Ho deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia nè dove
viva, non ho nessuna idea di che tipo sia. Ma lo troverò e lo ucciderò.
Così, con un incipit di eccezionale drammaticità,
comincia uno dei più straordinari romanzi polizieschi che mai siano stati scritti,
di Nicholas Blake.
Chi è a conoscenza che uno dei più grandi scrittori
britannici di polizieschi, Nicholas Blake, era in realtà Cecil Day-Lewis,
grandissimo poeta del XX secolo inglese, insignito dell’ambitissimo titolo di
“laureate poet”, seppure solo 4 anni prima della sua morte?
Cecil Day-Lewis nacque nel 1904 in Irlanda. Alla morte
della moglie avvenuto quando il piccolo aveva due anni, il padre di Cecil, il
reverendo Lewis, col figlioletto, si trasferì a Londra. Qui Cecil frequentò le
migliori scuole, laureandosi nel 1927 presso il College Wadham di Oxford. E ad
Oxford insegnò dopo la laurea. Già nel 1925 era entrato a far parte di un
gruppo di poeti , l’Auden Group, fondato nell’Università di Oxford intorno alla
figura carismatica di Wystan Hugh Auden, che aveva raccolto attorno a sé i suoi
più brillanti allievi: Cecil Day-Lewis, Christopher Isherwood Louis MacNeice e
Stephen Spender. E’ da dire tuttavia che questo appellativo fu un’invenzione
giornalistica, giustificata dal fatto che tutti questi poeti avevano un
denominatore comune, ispirandosi ad Auden, e politicamente erano di sinistra.
Lewis gravitò sempre negli ambienti universitari,
insegnando non solo ad Oxford ma anche a Cambridge, e in età avanzata (quando
fu conosciuto non solo in quanto scrittore ma anche traduttore, da Virgilio
soprattutto) anche ad Harvard, e legò la sua fama a due sue propensioni: alla
poesia (diventò nel 1968 “Poet Laureate of the United Kingdom”), e al romanzo
poliziesco, di cui fu uno dei principali esponenti con lo pseudonimo di
Nicholas Blake (sicuramente ispirandosi a William Blake).
Esordì con tale pseudonimo nel 1935 con A Question of
Proof, e continuò sino al 1968, sfornando complessivamente 20 romanzi. Morì nel
1972.
Il suo nome di romanziere è legato soprattutto a due
titoli: Thou Shell of Death e The Beast Must Die
Nel primo dei
20 romanzi scritti, A Question of Proof , “Questione di Prove”, fece
esordire il suo personaggio fisso, Nigel Strangeways, modellandolo sulla figura
di Wystan Hugh Auden, e sulle sue
stravaganze: non a caso, tradotto in italiano, potrebbe chiamarsi “Nigel, dai
modi strani”. Tuttavia, a partire dal suo secondo romanzo, Thou Shell of Death,
“Quando l’amore uccide”, il personaggio cominciò a mutare i suoi modi,
divenendo sempre più posato e normale. Non in tutti i 20 romanzi, tuttavia,
apparve Strangeways: infatti, in A Tangled Web (Il dilemma di Daisy Bland),
Penknife In My Heart (La mia morte per la tua), The Deadly Joker, The Private
Wound (L’angelo della morte), esso non c’è.
The Beast Must Die, pubblicato nel 1938, è uno dei
capolavori, se non il Capolavoro assoluto di Blake, non a caso inserito nei 100
migliori gialli di sempre.
Il romanzo è estremamente interessante per due motivi:
una prima parte, dominata dalla prima persona; seconda, terza e quarta parte in
cui si parla in terza. Il motivo è chiarissimo, una volta che comincia la
narrazione: un padre, Frank Cairnes, scrittore di romanzi polizieschi, anche
molto famoso sotto lo pseudonimo di Frank Lane, ha perso in modo tragico il suo
unico figlio: Martie, un bambino di 8 anni, è stato travolto da un’auto pirata
sulla strada, uccidendolo sul colpo e trascinandolo per molti metri appresso.
Per Frank Martie era anche l’ultimo filo che condivideva col ricordo della
moglie morta: così la morte di Martie diventa per Frank doppiamente triste, e
l’unico motivo della vita dello scrittore, non essendo la polizia nonostante
gli sforzi riuscita a pervenire a qualche risultato, diventa fare giustizia, o
meglio..farsi giustizia. In altre parole per Frank l’unica ragione di vita
diventa trovare l’assassino del figlio e ucciderlo. L’intendimento, espresso
nell’incipit succitatodel romanzo, permea tutta la prima parte, che non è altro
che una confessione, in forma di monologo (che Frank appunta nel diario), dei
suoi propositi di vendetta omicida, per la morte del figlio, rimasta senza
giustizia.
