevole, ma invece la sua liberazione. Non è importante
cioè che la polizia arresti l’assassino quanto che non becchi una cantonata
arrestando e facendo condannare un innocente. Questi, da par suo però fa di
tutto perché la polizia pensi che lui davvero sia il colpevole, comportandosi
in un modo che dire superficiale è dire assai poco.
Sibley è uno qualunque, neanche poi uno stinco di
santo (se davvero fa la corte alla prima sua “fiamma” non per trasporto emotivo
ma per ben altro), ma è comunque un innocente, travolto dal peso degli eventi,
che comincia a comportarsi in maniera irrazionale in quanto non ha la benché
minima considerazione o fiducia della polizia. Al tempo il romanzo fece
sensazione perché descriveva il modo non sempre leale delle polizia di svolgere
un’indagine.
La cosa interessante della storia è che essa alla
gfine non è altro che una singolar tenzone, un duello che combattono Sibley e i
due poliziotti che lo braccano: lui nel dire panzane sempre più grosse e i
poliziotti nel metterne in luce le grossolane velleità. Ma anche..un duello tra
comportamenti: quello di Sibley di nascondere la verità, quello della polizia
nel non rendere manifeste le proprie vere intenzioni. Sullo sfondo c’è un vero
assassino che non viene mai sfiorato dall’inchiesta, e neanche quando Sibley
scampa alla condanna che lui ritiene certa, la polizia ritiene di avviare
indagini serie che portino all’individuazione dell’omicida.
Il romanzo è un devastante ritratto psicologico di
quello che noi diremmo “un borghese piccolo piccolo” parafrasando un celebre
film di Monicelli interpretato da Alberto Sordi, l’uomo comune che sospettato,
pur essendo innocente, proprio perché sospettato finisce per costruire la rete
in cui alla fine incappa: per paura di essere sospettato, finisce per esserlo
davvero.
La struttura del romanzo si basa su due piani
temporali che si incastrano vicendevolmente: il presente, in cui avviene
l’omicidio e la relativa indagine che poi si indirizza nei confronti di Sibley;
il passato, presente in forma di un flash-back prolungato, cui induge Sibley
per spiegare il sentimento di vassallaggio, quasi un rapporto masochistico suo
nei confronti di Prosset; e le sue donne. Ogni volta che lui mente alla Polizia
e ritiene di aver finalmente dissolto i dubbi, la trappola si stringe; e ogni
volta che la tenaglia parrebbe riaprirsi, ad una nuova bugia, si stringe ancor
di più. Ed è il suo inconscio a guidare le azioni dei due poliziotti: è come se
Sibley cercasse inconsciamente di essere incolpato per pagare il fio delle
proprie azioni, per essersi comportato in maniera indegna con Cynthia che ha
trattato sino a quando la sua compagnia non si è trasformata in un qualcosa di
veramente serio (per lei).
Capolavoro di introspezione psicologica, il romanzo è
narrato in prima persona: proprio la mancanza di un’azione narrante impersonale
in terza persona, conferisce al discorso la qualità di una riflessione
profonda, intima, quella che chiunque di noi potrebbe avvalorare trovandosi
nella stessa situazione di sospetto: il ritmo serrato, e privo di pause,
l’attesa di nuove bugie, che puntualmente vengono presentate , rende la lettura
quantomai tesa, con una tensione molto hithcockiana. Non a caso molti soggetti
di Hitchcock riguardano non tanto il colpevole da acciuffare, quanto
l’innocente da salvare, che è poi il motivo dominante di questo straordinario
romanzo: una corsa contro il tempo, di cui si crede di conoscere l’ineluttabile
fine, e che invece riserva un finale dolce. Senza però che l’assassino di
Prosset venga acciuffato.
Perché il cattivo per antonomasia qui, non è il
colpevole ma la vittima, l’assassinato. E quindi, in ultima analisi, la fanno
franca, sia il falso colpevole che il vero.
Se dovesse essere rivelata la morale del romanzo,
questa sarebbe la seguente: conviene sempre dire la verità. Le bugie, quasi
mai, non vengono scoperte.
Pietro De
Palma
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