Ho
sempre guardato con occhio severo alla partecipazione italiana al
mystery, non perché sia “bastion contrario” per partito preso, ma
perché, in passato, di originalità ne ho vista poca. Parimenti sono
stato sempre attento al tono con cui parlarne, per rispetto nei
confronti di chi scrive, avendo provato anch’io a scrivere e quindi
avendo sperimentato quanto sia difficile farlo. Purtuttavia, ho sempre
cercato di formare il giudizio improntandolo all’originalità della
lettura.
Di
originalità, nella fattispecie, non è che ce ne sia stata molta negli
anni passati in opere di autori italiani, almeno in grado di
impressionare, tranne qualcosa: mi ricordo soprattutto dell’opera prima
di Giulio Leoni, Dante Alighieri e i delitti della medusa , che
innovò il filone storico del Giallo (cominciato decadi fa da Josephine
Tey e da J.D.Carr e rinverdito poi da Paul Doherty, Peter Tremayne e
Ellis Peters) affidando il ruolo del detective ad un personaggio storico
famoso; poi ci fu Lorenzo Arruga, famoso musicologo italiano, che tentò
il Mystery di ispirazione musicale (tramontato dopo due tentativi); e
anche il tentativo di Luceri (che mischiò il giallo d’atmosfera al
gotico). Ma altri tentativi di innovare la letteratura poliziesca
italiana non è che mi abbiano molto impressionato, tranne qualcosa della
Baraldi, di Lucarelli e ovviamente di Camilleri.
Oltre questi autori c’è Stefano Di Marino, che fa gruppo a sé, perché non a caso è il più grande e prolifico autore di letteratura di genere in Italia . Del resto ho sempre detto, anche quando ci confrontavamo, otto-nove anni fa, in opposte fazioni nell’ambito delle discussioni appassionanti all’interno del Blog Mondadori, che è autore di razza, sapendo ben scrivere e raccontare. Tuttavia, non avrei mai pensato di leggere un suo romanzo mystery, seppure in un’ottica contemporanea, in quanto da sempre è autore versato all’Hard Boiled, al romanzo d’azione e alla Spy-Action. Segno che i tempi cambiano, e le posizioni granitiche non giovano a nessuno, come mi ha risposto tempo fa in un post.
Oltre questi autori c’è Stefano Di Marino, che fa gruppo a sé, perché non a caso è il più grande e prolifico autore di letteratura di genere in Italia . Del resto ho sempre detto, anche quando ci confrontavamo, otto-nove anni fa, in opposte fazioni nell’ambito delle discussioni appassionanti all’interno del Blog Mondadori, che è autore di razza, sapendo ben scrivere e raccontare. Tuttavia, non avrei mai pensato di leggere un suo romanzo mystery, seppure in un’ottica contemporanea, in quanto da sempre è autore versato all’Hard Boiled, al romanzo d’azione e alla Spy-Action. Segno che i tempi cambiano, e le posizioni granitiche non giovano a nessuno, come mi ha risposto tempo fa in un post.
Di
Stefano ho molto poco a casa: soprattutto Segretissimi. Non mi piace
molto l’action (mi stufa dopo un po’) soprattutto quella “tutta azione”:
ecco perché i romanzi di Spillane, pur possedendoli quasi tutti, non mi
piacciono. Mi piace molto di più l’Hard Boiled venato di sfumature,
alla McCoy o alla MacDonald. Insomma mi piace tutto ciò che è classico.
Tuttavia Stefano sa scrivere. Questa è la caratteristica sua peculiare: è
un dono che ha. L’unica cosa che non mi è mai andata giù è che fosse
diventato una sorta di apripista per tutta una serie di autori, che
passavano per la nuova leva italiana, ma che sembravano a me ed ad altri
(mi ricordo dei commenti di Fabio Lotti su Sherlock Magazine) solo dei
suoi cloni; da ciò derivò l’avversione mia e di altri a quel tipo di
narrativa (che non escludo tuttavia che ad altri possa essere piaciuta) che prese come esempio la trilogia di Montecristo e che imperversò anni fa per del tempo.
Ecco
perché quel volume in edicola mi ha attirato: non è stato amore a prima
vista, piuttosto si è trattato di un’attrazione fatale. E’ come se mi
adocchiasse dallo scaffale e mi invitasse a prenderlo in mano. Poi non
ce l’ho fatta più e l’ho acquistato; e ne sono rimasto incantato. Non
credo che abbia letto negli ultimi anni, con maggior passione di questo,
qualche altro romanzo di scrittore italiano che abbia scritto Gialli,
tranne il primo romanzo di Giulio Leoni con protagonista Dante Alighieri
( Dante Alighieri e i Delitti della Medusa): un altro straordinario
inizio.
