Ci fu un tempo in cui il panorama librario italiano
dei romanzi polizieschi era così florido e palpitante che nuove case
editrici e collane apposite sorgevano e tramontavano senza che ce ne si
accorgesse, perché nel frattempo altre prendevano il loro posto. Fa
venir tristezza il fatto che ora in edicola ci siano solo i Gialli
Mondadori ed in libreria una decina di case editrici, se rapportato il
tutto ad un tempo in cui di case editrici in libreria ve n’erano a iosa.
Tra le altre, nel 1964, comparve una collana
destinata a scomparire quasi nel breve tempo del battere di ciglia: “I
Gialli Sprint”, della Zillitti Editore, una piccola casa editrice che in
quegli anni, fra l’altro, stava tentando di ritagliarsi uno spazio
nell’ambito delle pubblicazioni fantascientifiche.
La collana di polizieschi, diretta da uno scrittore
italiano di polizieschi, Franco Enna, fu chiusa dopo che ne erano stati
pubblicati tre soli romanzi, dei quali il secondo, pure dello stesso
Enna!
Per aprire la collana, che avrebbe dovuto avere
ben altro futuro di quello che invece ebbe, fu scelto il quinto dei
romanzi pubblicati dalla coppia inglese E. & M.A. Radford, estensori
della Enciclopedia delle superstizioni .
Pochissime
le notizie che si ricavano a proposito di detta coppia di scrittori: fu
formata dai coniugi (E)dwin Isaac e (M)angan (A)ugusta Radford, di cui
lui era un giornalista e scrittore. I due dettero alle stampe trentotto
romanzi, tutti pubblicati in Inghilterra (nessuno in USA).
La
formazione coniugale non deve stupire: a quei tempi vi erano delle
consolidate coppie di autori che avevano avuto successo, soprattutto in
USA : i Cole, i Kelley Roos, i Lockridge, i Bristow & Manning. Vi si
vollero provare anche i Radford. La loro serie, più conosciuta, fu
quella con il Dottor Manson e l’Ispettore del CID Holroyd. Sono gialli
britannici, più classici che non si può, con gli ingredienti tipici del
Mystery britannico.
Il romanzo che esamino oggi è il quinto nella loro produzione, It’s Murder To Live,
“Mai fidarsi” nella curiosa traduzione del titolo, proposta in Italia,
romanzo pubblicato originariamente da Melrose, nel 1947.
Hannah Hardcastle, proprietaria di Dombey Hall, una
casa risalente al XVII secolo, teme che qualcuno a casa sua la stia
avvelenando, e perciò, prima di mangiare o bere qualcosa, aspetta che a
leccare il tutto sia il suo gattino, usandolo come “un assaggiatore”
vero e proprio: è sicura dell’avvelenamento ai suoi danni, perché, prima
che usasse il gatto, ha avvertito forti dolori dopo aver mangiato. Solo
dopo, ella consuma i pasti, e la colazione. Tuttavia non spiega a Sir
Edward Allen, vice-sovrintendente, chi ella sospetti di essere il suo
avvelenatore.
Fatto sta, che Allen ed il Capo della sez.
scientifica di Scotland Yard, il dottor Manson, pur avendo classificato
la donna quasi come paranoica, per essere a posto con la coscienza,
decidono di inviare qualcuno sul posto. Viene inviato sul posto
l’Ispettore Kenway, che si informa presso il Pub dei pettegolezzi del
vicinato, poi si reca presso il dottor Williams, medico personale della
signora, che gli fa notare come la sua assistita non abbia assolutamente
nulla, e che le sue farneticazioni si riferiscono più a indigestioni
che a presunti avvelenamenti. Quindi le indagini vengono sospese.
La signora Hardcastle ha numerose persone di
servizio nella sua tenuta, e tra queste, una coppia di coniugi, William e
Harriet Bain: lui fattore, lei governante. Assunti relativamente da
poco tempo, dalla stessa Hannah Hardcastle. La coppia ha adottato una
ragazza, la cui zia abitava assieme alla piccola in una stanza affittata
dalla coppia dei Bain a Londra; poi la zia era morta e la ragazzina era
stata adottata dai Bain, che non avevano figli.
William Bain, beve parecchio. Un bel giorno
comincia ad avvertire forti dolori allo stomaco. I medici parlano di
ulcera duodenale: ma, l’uomo, a dispetto della cura, e nonostante i
medici sottovalutino le sue condizioni, muore in breve tempo.
Dopo un breve tempo, sua moglie, comincia ad
avvertire forti dolori addominali. Il dottor Williams accorre, ma solo
per avvertire che sta partendo per le vacanze, e assicura che invierà il
suo sostituto l’indomani; questi diagnostica una gastrite acuta, ma
nutre dei sospetti per l’assenza di vomito. Fatto sta che nonostante le
cure prodigatele dal medico, anche ella muore con atroci dolori.
Questa volta il sostituto del medico, fresco di
laurea, con più coscienza e più responsabilità del suo assuntore, si
rifiuta di firmare il certificato di morte e rimanda la causa a Scotland
Yard per l’autopsia; che peraltro convalida i timori del giovane
medico, confermando l’avvelenamento di Harriet Brain per assunzione di
antimonio.
