L’autore del romanzo la cui copertina è indicata, Andrew Garve,
non si chiamava così in origine, giacchè esso era solo uno pseudonimo,
al pari di Roger Bax e Peter Somers: il suo nominativo vero era invece
Paul Winterton, ed era un giornalista specializzato in economia. Al suo
attivo parecchi romanzi anche di spionaggio, e vari di essi incentrati
sulla Russia, di cui era un discreto conoscitore, favorito anche dalla
conoscenza di varie lingue straniere.
Mondadori ne pubblicò alcuni di romanzi: questo, “Un Alibi di troppo”, Frame-Up,
è del 1964, pubblicato in Italia solo due anni dopo, l’11 settembre del
1966, nella collana Il Giallo Mondadori, col numero 919.
Il romanzo snocciola la storia del pittore John
Edward Lumsden, ricco e felice ma complessato, che viene ritrovato
morto, strangolato, a casa sua. Dopo il suo assassinio, spunta un
testamento in base al quale a contendersi la bella cifra di 200.000
sterline, 100.000 procapite, sono il nipote Michael Ransley, dipendente
del Foreign Office, e l’amico e protetto George Otway, che con l’aiuto
di Lumsden ed anche il suo sostegno economico ha avviato un’attività di
mercante d’arte. Nessun altro parrebbe ricavarci nulla dal suo
assassinio; neanche la bella Kathie Bowen, governante di casa Lumsden, e
segreta fidanzata di Lumsden, che proprio con lui si sarebbe dovuta
sposare di lì a 15 giorni.
E’ evidente quindi che l’attività investigativa
concerne esclusivamente i beneficiari dell’eredità, e già in questo
notiamo una certa limitazione del numero dei sospettati, due al momento,
che ovviamente ha una ricaduta sulle stesse aspettative del lettore:
una cosa è leggere un romanzo in cui i sospettabili sono un certo
numero, e altra cosa è leggerne un altro in cui sono solo due, almeno
all’inizio.
L’indagine, condotta dall’ Ispettore Capo di
Scotland Yard, Charles Blair, e dal suo sergente maggiore, Harry Dawson,
ben presto sbatte contro i due alibi prodotti dai due beneficiari: uno,
quello di Otway, si basa sulla testimonianza del suo dipendente James
Whybrow, che assicura di aver telefonato al suo datore di lavoro a casa
sua, dal Northern Hotel di Edimburgo, addebitandogli il costo della
chiamata, per comunicargli l’esito di un’asta (testimonianza confermata
da altre persone presenti nell’Hotel, e dalla centralinista, che ha
sentito distintamente il dialogo telefonico tra due persone, il
trasmittente ed il ricevente); l’altro si basa su una certa telefonata
che Michael Ransley dice di aver ricevuto, proveniente da un ospedale in
cui egli è donatore di sangue, che lo allertava in merito ad una
emergenza, visto che lui è portatore di un gruppo sanguigno raro: ma,
una volta recatosi in quel posto, nessuno del personale medico,
infermieristico e delle suore afferma di averlo chiamato: uno scherzo di
pessimo gusto o…altro?
In realtà dei due alibi, questo è il meno potente,
tanto più che Michel Ransley avrebbe potuto avere dei motivi di rancore
nei confronti dello zio, visto che quest’ultimo non accettava per il
nipote l’unione con la giovane e bella tedesca, Irma Felding, figlia di
un giudice, con un passato nazista; e l’Ispettore cerca in tutti i modi
di scalfirlo, non riuscendoci. In più accade una cosa che sembra
destabilizzare l’indagine: tra i vetri rotti di un portaritratti trovati
vicino al cadavere, si trova un’impronta di Otway: tuttavia la
circostanza che dovrebbe incriminarlo, finisce per farne una vittima,
quando si scopre che i frammenti di vetro insieme formano un lato che è
incompatibile con quelli del portaritratti. Insomma qualcuno vuol far
incolpare Otway dell’assassinio dell’amico: Ransley? Tuttavia c’è anche
da mettere a fuoco il fatto che qualcuno ha chiamato con l’inganno
Ransley all’ospedale: una messinscena oppure c’è qualcuno che vuol
fargli del male, per es. Otway?
Insomma, Blair deve cercare di smontare i due
alibi, ma non vi riesce; e a quel punto è portato persino a considerare
che i due abbiano potuto commettere l’assassinio assieme, o almeno
coprendosi e inquinando le prove e creandone altre false,
vicendevolmente.
