Quando si
parla di grandi scrittori di romanzi polizieschi, generalmente si parla della
grande triade – Carr, Christie, Queen – scordando molti altri nomi, di pari
livello, se non quantitativamente, almeno qualitativamente. Tra questi altri,
vi sono quelli che io definisco gli “innovatori”, gli scrittori cioè che hanno
innovato il genere, non nella variazione del plot, quanto nell’invenzione di
una diversa struttura narrativa. E tra gli innovatori, io principalmente
ricordo Stanislas André Steeman, franco-belga, e Philip MacDonald, britannico.
Oggi parlerò
del secondo, nipote del poeta e teologo scozzese George MacDonald, e figlio
dello scrittore Ronald MacDonald, con cui scrisse due romanzi firmandoli con lo
pseudonimo di Oliver Fleming. E’ sicuramente uno dei più importanti autori del
genere poliziesco del novecento: direi che della sua produzione nota presso il
pubblico italiano (oltre che con Philip MacDonald, si firmò con..Martin Porlock,
per esempio ) almeno otto-nove sono capolavori e due o tre i capolavori
assoluti, degni di stare autorevolmente in qualsiasi graduatoria o classifica
dei migliori romanzi di sempre: The Rasp, The Noose, The Link, Rynox, The
Choice, Murder Gone Mad, The Maze, The List of Adrian Messenger e..X v Rex
(pseudonimo :Martin Porlock). Perché ? Perché fa dell’originalità il suo
marchio distintivo e quasi ogni volta che scrive un romanzo, apporta delle
sorprendenti variazioni stilistiche al whodunnit : scrive un romanzo su degli
omicidi seriali, Murder Gone Mad incontrando uno straordinario successo
e si ripete con un altro sempre su una serie di delitti commessi da un killer, X
v Rex; sovverte le regole del Whodunnit all’inglese in The Maze; non
presenta l’assassino in Warrant for X; in Rynox, comincia con
l’epilogo; in The Rasp, che ancora negli anni settanta, Barzun e Taylor
definiranno un “epochmaking”, c’ è tutto: l’omicidio di un capo di
stato, indizi, ambientazione e atmosfere straordinarie e una varietà psicologica
da entusiasmare.
Mi piace
parlarne oggi, perché..io non credo nelle coincidenze, ma nel destino; mi
capita sovente di prendere in mano un libro, leggiucchiarlo e poi abbandonarlo,
non perché non sia bello ma perché probabilmente non è ancora venuto il tempo
perché io debba leggerlo. Il romanzo in questione, “La morte è impazzita”,
l’avevo già preso in mano circa due anni fa e poi..abbandonato. L’ho ripreso in
mano e incominciato di nuovo, con maggior interesse alla fine del mese scorso e
poi finito stamattina. Dico che il destino ci ha messo lo zampino,
perché..proprio qualche giorno fa in edicola è uscita una ristampa di Edgar
Wallace, “Il Mago”, nell’ambito della collana “I Classici del Giallo
Mondadori”, la cui immagine di copertina è un collage di copertine varie: il
bello è che delle tre immagini, due non sono di Wallace ma di ..Philip
MacDonald. Ed una addirittura de “La Morte è impazzita” (l’altra è dell’altro
capolavoro assoluto “Campana a morto”, The Rasp, del 1924).
Il romanzo
nostro è del 1931. John Dickson Carr, che in un primo tempo aveva definito The
Rasp, appunto “Campana a morto”, il romanzo in cui esordisce il colonnello
Anthony Gethryn, “one of the ten greatest detective novels”, in seguito
sostituì, Murder Gone Mad a The Rasp, a sancire l’importanza che
ha “La morte è impazzita”, e che fu già riconosciuta ottanta anni fa.
Il romanzo è
un precursore, uno dei primissimi a parlare di delitti seriali, in un
tempo in cui The A.B.C. Murders della Christie era ancora da venire: un
romanzo controcorrente, la cui sola menzione basterebbe a cancellare tutta una
fastidiosa appendicistica critica letteraria, che tende ad inquadrare il Giallo
Classico come un genere morto e sepolto, incapace di generare tensione, e
sostituirgli una paraletteratura, costituita da tutta una serie di opere
cosiddette Noir, scordando che il genere dell’assassinio seriale, da thriller,
nasce con Steeman e MacDonald. Ma se Steeman, con “Le démon de Sainte-Croix”
inaugura il filone parlando di una serie di delitti apparentemente scollegati e
poi che si rivelano uniti da un particolare veramente sorprendente, e la
Christie inaugura l’assassinio multiplo che deve celare nella serie
apparentemente scollegata l’interesse verso un solo assassinio (quasi che
celando una cosa tra altre cose simili e mettendo il tutto alla luce del sole
la si renda inconoscibile), Philip MacDonald provvede a estremizzare il genere.
Infatti, per la prima volta in assoluto, assistiamo ad una litania di
assassini, assolutamente scollegati l’uno dall’altro, associabili solo nei
meandri inconoscibili di una mente malata che si diverte ad uccidere per il
gusto di farlo, tenendo la polizia in scacco.