Il
famoso illusionista e studioso di storia arcana, Sebastiano “Bas”
Salieri, è invitato a Venezia perché nominato erede del “Palazzo dalle
cinque porte”, un palazzo antico di Venezia, che suo zio Mattia ha
restaurato profondendovi energie e denaro per riportarlo all’antico
splendore, lasciandoglielo poi in eredità, quando è morto in circostanze
tragiche: nella darsena in cui stava facendo dei lavori, è morto
bruciato. Anche il padre di Bas, Pietro, è morto in circostanze poco
chiare durante una missione archeologica condotta assieme allo zio, il
quale è stato sospettato da Bas di esser coinvolto nella morte del
fratello.
Ben presto, sin dal suo primo apparire sul palcoscenico di Venezia, Bas, ammesso in circoli culturali cui apparteneva lo zio, capisce di essere stato messo in mezzo ad un piano
di cui lui è il fulcro. Le persone con cui trattava lo zio (Zemanian,
ricco mercante d’arte; Padre Pardi, un prete, direttore di un Centro
Studi romeno; l’amante di Zemanian, Issa Zabulovna, medium e
proprietaria di un laboratorio-deposito di costumi e maschere; i coniugi
Loredan, lui nobile decaduto, lei, Rossana Chiarentin, proprietaria di
una vetreria; lo stesso notaio Parisi; Ascanio Mirri, giocatore
incallito e sfortunato) sembrano essere opposte le une alle altre o
comunque non essere necessariamente amiche, ma tutte ben presto si
rivelano appartenenti ad un medesimo circolo esoterico, una specie di
setta occultista, il cui fine è quello di ricercare qualcosa che Mattia
Salieri ha cercato non trovandolo. Ecco perché Bas è stato messo in
mezzo ad un gioco che è più grande di lui: dovrà riuscire laddove lo zio
non è riuscito.
Beninteso,
nessuno obbliga Bas a prestarsi al gioco: potrebbe benissimo
preoccuparsi di fare altro, o ereditare il palazzo e venderlo . Ma chi
lo ha messo in mezzo, sa benissimo che non si sottrarrà al gioco, sempre
che di gioco possa trattarsi. E giocherà. Innanzitutto trova una cosa
che lo zio aveva vanamente cercato, un oggetto magico diabolico simile
ad un sestante ma più complesso: a cosa mai servirà? E da uno degli
appartenenti a quel circolo esoterico cui apparteneva anche lo zio, gli
viene offerto (in vendita) un dipinto di tale Betto Angiolieri, oscuro
artista del ‘500, raffigurante il palazzo in cui lui, Bas, abita: Il
Palazzo dalle Cinque Porte (che poi ne ha quattro in realtà). La quinta
infatti sarebbe una porta magica, una entrata alchemica, come quella
esistente a Roma. Lui scoprirà che questo Angiolieri ha disseminato per
Venezia, quarantatre raffigurazioni di quello che sembra un drago o
comunque un serpente magico, che poi si rivela essere un Basilisco,
secondo un ordine ben preciso, che deve condurre ad un certo luogo. Gli
stessi adepti della setta hanno adottato lo stesso termine
in uso cinque secoli prima presso un circolo esoterico molto ristretto,
cui appartenevano alcuni nobili e persino un doge dell’epoca : I Figli
del Basilisco.
Non
è un gioco. E c’è un male antico che sovrasta le azioni che si
svolgono: Maddalena, un’amica di Bas, medium e studiosa di occultismo,
dopo esser riuscita a mettere in guardia Bas, viene uccisa in maniera
feroce, non senza esser riuscito a fornire le tracce, che solo lui potrà
decifrare, per arrivare ad un testo che lei ha nascosto in casa sua: Il
Compendium Arcani. Tramite questo tomo, Bas e un’altra sua amica e
amante, Martina, nipote del notaio Parisi, riescono a comprendere come
lui Bas, sia uguale nei lineamenti del viso ad un suo antenato, tale
Radu Salieri, capitano di ventura e avventuriero romeno, che aveva
rubato il segreto della cantarella, il veleno dei Borgia e aveva portato
con sé il segreto di antico codice che sarebbe servito ad aprire il
cosiddetto Oculum Diaboli, una porta per accedere all’Inferno, luogo di
conoscenza, per chi ci crede.