Ma proprio in questo momento ecco un nuovo
accadimento che rivoluziona il tutto: l’Ispettore viene a sapere dalla
sorella di Kathie Bowen, che il futuro marito di Kathie, poi
assassinato, avrebbe intestato alla futura moglie i propri soldi,
sostituendo il precedente testamento da un altro, olografo, nascosto nel
cassetto segreto di un mobile: in questo modo, ai due sospettati viene
ad aggiungersi anche la bella Kathie, che avrebbe potuto anche
desiderare di sbarazzarsi del futuro marito, acquisendone l’eredità
senza doverlo sposare; ed il tutto viene messo in discussione.
A questo punto però finiscono le novità ed il
romanzo prende una china obbligata che si concluderà con
l’individuazione dell’omicida.
Il romanzo è fresco, anzi in talune sezioni è
addirittura frizzante, e così pure molto fluido lo stile: Garve per
accendere l’interesse del lettore e mantenere uno stato costante di
tensione, individua un modus agendi interessante: innanzitutto,
inquadrando in un capitolo troppo lungo, una causa dell’appiattimento
dell’interesse del lettore, crea delle sezioni molto corte, anche solo
di due pagine, in cui molto spesso scrive l’essenziale; inoltre, nel
momento in cui crea questi capitoli così succinti, li collega non da un
filo consequenziale, ma secondo piani di azione diversa, che si
intersecano, divergono e si toccano, creando così fratture sia temporali
che di ritmo, e nello stesso tempo accelerandolo dal cambio di
registro. E’ sicuramente un tipo di narrativa di origine prettamente
giornalistica, basata su una presentazione dei fatti che rimanda
immediatamente alla realizzazione di un articolo su giornale.
Tuttavia, mi pare di inquadrare anche delle pecche,
più di natura squisitamente narrativa. Infatti Garve, crea un classico
romanzo alla Crofts, basato sull’analisi minuziosa degli alibi al fine
di smontarli: nell’azione investigativa, il segugio, non è un
investigatore che si trovi opposto all’azione della polizia, bensì
proprio un poliziotto. Il lettore pertanto vede dall’inizio, lo
svolgimento delle indagini, passo dopo passo, le congetture e le
contro-congetture, in quello che mi pare quasi un procedural, direi un
procedural annacquato. Comunque che sia un procedural annacquato o
altro, al romanzo manca un elemento di tensione nella mancata
contrapposizione dell’azione investigativa della polizia rispetto a
quella dell’investigatore principe: qui invece, l’indagine scorre su un
binario unico. Inoltre, l’indizio del vetro rotto, ad un lettore
smaliziato può parere subito quello che verrà svelato alla fine.
Ma, la cosa che, secondo me, toglie qualcosa di
importante all’atmosfera del romanzo, è il fatto che non venga creato
nessun colpo di scena finale: in altro modo, ciò significa che
l’individuazione del colpevole avviene circa trenta pagine prima della
parola fine all’ultima pagina, e nelle successive trenta pagine, se
ancora qualcuno potrebbe sperare che avvenisse un qualche accidenti che
potesse riaprire i termini della questione accendendo l’interesse a
favore di un finale pirotecnico, deve amaramente ricredersi, giacchè
nelle restanti trenta pagine, viene solo spiegato come il muro
dell’alibi sia stato spezzato.
In altre parole, è come se qualcosa ad un certo
punto si fosse inceppato, dico io, nella costruzione fantasiosa del
romanzo: certo, però, basarne uno solo su due possibili assassini è
alquanto rischioso, e così ad un certo punto l’autore deve
necessariamente aver pensato a rimpolpare il parco dei possibili
assassini, anche con la bella Kathie Bowen, prima fidanzata
inconsolabile e poi fredda.
Nonostante ciò, il finale, così si presenta
piuttosto appiattito. Anche perchè, pensandoci sopra, aver scritto un
romanzo basandolo sull’analisi degli alibi di due soli sospettati, se da
una parte fa sì che l’indagine investigativa analizzi tutte le
possibili soluzioni al fine di confermare o smontare gli alibi,
dall’altra restringe notevolmente il campo dell’indagine, e quindi in
sostanza riduce le possibili alternative anche sensazionali.
E la trovata, legata al telefono, oggi ci sembra
alquanto risibile, visto che l’espediente usato è alquanto noto, anche
se sempre in certo modo suggestivo (io c’ero arrivato parecchio prima
che Blair lo rivelasse nel corso del suo ragionamento).
Al di là di ciò, è comunque un romanzo che vale l’acquisto.
Pietro De Palma
P.S.
Il titolo “Un alibi di troppo” individua anche un romanzo di C.Daly King.
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