Così piano
piano, poi sempre più velocemente assistiamo alle imprese orribili de “Il
Macellaio”, lo psicopatico assassino che, nell’ambito della ridente cittadina
di Holmdale, a pochi chilometri da Londra, semina il caos: è la scoperta dei
corpi, tutti uccisi con una stessa sanguinaria tecnica (colpi inferti mediante
una affilatissima lama, di solito allo stomaco), a dettarne il ritmo, e la
paternità tramite soprattutto delle lettere alla polizia, il pathos e la
tensione. Così, laddove in tanti altri esempi di thriller contemporaneo, la
tensione si cristallizza in artifici letterari, per esempio nella costruzione di
piani narrativi e temporali che sovente vanno in parallelo per poi intersecarsi
(come non parlare per es. dei thriller per ragazzi della serie Ulysses Moore o
dei romanzi di Evangelisti con protagonista Eymerich o di romanzi di Lee &
Child con protagonista Pendergast), qui la tensione è una caratteristica della
sapienza letteraria dello scrittore che la scandisce con una martellante
processione di morti, con i tentativi prima frustranti, poi sempre più
determinati e più selettivi della polizia di giungere all’identificazione
dell’omicida, con la sempre più crescente insoddisfazione dell’opinione
pubblica, rappresentata da giornali, politici, e da manifestazioni popolari
sempre meno pacifiche, e con la beffeggiante e sardonica sicurezza ostentata
dall’omicida nel farsi beffe dell’autorità costituita e ridicolizzare
addirittura il responsabile dell’inchiesta, quell’Arnold Pike, sovrintendente
di Scotland Yard, che, come un segugio, incurante delle beffe dell’omicida e
dei rimbrotti dei superiori, conduce la sua indagine fatta di tentativi, ognuno
diverso dall’altro, ma sempre più incisivi per far finire una volta per tutte
il massacro. Così a marcare il tempo va a finire che sono le tabelle che prima
maggiormente ampie poi sempre più contenute, contengono i probabili indiziati.
A corollario, una serie di improbabili assassini arrestati: dal beota, al
regista, al medico famoso.
Fatto
curioso e sicuramente maggiormente interessante della storia, è che
nell’analisi procedurale dell’indagine, mancano i qualsivoglia indizi che in
una consueta indagine che si basasse sull’abduzione di marca doyliana,
abbonderebbero: qui latitano, invece. Nell’elenco doloroso di morti (Lionel
Colby, giovane di belle speranze, di famiglia borghese; Pamela Richards, ricca
borghesia; Amy Adams, barista, classe operaia; Albert Rogers, operaio
specializzato, in procinto di divenire giocatore di calcio; Marjorie Williams,
infermiera), implacabile e feroce, nella sua imparzialità, quasi che la morte
accomuna tutti, in una “livella” inesorabile, non si vede altro che l’assenza
di un qualsiasi movente: ognuno sconosciuto agli altri, elementi presi a caso,
i cui unici motivi comuni sono l’orribile squarcio al ventre e l’agghiacciante
godere dell’assassino della morte di uno e del dolore di chi lo amava. Giunge
persino a inviare una lettera alla polizia, preannunciando che colpirà il 7
dicembre: questa volta godrà del dolore proprio di Pike che si divertiva a
giocare col trenino assieme ad una bambina la cui madre troverà morta, Molly
Brade, raggomitolata vicino ad un muro e dietro la carrozzina dove dorme ignara
la figlia Millicent.
Sarà
l’ultima a cadere.
Dopo
arriverà Pike a passo spedito, con una serie di intuizioni su come procedere,
che non hanno nulla a che vedere con normali indagini investigative, visto che
qui, non c’è nessun indizio che aiuti a scoprire l’assassino. Che viene
scoperto perché Pike ricorre sempre più all’aiuto di mezzi di indagine
estemporanei : riflettori dislocati nell’ambito della cittadina, che si
accendano casualmente illuminando varie parti della città; lampadine che
vengono accese nell’ufficio postale allorché le buste gialle incriminate con la
grafia obliqua nera, vengono imbustate e quindi cadono direttamente sul tavolo
davanti a impiegati e poliziotti; cineprese che, come le telecamere di
oggigiorno, controllano le varie vie della città.. Ma sarà con un’idea vecchia
come il mondo, che Arnold Pike riuscirà a rivelare la vera identità
dell’omicida: creando un falso Macellaio desideroso di prendersi la fama del
vero, e inducendo il vero a non resistere alla tentazione di vedere chi abbia
volontà di emularlo.
E così da
un’intera città passata al setaccio, si arriverà a restringere la griglia dei
sospettati a 4 soli indiziati, uno dei quali per forza sarà “Il Macellaio”. Ma
la verità spiazzerà tutti. Perché ancora una volta sarà il meno sospettabile, e
l’arma..la meno sospettata.
Un romanzo
in conclusione, di una disarmante modernità, che nell’assenza di qualsivoglia
indizio illuminante e nella sconclusionata serialità della teoria di morti
ammazzati, ben rende giustizia al titolo “La Morte è impazzita”, Murder Gone
Mad.
Un
capolavoro che lascia attoniti e desiderosi di leggere qualche altra perla di
Philip MacDonald, nato nel 1900 e morto nel 1980.
Pietro De Palma
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