martedì 6 giugno 2017

E. e M.A. Radford : Mai fidarsi (It’s Murder To Live, 1947) – trad. Lucia Ponzini – I Gialli Sprint, Zillitti Editore, Milano, 1964



Ci fu un tempo in cui il panorama librario italiano dei romanzi polizieschi era così florido e palpitante che nuove case editrici e collane apposite sorgevano e tramontavano senza che ce ne si accorgesse, perché nel frattempo altre prendevano il loro posto. Fa venir tristezza il fatto che ora in edicola ci siano solo i Gialli Mondadori ed in libreria una decina di case editrici, se rapportato il tutto ad un tempo in cui di case editrici in libreria ve n’erano a iosa.
Tra le altre, nel 1964, comparve una collana destinata a scomparire quasi nel breve tempo del battere di ciglia: “I Gialli Sprint”, della Zillitti Editore, una piccola casa editrice che in quegli anni, fra l’altro, stava tentando di ritagliarsi uno spazio nell’ambito delle pubblicazioni fantascientifiche.
La collana di polizieschi, diretta da uno scrittore italiano di polizieschi, Franco Enna, fu chiusa dopo che ne erano stati pubblicati tre soli romanzi, dei quali il secondo, pure dello stesso Enna!
 Per aprire la collana, che avrebbe dovuto avere ben altro futuro di quello che invece ebbe, fu scelto il quinto dei romanzi pubblicati dalla coppia inglese E. & M.A. Radford, estensori della Enciclopedia delle superstizioni .
Pochissime le notizie che si ricavano a proposito di detta coppia di scrittori: fu formata dai coniugi  (E)dwin Isaac e (M)angan (A)ugusta Radford, di cui lui era un giornalista e scrittore. I due dettero alle stampe trentotto romanzi, tutti pubblicati in Inghilterra (nessuno in USA).
La formazione coniugale non deve stupire: a quei tempi vi erano delle consolidate coppie di autori che avevano avuto successo, soprattutto in USA : i Cole, i Kelley Roos, i Lockridge, i Bristow & Manning. Vi si vollero provare anche i Radford. La loro serie, più conosciuta, fu quella con il Dottor Manson e l’Ispettore del CID Holroyd. Sono gialli britannici, più classici che non si può, con gli ingredienti tipici del Mystery britannico.
Il romanzo che esamino oggi è il quinto nella loro produzione, It’s Murder To Live, “Mai fidarsi” nella curiosa traduzione del titolo, proposta in Italia, romanzo pubblicato originariamente da Melrose, nel 1947.
Hannah Hardcastle, proprietaria di Dombey Hall, una casa risalente al XVII secolo, teme che qualcuno a casa sua la stia avvelenando, e perciò, prima di mangiare o bere qualcosa, aspetta che a leccare il tutto sia il suo gattino, usandolo come “un assaggiatore” vero e proprio: è sicura dell’avvelenamento ai suoi danni, perché, prima che usasse il gatto, ha avvertito forti dolori dopo aver mangiato. Solo dopo, ella consuma i pasti, e la colazione. Tuttavia non spiega a Sir Edward Allen, vice-sovrintendente, chi ella sospetti di essere il suo avvelenatore.
Fatto sta, che Allen ed il Capo della sez. scientifica di Scotland Yard, il dottor Manson, pur avendo classificato la donna quasi come paranoica, per essere a posto con la coscienza, decidono di inviare qualcuno sul posto. Viene inviato sul posto l’Ispettore Kenway, che si informa presso il Pub dei pettegolezzi del vicinato, poi si reca presso il dottor Williams, medico personale della signora, che gli fa notare come la sua assistita non abbia assolutamente nulla, e che le sue farneticazioni si riferiscono più a indigestioni che a presunti avvelenamenti. Quindi le indagini vengono sospese.
La signora Hardcastle ha numerose persone di servizio nella sua tenuta, e tra queste, una coppia di coniugi, William e Harriet Bain: lui fattore, lei governante. Assunti relativamente da poco tempo, dalla stessa Hannah Hardcastle. La coppia ha adottato una ragazza, la cui zia abitava assieme alla piccola in una stanza affittata dalla coppia dei Bain a Londra; poi la zia era morta e la ragazzina era stata adottata dai Bain, che non avevano figli.
William Bain, beve parecchio. Un bel giorno comincia ad avvertire forti dolori allo stomaco. I medici parlano di ulcera duodenale: ma, l’uomo, a dispetto della cura, e nonostante i medici sottovalutino le sue condizioni, muore in breve tempo.
Dopo un breve tempo, sua moglie, comincia ad avvertire forti dolori addominali. Il dottor Williams accorre, ma solo per avvertire che sta partendo per le vacanze, e assicura che invierà il suo sostituto l’indomani; questi diagnostica una gastrite acuta, ma nutre dei sospetti per l’assenza di vomito. Fatto sta che nonostante le cure prodigatele dal medico, anche ella muore con atroci dolori.
Questa volta il sostituto del medico, fresco di laurea, con più coscienza e più responsabilità del suo assuntore, si rifiuta di firmare il certificato di morte e rimanda la causa a Scotland Yard per l’autopsia; che peraltro convalida i timori del giovane medico, confermando l’avvelenamento di Harriet Brain per assunzione di antimonio.