A questo punto Scotland Yard si ricorda delle
accuse della signora Hardcastle e decide di riaprire la pratica,
inviando sul posto il Vice-Sovrintendente ed il Capo della Polizia
Scientifica.
I due vengono inviati sul posto, cioè a Dombey
Hall, e ben presto capiscono che tutti coloro abitano quella casa hanno
qualcosa da nascondere. Innanzitutto la padrona di casa, che si dimostra
più volte reticente e restia a spiegare le vere ragioni che l’hanno
portata tempo prima a Scotland Yard, e non vuole assolutamente dire chi
ella pensava fosse l’avvelenatore/trice; poi la cameriera, Hester che
rivela cose in contraddizione con quanto appurato precedentemente; ed
infine Bessie Johnson, la cuoca, colei che più di altri poteva
aggiungere qualcosa ai cibi. Perfino il dottor Williams, non dice tutta
la verità, subito. Ed anche lui è nel registro degli indagati, per aver
potuto avere accesso, più facilmente degli altri, al tartaro emetico, un
intruglio contenente piccole dosi di antimonio, che si scopre esser
stato usato da Harriet Bain nei confronti del marito: le donne del posto
lo davano ai mariti, di nascosto, sciogliendolo magari nel whisky, per
indurre loro ad avere nausee quando avessero tracannato alcolici: era un
modo per indurli a non bere più. Quindi anche Harriet avrebbe potuto
avvelenare il marito. E che non sia stato proprio il tartaro emetico,
assundo in grande concentrazione ad aver provocato la morte di ambedue i
coniugi?
Tuttavia, rimane un dubbio di fondo: se è possibile
che fosse stato dato a William Bain, per quale motivo mai avrebbe
dovuto prenderlo la moglie?
Per di più si scopre, lo scopre il sergente
Barrett, che Bessie, allontanandosi dalla cosa con la scusa di andare
nell’orto, è andata invece nel giardino e qui, presso un corso d’acqua,
si è disfatta di bustine di polvere bianca: cosa mai sarà?
Inizialmente si pensa possa essere proprio
antimonio, ma poi si scoprirà che si tratta di comune bicarbonato di
sodio: per quale motivo tanta reticenza a non ammettere che sia andata a
scaricare ciò? E perché l’avrebbe fatto?
Tutte risposte cui dovrà dare una risposta Allen,
cui darà un contributo di primo piano il suo amico, il dottor Manson,
individuando l’assassino e l’arma per uccidere: una pocula, una brocca
realizzata in una lega con molto più antimonio e rame del normale. La
pocula è stata utilizzata come arma, versandovi del vino, che si
scoprirà erano l’unica cosa che solo loro due avessero bevuto.
E particolarità della pocula era di rilasciare nella sostanza contenutavi, molto più antimonio del normale.
Chi mai conosceva le proprietà della pocula? Ed è
stata la stessa persona, ad aver premeditato l’uccisione dei due
coniugi? E perché mai?
Conoscere il perché e non tanto l’identità
dell’assassino, costituirà la parte più raccapricciante dell’intera
vicenda, negli ultimi righi del romanzo.
Plot lineare ma interessante, quello del romanzo
propone la storia senza tanti fronzoli, senza tanti preamboli. Non c’è,
come è prassi quasi nei romanzi di marca “english”, la riunione di
famiglia, o il funerale (che nei paesi anglosassoni prevede un
ricevimento) o la festa di beneficenza, o la cena, tutti momenti in cui
il germe del male può essere avvertito nell’ambito di una discussione.
E non ci sono neanche sub-plot, ma solo la trama
originale, portata avanti nelle sue variazioni, a seconda dei vari
personaggi implicativi.
E’ interessante, anche perché qui non c’è la morte
della padrona di casa, o di un invitato, come spesso accade, ma quella
di due persone di servizio. In questo richiama un romanzo giallo di
Georgette Heyer, in cui a morire è il maggiordomo: Why Shoot a Butler? (1933).
Quello
che però mi preme sottolineare è l’estrema pulizia della storia, che
procede senza intoppi, pur avendo proposte varie piste alternative, ma
solo per sviare i sospetti dall’unica possibile persona sospettabile,
verso cui si rivolgono e si stornano i sospetti più volte. E anche la
presenza, come possibili assassine, di tre signore anzianotte, che ci
ricordano le atmosfere di Arsenico e vecchi merletti (1944), di Frank Capra. Il romanzo originale
consta di circa 180 pagine, quello tradotto in italiano, di circa 130: è
evidente che una cinquantina di pagine, fossero state tagliate,
allorchè fu prodotta l’edizione italiana. Evidentemente è stata tagliata
parte della descrizione. Eppure il montaggio, italiano, è stato
realizzato molto bene, giacchè la trama, nell’alternarsi di colpi di
scena, talora anche grotteschi o paradossali, porta ad una logica
conclusione, senza che le lettura ne venga pregiudicata, anzi scorre
veloce e con una elevata tensione. La causa di ciò è anche lo stile
narrativo, quantomai fluido, che spesso ricorre anche ad un certo humour
all’inglese, stemperando così la drammaticità degli eventi.
Una
deliziosa lettura, insomma, che propone in luogo del detective
dilettante, un detective ufficiale di Scotland Yard. Cioè, il classico
al massimo grado.
Pietro De Palma
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