venerdì 14 aprile 2017

Fredric Brown – Tutto in una notte (Night of the Jabberwock, 1951) – trad. Andrea Ogumbisi – Il Giallo Mondadori N.2233 del 1991.


Fredric Brown è famoso per le trame originali e bizzarri e i finali inconsueti, e ho conosciuto alcune persone che lo amano. Mauro Boncompagni per esempio, si è sempre detto entusiasta di Brown.
Ora, è lampante che le sue trame non siano convenzionali, anzi molto originali, leggendo le sue opere: direi che fosse una cosa anche normale, visto che l’autore era un famoso autore di fantascienza, e che quindi il fantastico futuribile era per lui un modo di vedere le cose di ogni giorno sotto una luce diversa. Tuttavia, al di là che fosse o meno, un autore essenzialmente di fantascienza imprestato alla letteratura poliziesca o un autore di letteratura poliziesca imprestato a quella fantascientifica o tutte e due assieme, Brown cercava sempre di stupire a meno che non fosse una caratteristica così connaturata in sé che non vi potesse rinunciare. Talora la sorpresa è legata all’uso di strumentazioni strane o a fatti che ricalcano la fantascienza (per es. è il caso di Uno strano cliente, romanzo che abbiamo recensito tempo fa), talaltra a situazioni veramente strane. E’ questo il caso del romanzo di oggi.
Tutto in una notte ( Night of the Jabberwock, nell’edizione americana) è un romanzo del 1951.
E’ la storia di un piccolo editore di provincia, che risiede in un piccolo paese dell’Illinois, Carmel City, dove non accade mai nulla. Ciò lo costringe ad accanirsi su quello che avrebbe potuto essere se fosse vissuto altrove, e a procacciarsi purtroppo le notizie più strane nel novero di quelle dozzinali, che possono accadere in un paese dove mai nulla accade di originale, tanto che la gente possa acquistare il giornale che le riveli. Così, tanto per dire qualcosa di nuovo, è riuscito persino a mettersi contro la polizia locale, il cui sceriffo non gli ha perdonato gli attacchi contro di lui. Infatti Doc Stoeger desidererebbe un bel delitto, non per gli scopi per i quali lo desiderava il Gervase Fen di Crispin, cioè come sfida intellettuale, ma per avere materiale per un bell’articolo. Anzi, la cosa che vorrebbe fare, è pubblicare un bel numero, un ultimo numero, in cui potesse scrivere tutto quello che ha sempre voluto, e poi chiudere. Perché si è scocciato (di non vendere nulla) e quindi vorrebbe cessare la pubblicazione della rivista.
Doc ha qualcuno a cui lui potrebbe rivenderlo, ma intanto vorrebbe pubblicare almeno un numero che avesse successo; tanto da chiudere almeno in bellezza.
Ma a Carmel City non accade mai nulla.
Doc ha due amici veri: Carl Trenholm, avvocato; e il barista Smiley Wheeler, e con loro passa gran parte del suo tempo: con il primo riflette, con il secondo beve (è quali alcoolista). Un terzo suo conoscente è Al Grainger, un giovanotto le cui entrate nessuno sa quali siano, ma che conduce di per sé una vita spensierata, e che impegna Doc in estenuanti partite di scacchi.
Un bel giorno accade tutto quello che non gli è accaduto per anni: una serie di fatti talmente fuori dell’ordinario (sempre avendo come riferimento la vita troppo routinaria di Carmel City) che anche uno solo sarebbe bastato a coprire il buco nell’impaginazione, che sta facendo arrovellare Doc.