Ben
presto moriranno anche il notaio Parisi (avvelenato in una Camera
Chiusa); la moglie separata del nobile Loredan, dopo aver cercato di
uccidere Martina e Bas nel ritrovo antico di Betto Angiolieri racchiuso
in una vetreria in disuso; Ascanio Mirri, dilaniato dalle eliche di un
natante, quando stava per rivelare qualcosa a Bas; la stessa amante di
Zemanian, caduta in una botola del suo laboratorio, aperta da non si sa
chi; poi infine, laddove dovrebbe aprirsi l’Oculum Diaboli, anche
vengono uccisi Zemanian, Pardi e Loredan: insomma una mattanza. Tuttavia
al plot del Mystery si interseca un subplot, costituito dalle
apparizioni del fantasma di una giovane donna, che prima appare solo a
Bas poi agli altri, nel corso di una seduta spiritica, che chiama in
causa diretta per la sua morte. Il fantasma apparirà per l’ultima volta
proprio su un isolotto laddove avrà luogo il drammatico finale, molto
gotico, in cui verranno dipanati molti misteri, tutti assieme, e
appariranno per l’ultima volta, anche in vita, il maggiordomo di casa
Salieri, Bepin, e l’amante di Bas, Martina.
Molte
altre cose accadono nel corso di questo mystery che amalgama
razionalità tipica del poliziesco deduttivo ad atmosfere sovrannaturali
tipiche del genere fantastico.
Si
è detto, lo ha affermato anche l’autore, che questo romanzo sia nato
dai ricordi di tutti quegli sceneggiati e anche films, che lui aveva
visto negli anni ’70. “La casa dalle finestre che ridono”, di Pupi Avati
innanzitutto, mi pare che lui abbia citato da qualche parte (il finale
del romanzo mi sembra ispirato dal finale del film, soprattutto dal
colpo di scena, del prete che si rivela altra persona, come Bepin nel
romanzo di Di Marino) e qualcos’altro di Bava tra i films, mentre tra
gli sceneggiati è evidentissimo il numero di citazioni da “Il Segno del
Comando” di Daniele d’Anza, a significare quanto sia stato importante
nell’ invenzione del plot di questo romanzo: la reincarnazione di Radu
Salieri in Bas Salieri (Forster-Tagliaferri in ISDC), l’apparizione del
fantasma di Ludmilla Szaresku morta precedentemente (L’apparizione del
fantasma di Lucia, modella del pittore Tagliaferri, in ISDC), una seduta
spiritica in cui opera una medium, Issa Zabulovna (Lucia in ISDC); un
negozio- deposito di costumi; dei nobili decaduti: qui I Loredan, in
ISDC il Principe Anchisi; poi c’è un artista maledetto che nel romanzo
di Stefano è Betto Angiolieri, mentre nello sceneggiato era Lorenzo
Brandani; un oggetto magico: qui una specie di sestante,
nello sceneggiato proprio Il Segno del Comando, un medaglione; infine un
bassorilievo che appare qua e là: in ISDC era una civetta, qui è un
basilisco. Insomma i riferimenti sono tantissimi.
Tuttavia
Di Marino non attinge solo dallo Sceneggiato RAI, Cult degli anni ’70,
ma anche da altri: da “Ritratto di Donna Velata” (fantasma e
reincarnazioni) a “I Compagni di Baal”, sceneggiato francese,
soprattutto per la setta che si riunisce in grotte, e i cui adepti
mascherano le proprie sordide ambizioni sotto la rispettabilità di ogni
giorno. Vi sono altri riferimenti: il fantasma che entra anche nel
finale, trasforma prepotentemente il romanzo poliziesco in un romanzo a
metà tra il poliziesco ed il fantastico, ritrovandosi sulle orme di
Carr: curioso che proprio Di Marino abbia copiato il famosissimo autore
americano specializzato in camere Chiuse (tra l’altro la morte del
notaio Parisi è in una Camera Chiusa dall’interno, risolta a parere mio
non brillantemente: per spostare una chiave che è all’interno di una
serratura ci vorrebbero delle pinzette molto sottili e così si
lascerebbero dei segni sulla chiave, ma fare quello che dice Stefano è
materialmente impossibile, a meno che ad imbrigliare la chiave non fosse
un sottile filo di ferro. Ma anche in questo caso, la struttura non
avrebbe quella sufficiente durezza che assicurerebbe la possibilità
dall’esterno di manovrare la torsione riuscendo effettivamente a sortire
un risultato: In questo caso si vede come Di Marino non sia avvezzo, a
parer mio, alle Camere Chiuse!) , ma mi ricordo di aver letto in una sua
intervista, che uno dei romanzieri che più aveva letto quando era
giovane era stato Carr. Apparentemente potrei dire che il riferimento
privilegiato a questo punto potrebbe essere The Bourning Court
(La Corte delle Streghe ) in cui la vicenda sovrannaturale, corre al
fianco di quella razionale; tuttavia a me sembra che se un lavoro di
Carr egli possa aver seguito, potrebbe essere più di The Bourning Court ,
The Door To Doom , famoso racconto del 1935 in cui una figura simile al Comte de Villefleur, ucciso un secolo e mezzo prima, viene visto sul luogo del misfatto. Ma non vi è solo Carr: vi sono anche Milos Forman (l’Antonio Salieri contrapposto a Mozart) e persino Martin Mystere: come non confrontare le linee d’energia che attraverserebbero il pianeta terra presenti in molti fumetti di Mystere con le linee che simili a meridiani e paralleli attraverserebbero il pianeta determinando ai punti di convergenza i portali, che la specie di sestante è in grado di individuare?