In verità Frank pare che abbia maggior fortuna della
polizia, perché, partendo dal fatto che l’auto dell’assassino dopo
l’investimento avrebbe dovuto recare palesi segni della morte del bambino
(ammaccature e sangue) e venendo a sapere da un passante che tempo prima
(proprio il giorno dell’investimento) qualcuno era piombato a tutta velocità in
una specie di pantano formatosi sulla strada, dal fatto che nel posto affianco
al guidatore era stata riconosciuta una starlette, che recitava in film sexy,
egli riesce a risalire all’identità del guidatore dell’auto pirata: George
Rattery, proprietario di un’autorimessa, dove peraltro avrebbe potuto riparare
del tutto indisturbato i segni dell’investimento riportati dalla sua
automobile.
Facendo colpo sulla ragazza, Lena Lawson, Frank riesce
a costruire una storia con lei, e quindi ad introdursi nella casa di Rattery,
che di Lena è cognato (ma è stato anche amante): una casa dominata dalla figura
ripugnante di Rattery, vessatore del figlio Philip e della moglie Violet, e
scusato invece dall’autoritaria Ethel Rattery, sua madre. In breve, pur mal
sopportato da George, Frank riesce poco alla volta a sottrargli l’attenzione di
Philip; inoltre, il diario registra, giorno dopo giorno, i progressi acquisiti
da George, non solo nell’individuazione dell’assassino del figlio e del
testimone reticente che non ha detto nulla di quanto accaduto (Lena), ma anche
dei suoi propositi di vendetta.
La prima parte termina laddove questi progetti
sembrano concretizzarsi, dopo un tentativo andato male in una cava, sul piccolo
yacht di Frank, laddove egli cercherà di uccidere George. Comincia così la
seconda parte, dominata dalla terza persona singolare, una descrizione
impersonale in cui Frank non è il personaggio principale, ma uno di quelli
sulla scena, in cui il tentativo di Frank fallisce, e in cui tuttavia maturano
le premesse perchè comunque George Rattery muoia avvelenato. La terza parte
parla della sua morte e dell’indagine, mentre la quarta è riservata
all’individuazione del vero colpevole.
Il motivo anche qui è chiarissimo: mentre prima George
ha dominato l’azione e la narrazione con i suoi tentativi di approccio e i suoi
desideri di vendetta, nel momento in cui questi tentativi vengono esplicitati e
non sortiscono alcun rusltato, ma poi lo stesso Rattery comunque muore
assassinato per una dose massiccia di stricnina, che qualcuno ha sottratto dal
garage, dove era lì custodito per essere utilizzato nella disinfestazone dei
topi presenti nella villa, è evidente che Felix, laddove non lo si consideri un
assassino che ha denunciato i suoi propositi abbastanza maldestramente in un
diario personale, è stato individuato come ideale capro espiatorio da chi,
pervenuto in possesso delle informazioni contenute nel diario, e vero assassino
di George, lo voglia consegnare agli organi inquirenti, togliendosi da
qualsiasi impaccio. Nella terza parte entrerà in scena Nigel Strangeways, chiamato
in causa proprio da Frank, perché lo aiuti a provare la sua innocenza, giacchè
mai un assassino scriverebbe un diario in cui parlasse dei propositi di un
omicidio, se non fosse solo un modo per darsi forza, all’infuori del vero
proposito di qualcuno di uccidere Rattery e di addebitare a Frank la colpa di
tutto. Quale assassino sarebbe così pazzo da confessare di stare per uccidere
un uomo, facendo in modo poi che egli possa impadronirsi del diario e sapere di
stare per essere ucciso?
Brutta gatta da pelare per Nigel, invero !!! Infatti,
se è vero che di assassini probabili, casa Rattery sembra esser piena (dal
figlio vessato, alla moglie dominata e tradita, dalla ex amante che non
vorrebbe che rivelasse la loro storia a Felix, al socio di Rattery, James
Harrison Carfax, che avrebbe potuto vendicarsi del tradimento della moglie
Rhoda, altra amante di George, fino alla madre Ethel, ossessionata dal fantasma
della rispettabilità del buon nome della famiglia, che avrebbe potuto uccidere
il figlio adultero a tutela dell’onore violato), è anche vero che il diario
fornisce a Blount, Ispettore Capo di Scotland Yard, un assassino bello pronto.
La matassa verrà districata a dovere, solo dopo aver
analizzato gli alibi e soprattutto dopo che Nigel sarà riuscito a ricostruire
psicologicamente le mosse dell’assassino, partendo da una serie di indizi non
inquadrati perfettamente dal pur abile interlocutore nella polizia. Riuscirà a
far capitolare l’assassino (un assassino sentimentale), solo dopo che un
innocente verrà coinvolto al suo posto.
La conclusione, amara e tragica, vedrà Nigel
interdetto sulla possibilità di lasciare libero o consegnare alla polizia
l’assassino di un essere riprovevole, fra l’altro a sua volta assassino di un
bambino.