In sostanza, assiste a quello che sembrerebbe un furto in banca, ma penetratovi attraverso una finestra (si tratta di una banca di provincia, del 1951, non di una dei giorni nostri, dove se hai anche una chiave addosso il metal detector all’ingresso non ti fa passare!) stende in men che non si dica il ladro maldestro, per poi accorgersi che si tratta del figlio adolescente di un suo conoscente, il banchiere Clyde Andrews; viene a sapere che il marito della sua donna delle pulizie, ha avuto un incidente nel reparto delle Candele Romane, di una fabbrica di fuochi artificiali, ustionandosi una mano; si accorge che in città girano dei brutti ceffi : due gangsters, di cui uno ricercato, famosi per la loro ferocia, che per poco non lo gonfiano di botte, solo perché lui per strada, ha tirato dritto senza rispondere su quale città fosse quella in cui stavano transitando, e che ritrova successivamente da Smiley: anche Smiley li ha riconosciuti, anche se solo a lui scappa, ma in loro presenza nel locale, chi siano: si salveranno da morte certa solo per la prontezza di Smiley che approfitterà di un momento di incertezza dei due gangsters per averne la meglio, sparando con la pistola che Doc porta per caso in tasca; un pazzo scappa dal manicomio, e la polizia organizza posti di blocco per acciuffarlo; Ralph Bonney, ricco industriale proprietario della fabbrica di fuochi pirotecnici, e Miles harrison, vicesceriffo, che lo sta scortando per via delle paghe dei lavoratori, da una banca in altra città, scompaiono nel nulla; e infine un ultimo incredibile avvenimento accade davanti agli occhi dell’incredulo Doc che non riesce a credere che tanti accidenti quanti mai sono capitati in quella oscura cittadina in cui lui vive, gli siano passati davanti agli occhi, a distanza di poco tempo. Ma la cosa a cui di più non può credere e di cui non si capacita proprio, è che di nessuna di queste cose per lui straordinarie, lui possa scrivere un pezzo, perché per una ragione o per l’altra, le persone ivi implicate accettano che lui scriva un pezzo sui fatto o su loro stessi.
Tuttavia sono tutte cose che Doc non ha propriamente vissuto, tranne l’avventura assieme a Smiley contro i due gangsters, in cui però ha fatto tutto il barista. Quello che gli accade ora ha invece dell’incredibile.
In un intervallo tra una cosa e l’altra, gli si presenta alla porta non il suo amico Grainger, con cui lui intrattiene sfide scacchistiche, bensì uno strano ometto, che si qualifica come un certo  Yehudi Smith, biglietto da visita alla mano, che lo intrattiene sulle sue conoscenze di Lewis Carroll e di Alice nel Paese delle Meraviglie: pochi lo sanno che lui anni prima ha scritto uno studio proprio su quest’opera visionaria e che ne è un discreto studioso. Ben presto Doc mette a fuoco che quello strano tipo è affascinante per lui, come gli si manifesta, per via delle sue conoscenze dell’opera di Carroll, anche di saggi assai poco conosciuti riguardanti la matematica: così i due familiarizzano e tra un bicchierino e l’altro, drinks e quant’altro, Doc viene da Yehudi invitato ad una riunione di una certa setta in una casa abbandonata e stregata, dove avverrà un rito che dovrà capacitare gli astanti sull’esistenza vera del  mondo fantastico di Alice, in un’altra dimensione.
Doc ne è rapito. Vanno assieme, penetrano in una soffitta, trovano il tavolino con una chiave e una bottiglietta con una etichetta con la scritta "Bevimi" (come in Alice nel paese delle Meraviglie), Yehudi beve dalla bottiglietta e…stramazza avvelenato e stecchito.
Doc fugge dalla casa, si reca al posto di polizia dove denuncia tutto allo sceriffo il quale non gli crede, ma manda il suo secondo vice alla casa, dove non trova alcunché; tuttavia dal bagagliaio dell’auto di Doc cola qualcosa che viene accertato potrebbe essere sangue: con la chiave Yale che Doc ha trovato sul tavolino in soffitta, essi aprono il bagagliaio dell’auto (ne è la chiave) e trovano l’industriale e il vice sceriffo scomparsi, morti, massacrati con calcio di una vecchia pistola.
Doc dev’essere stato!E’ chiaro: è impazzito, e tutto per colpa di tutto il liquore che ingurgita!
Lo sceriffo Kates che lo odia, sta per ucciderlo, quando lui riesce a scappare e a nascondersi nel bar di Smiley: nei fumi dell’alcool, vede seduto ad un tavolo Yehudi che gli parla e che risponde alle sue domande. Non c’è nulla si soprannaturale: è Doc che mette in bocca ad un’ estensione del suo subconscio, le risposte che cerca, e finalmente capisce come il tutto possa essere accaduto, chi possa essere stato a organizzare quel complotto contro di lui, e per quale motivo abbia ucciso tre persone:  E con l’informazione avuta da Smiley, circa una fobia di cui soffrirebbe il presunto assassino, la pirofobia (la paura del fuoco), riesce a costringerlo a rendere piena confessione.
Accade altro in questo romanzo e il finale è quantomai estroso, anche se senza sconvolgimenti dell’ultimo rigo.