A questo punto Scotland Yard si ricorda delle accuse della signora Hardcastle e decide di riaprire la pratica, inviando sul posto il Vice-Sovrintendente ed il Capo della Polizia Scientifica.
I due vengono inviati sul posto, cioè a Dombey Hall, e ben presto capiscono che tutti coloro abitano quella casa hanno qualcosa da nascondere. Innanzitutto la padrona di casa, che si dimostra più volte reticente e restia a spiegare le vere ragioni che l’hanno portata tempo prima a Scotland Yard, e non vuole assolutamente dire chi ella pensava fosse l’avvelenatore/trice; poi la cameriera, Hester che rivela cose in contraddizione con quanto appurato precedentemente; ed infine Bessie Johnson, la cuoca, colei che più di altri poteva aggiungere qualcosa ai cibi. Perfino il dottor Williams, non dice tutta la verità, subito. Ed anche lui è nel registro degli indagati, per aver potuto avere accesso, più facilmente degli altri, al tartaro emetico, un intruglio contenente piccole dosi di antimonio, che si scopre esser stato usato da Harriet Bain nei confronti del marito: le donne del posto lo davano ai mariti, di nascosto, sciogliendolo magari nel whisky, per indurre loro ad avere nausee quando avessero tracannato alcolici: era un modo per indurli a non bere più. Quindi anche Harriet avrebbe potuto avvelenare il marito. E che non sia stato proprio il tartaro emetico, assundo in grande concentrazione ad aver provocato la morte di ambedue i coniugi?
Tuttavia, rimane un dubbio di fondo: se è possibile che fosse stato dato a William Bain, per quale motivo mai avrebbe dovuto prenderlo la moglie?
Per di più si scopre, lo scopre il sergente Barrett, che Bessie, allontanandosi dalla cosa con la scusa di andare nell’orto, è andata invece nel giardino e qui, presso un corso d’acqua, si è disfatta di bustine di polvere bianca: cosa mai sarà?
Inizialmente si pensa possa essere proprio antimonio, ma poi si scoprirà che si tratta di comune bicarbonato di sodio: per quale motivo tanta reticenza a non ammettere che sia andata a scaricare ciò? E perché l’avrebbe fatto?
Tutte risposte cui dovrà dare una risposta Allen, cui darà un contributo di primo piano il suo amico, il dottor Manson, individuando l’assassino e l’arma per uccidere: una pocula, una brocca realizzata in una lega con molto più antimonio e rame del normale. La pocula è stata utilizzata come arma, versandovi del vino, che  si scoprirà erano l’unica cosa che solo loro due avessero bevuto.
E particolarità della pocula era di rilasciare nella sostanza contenutavi, molto più antimonio del normale.
Chi mai conosceva le proprietà della pocula? Ed è stata la stessa persona, ad aver premeditato l’uccisione dei due coniugi? E perché mai?
Conoscere il perché e non tanto l’identità dell’assassino, costituirà la parte più raccapricciante dell’intera vicenda, negli ultimi righi del romanzo.
Plot lineare ma interessante, quello del romanzo propone la storia senza tanti fronzoli, senza tanti preamboli. Non c’è, come è prassi quasi nei romanzi di marca “english”, la riunione di famiglia, o il funerale (che nei paesi anglosassoni prevede un ricevimento) o la festa di beneficenza, o la cena, tutti momenti in cui il germe del male può essere avvertito nell’ambito di una discussione.
E non ci sono neanche sub-plot, ma solo la trama originale, portata avanti nelle sue variazioni, a seconda dei vari personaggi implicativi.
E’ interessante, anche perché qui non c’è la morte della padrona di casa, o di un invitato, come spesso accade, ma quella di due persone di servizio. In questo richiama un romanzo giallo di Georgette Heyer, in cui a morire è il maggiordomo: Why Shoot a Butler? (1933).
Quello che però mi preme sottolineare è l’estrema pulizia della storia, che procede senza intoppi, pur avendo proposte varie piste alternative, ma solo per sviare i sospetti dall’unica possibile persona sospettabile, verso cui si rivolgono e si stornano i sospetti più volte. E anche la presenza, come possibili assassine, di tre signore anzianotte, che ci ricordano le atmosfere di  Arsenico e vecchi merletti (1944), di Frank Capra. Il romanzo originale consta di circa 180 pagine, quello tradotto in italiano, di circa 130: è evidente che una cinquantina di pagine, fossero state tagliate, allorchè fu prodotta l’edizione italiana. Evidentemente è stata tagliata parte della descrizione. Eppure il montaggio, italiano, è stato realizzato molto bene, giacchè la trama, nell’alternarsi di colpi di scena, talora anche grotteschi o paradossali, porta ad una logica conclusione, senza che le lettura ne venga pregiudicata, anzi scorre veloce e con  una elevata tensione. La causa di ciò è anche lo stile narrativo, quantomai fluido, che spesso ricorre anche ad un certo humour all’inglese, stemperando così la drammaticità degli eventi.
Una deliziosa lettura, insomma, che propone in luogo del detective dilettante, un detective ufficiale di Scotland Yard. Cioè, il classico al massimo grado.

Pietro De Palma

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