Il
quadro di Angiolieri che lo attira, a significare che nasconde
qualcosa, mi ha fatto venire in mente una serie di telefilms della fine
degli anni ’60, Wild Wild West, in cui in un episodio, i protagonisti
venivano trasferiti nel paesaggio di un quadro, ma
soprattutto “La Tavola Fiamminga” di Perez Reverte, in cui in un quadro
si nasconde un mistero. E lo stesso finale, mi ha in qualche modo fatto
ricordare soprattutto un altro romanzo di Reverte, Il Club Dumas,
in cui la storia è per certi versi simile (un codice che porta alla
rivelazione di un segreto, nascosto nelle incisioni del Libro delle Nove
Porte, in una trama che parla di Scienze Occulte e Magia Nera, e
dell’apertura di nove porte con rituali satanici).
Ma
sarebbe un errore dire che Stefano Di Marino abbia solo attinto dagli
altri. NO. Stefano ha preso indubbiamente delle cose, inserendole però
in un racconto affascinante, legandole mirabilmente in un affresco
talmente vivido di Venezia, da far dimenticare che alcuni luoghi sono
sicuramente inventati. Tuttavia, l’aver mischiato elementi inventati con
altri reali, ha creato un luogo mitico, leggendario come quello della
Roma misteriosa di Il Segno del Comando, in cui il Quartiere Monti è
trasfigurato in un qualcosa che non esiste.
Per
di più, Stefano Di Marino ha creato un romanzo che forse non sarà
piaciuto a chi ha seguito le vicende di Montecristo, ma a me parecchio,
soprattutto perché ben scritto: ricreando un ambiente fantastico,
attraverso le inserzioni di riferimenti e personaggi e opere che in quel
contesto sarebbero potute essere anche vere, e attraverso descrizioni
così accurate da far nascere il sospetto che abbia mischiato abilmente
contesti veri con altri immaginari, forma un’opera assai
ben scritta e con una tensione palpabile, che poi viene, man mano che ci
si avvicina al finale catartico, accelerata. Essa è in funzione di due
elementi ben distinti: l’uso di elementi acclarati (la nebbia,
l’oscurità, la luna, la presenza di elementi sovrannaturali, tipo un
fantasma, una seduta spiritica) per create atmosfere significative;
l’uso di elementi stilistici per accentuare la tensione e il thrilling:
all’interno della struttura dei paragrafi, i periodi vengono, in base
alla tensione che si vuole ottenere, opportunamente accorciati, così da
colpire nella loro essenzialità, come tante stilettate.
Indubbiamente
Bas è lo stesso Stefano, o meglio quello che lui sarebbe voluto essere:
sono sicuro che vi ha immesso dei particolari propri (come sempre si
fa), che sono nella fattispecie caratteristiche legate al modo di
vestire e di camminare. A pag. 24 si legge: “..rimase
sotto la doccia bollente, sinchè la pelle non fu rossa. Senza curarsi
di asciugare i capelli, cambiò biancheria e indossò un paio di pantaloni
scuri e una camicia cremisi fuori della cinta: Piedi nudi. In quel modo
riusciva a cogliere meglio le sensazioni della casa”. Ora in una foto tempo fa lo stesso Di Marino si è fatto riprendere con una camicia cremisi addosso. Non
ho visto il resto, ma mi sembra plausibile pensare che abbia immesso
nel personaggio da lui creato un suo modo di fare. Il fatto di camminare
a piedi nudi, per cogliere meglio le sensazioni della casa (attraverso
il contatto col pavimento) mi ha fatto pensare del resto a Ivo
Pogorelich, il pianista famoso parecchi anni fa, che utilizzava una
specie di pantofole in raso per sentire materialmente il pedale del
pianoforte e dosare più opportunamente la forza al fine di ottenere un
effetto il più calibrato possibile nella resa del suono.
A Stefano piaceva o meno Pogorelich?
Mah, che a Stefano piacesse o
meno il pianista croato, è indubbio che abbiamo seguito gli stessi
stimoli da giovani: a me piacevano da matti gli sceneggiati anni ’70,
piace Martin Mystere, piace moltissimo Carr. Un bel giorno abbiamo
cominciato a leggere altre cose, ma l’età e i ricordi sono simili.
Spero solo che questo non sia un romanzo isolato nella sua produzione narrativa.
Pietro De Palma
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