Innanzitutto il romanzo, come tanti altri nella produzione di Brown, è un ibrido: mischia ambientazioni e situazioni hardboiled, con un enigma di tipo deduttivo. Potremmo dire che è molto vicino alle atmosfere di Jonathan Latimer o di Craig Rice: gangster e cazzotti, alcool e pistole; ma anche atmosfere fantastiche alla Carroll, un avvelenamento, un cadavere che scompare, e due che appaiono nel bagagliaio dell’auto, una chiave che dovrebbe aprire una porticina ed invece apre un bagagliaio, e un piano cervellotico per accusare un innocente e nello stesso tempo ereditare una fortuna.
In sostanza ci troviamo dinanzi ad un Pout-pourri, ad un minestrone di situazioni spassose e ironiche, bizzarre e sconclusionate, ma anche drammatiche e tese e soprattutto ad una serie di circostanze assolutamente paradossali:
una situazione paradossale, un soggetto paradossale, un’ambientazione paradossale, un avvelenamento paradossale, una scomparsa ed una ricomparsa paradossali, e soprattutto un assassino paradossale ed un movente paradossale. Quasi potremmo dire che se il romanzo non l’avesse scritto Brown e non l’avesse confezionato in tale maniera, fintamente arrangiata ma stilisticamente assai ricercata, potremmo attribuirla alle fantasie pazzoidi di uno scrittore alcolizzato.
Il fatto è che movente e assassino, spuntano fuori come un cavolo a merenda: perché mai proprio quella persona dovrebbe essere l’assassino e  come mai Doc riesce a capire quale possa essere il movente? Semmai immagina quale possa essere, ma…senza l’ombra di una prova.
Sembra quasi che i drinks, i cocktails, rimettano in moto le sue cellule nervose. Doc è alcolizzato e come tutti gli alcolizzati ha bisogno di bere per riuscire a stare meglio: nel nostro caso usa i drink per riuscire a capire come sia stato ordito il disegno, perché e da chi. E il delirium tremens gli procura la soluzione sdoppiando la sua identità in due diverse: lui e Yehudi. Yehudi, oramai morto, appare come un alter ego di Doc, il suo subconscio. Questo colloquio assurdo, onirico e irreale tra la parte cosciente di Doc (Doc stesso) e il suo subconscio (Yehudi) non incarna altro che la ricerca della verità in se stessi, la maieutica socratica: come Socrate attraverso il dialogo trovava la verità (Metodo di indagine filosofica altrimenti detto metodo socratico), così Doc, attraverso il dialogo con una parte di se stesso a cui pone delle domande, coglie il nesso. In altre parole,  Γνθι σεαυτόν.
Il bello è che tutto questo viene incarnato in Doc, un uomo che per riflettere ha bisogno di “bere”.
Ma il “bere” oltre che essere la molla per conoscere, fa sì che Doc arrivi alla verità in un modo assai strano: cioè supponendo, senza avere indizi; sulla base di un teorema assurdo, per cui se tutto quello che è accaduto in quella notte è assurdo, anche la verità deve esserlo.
Voleva forse dire Brown che la verità non sempre la si raggiunge con metodi assolutamente razionali e che talora anche il caso e la fortuna hanno importanza negli avvenimenti umani? O forse che alla verità, per davvero vera che sia, talora ci si possa arrivare anche senza prove certe, basandosi su assurdi costrutti mentali?
Ecco allora che il finale di Brown, per me  il vero pugno nello stomaco: sulla base di quale indizio o ancor meglio, sulla base di quale prova, Doc inchioda il suo nemico, l’assassino? Nessuna.
La rivelazione avviene attraverso la tortura: ponendo davanti alla minaccia di essere arso, l’omicida rivela tutto quello che già Doc ha pensato. E non potrebbe essere avvenuto che l’omicida non fosse quello vero e che ha ammesso di esserlo solo perché vittima di una tortura psicologica (che per lui è anche reale)?
Perché non pensare che Doc per salvarsi, abbia inventato un finale di comodo, creando anche lui un colpevole ideale, che lo decolpevolizzi a sua volta? E che il finale abbia rappresentato per Brown un Je t’accuse della tortura ?
Che lo si veda per i suoi significati nascosti o perché sia un omaggio affascinante ad Alice nel Paese delle Meraviglie (ogni capitolo è introdotto da una strofa del libro di Carroll), questo è uno delle opere migliori, forse, di Fredric Brown, per me.

Pietro De Palma

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