Come abbiamo detto precedentemente la divisione del
romanzo in quattro parti, di cui la prima affidata ad una narrazione in prima
persona e le altre tre in terza persona, incide profondamente sulla lettura:
nella prima parte, in cui l’emozione per la morte tragica di un bambino è
condotta magnificamente fino al climax finale, ed è dominata dalla prima
persona, che porta il lettore ad identificarsi con la vicenda tragica di un
padre che ha perso il suo unico figlio a cui era legato fortemente, la
sensibilità letteraria di Blake giunge a vette inusitate di drammaticità e ad
accenni poetici in cui chiaramente viene rivisitata con icasticità commovente
la poetica di Catullo, di Virgilio e di Orazio, quando non si serve di versi di
poeti, più a lui vicini: ad esempio i sette versi tratti da “Toys”
He
had put, within his reach,
A
box of counters and a red-vein’d stone,
A
piece of glass abraded by the beach
And
six or seven shells,
A
bottle with bluebells
And
two French copper coins, ranged there with careful art,
To
comfort his sad heart),
poesia inserita nella raccolta The Victories of Love,
and Other Poems di Coventry Patmore, poeta ottocentesco della corrente dei
Preraffaelliti . Qui, la materia narrativa viene trattata con tale
sapienza di mezzi espressivi e toccando le corde del cuore di qualsiasi
lettore, da diventare quasi un caso a sé nella fiction poliziesca; e pur
legando tale espressività ad un fine che verrà esplicitato solo
successivamente, Blake trascende la letteratura di genere assurgendo a vette di
pura arte (in qualche modo giungendo agli stessi esiti del Carr di She Died a
Lady). Devo dire in tutta sincerità che il meccanismo con cui Blake cerca di
entrare nell’animo del lettore, facendolo partecipe della vicenda tragica di un
padre che ha perso il suo unico figlio, mi ha commosso profondamente avendo
anch’io un figlio della stessa età di quello descritto nel romanzo e per di più
figlio unico (ritengo che sia l’unica volta in cui un romanzo poliziesco mi
abbia colpito tanto profondamente!).
A partire dalla seconda parte, in cui si perde invece
l’unicità dell’identificazione del lettore nella persona del narratore
(espediente già utilizzato da Agatha Christie) per utilizzare la narrazione in
terza, che pur perdendo in drammaticità e forza espressiva, Nicholas Blake
descrive l’ambiente, le personalità dei soggetti del dramma e gli eventi
connessi, con sufficiente distacco,tale da evidenziare che l’intervento del
soggetto investigante sia il più imparziale possibile e soprattutto individui
il responsabile al di là delle vicende trattate, agendo “super partes”.
Qui il meccanismo dell’individuazione del
colpevole, si esplicita in una serie di ingranaggi collegati a vari subplots,
che giustamente qualcuno ha ricollegato all’azione narrativa di Carr, vero deus
ex machina del romanzo poliziesco, nell’Inghilterra degli anni ’30-’40. La
deduzione classica, tipica del whodunnit, viene qui arricchita da un
ragionamento di finissima psicologia, che conclude in maniera superba il
romanzo, consegnando un assassino, meno ovvio di quanto parrebbe, e soprattutto
estremamente vero, una figura a tutto tondo, ben diversa dagli eroi di cartone,
di tanta letteratura del genere.
Per di più la ricercatezza dei rimandi poetici
utilizzati in quanto tali ( alcuni versi tratti dalla Ballata scozzese Lord
Randall : “O I fear you are poisoned, Lord Randal, my son! I fear you are
poisoned, my handsome young man!”. “O yes, I am poisoned; mother, mak my bed
soon, For I’m sick at the heart, and fain wad lie down.”; o quelli tratti da Vier
ernste Gesänge, op.121 di Brahms: Denn es gehet dem Menschen wie dem Vieh, vie
dies stirbt so stirbt er auch; und haben alle einerlei Odem; und der Mensch hat
nichts mehr denn das Vieh: dann es ist alles eitel [1] da cui Cecil Day-Lewis alias Nicholas Blake ricavò il titolo
The Beast Must Die, creando un sillogismo che nel testo originale non esiste)
ovvero celati sotto altre mentite spoglie (la frase nihil subhumanum a me
alieno puto da lui eletta a motto degli scrittori di gialli, ma derivata
dalll’omonima frase di Terenzio, Homo sum, humani nihil a me alienum puto;
l’espressione latina Favete linguis con la quale Frank dice che intitolerà il
suo saggio di cultura generale, deriva almeno dal III libro di "Amores" di
Ovidio: Sed iam pompa venit — linguis animisque favete! , espressione simbolo
dell’Humanitas del circolo degli Scipioni e poi del Rinascimento, stanno ad
indicare, anche quando non ce ne fosse bisogno, quale fosse la cultura di cui
era espressione l’autore, quando ancora non si conoscesse il vero nominativo di
origine. Del resto, altrettanti riferimenti culturali, quando non inseriti allo
scopo di indicare lo snobismo del protagonista, es Philo Vance di Van Dine, ci
ricordano romanzi di altri scrittori, che hanno studiato o insegnato a Oxford
(per esempio quelli di Edmund Crispin o di Michael Innes).
Pietro De Palma
[1] Poiché
uomini e bestie hanno identica sorte; così come queste muoiono, anche lui
muore; tutti hanno un identico respiro e in nulla l’uomo differisce dalla
bestia: poiché tutto è vanità (Ecclesiaste:
3,19-22)
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