venerdì 30 dicembre 2016

Ellery Queen : Il Mistero delle Croci Egizie (The Egyptian Cross Mystery, 1932) – trad. Gianni Montanari - Oscar Scrittori Moderni Mondadori, N. 1869 del 2004



Fra tutti i romanzi di Ellery Queen, Il Mistero delle Croci Egizie non è certo una lettura riposante e scevra da scene forti (com’era vezzo della Detection all’inglese), ma invece un assordante fragore di morte, di sangue e di malvagità.
La prima volta che lo lessi avevo 13 anni, e leggevo ancora i Gialli per ragazzi della Mondadori: le serie dei 3 Investigatori o gli Hardy Boys. Perciò quando lo trovai in un vecchio mobile che stava nello stanzino a casa di mia zia, lo guardai con sufficienza: non sapevo che di lì a poco sarebbe iniziata la mia più grande scoperta: I Gialli, genere bistrattato, ora rivalutato, ma sempre etichettato come Letteratura di genere.
Mi attrasse la copertina, con quelle figure egizie, del grande Roger Barcilon, un disegnatore Mondadori oggi dimenticato, le cui copertine hanno tutte lo stesso stile : i volti e le situazioni sono indice di una forte drammaticità. E un alone come questo era più che ovvio che attraesse un ragazzo di tredici anni. Mi ricordo l’espressione che si disegnò sul volto di mio cugino: era sorpresa? Non saprei dire. Certo che passare da I 3 Investigatori o Nancy Drew a Ellery Queen, fu un salto epocale. Quell’espressione era forse compiacimento: certo è che anche mio cugino apprezzò quella mia scoperta.
Mi ricordo che lo divorai in un giorno. E se non l’avessi trovato, se non fossi entrato mai in quello stanzino, che libri avrei letto poi? Non lo so, questa è fantascienza ucronica: sarebbe potuto accadere che invece di quello mi sarei appassionato a leggere Kant o Herder (li ho letti, ma con meno ardore di quello espresso per i romanzi di Queen, Van Dine, Carr, o Christie. Il solo che li avesse eguagliati, fu Fichte: ma quella è un’altra storia). Non so. Ma quello che posso dire è che questo romanzo, proprio questo, è il solo che ho letto e riletto almeno 4 volte assieme a Il caso dei Fratelli Siamesi (seguito nel numero da Il Mistero del Plenilunio, L’Automa, Il terrore che mormora e Piazza Pulita di Carr, Il pericolo senza Nome e Tre anni dopo della Christie, Morte dal Cappello a cilindro di Rawson e Il mistero della Camera Gialla di Leroux). E ogni volta mi provoca sensazioni uniche.
Va detto però che a distanza di parecchi anni, sono pervenuto in possesso di altra copia dello stesso romanzo tradotto: il Classico del Giallo n.31 del 1968 non portava riferimento al traduttore, mentre altra pubblicazione nell’ambito della serie “ELLERY QUEEN : Sfida al lettore” del marzo 1985 era firmata da Gianni Montanari, ed era finalmente una traduzione integrale. Successivamente sono venuto in possesso del Classico del Giallo n.768 del 1996 e quindi l’anno scorso mi è stato regalato l’Oscar omonimo, tutte ripubblicazioni di tale ritraduzione integrale. Che, è bene dirlo, finalmente ha reso giustizia a questo autentico capolavoro: rispetto a questa seconda traduzione, la prima aveva più di quarantacinque pagine in meno, anche se è bene dirlo l’edizione del 1985 aveva le lettere più piccole e il testo più serrato: quindi, a rigor di logica, se l’impaginazione fosse stata quella dei Classici del Giallo, le pagine sarebbero potute essere certamente di più.
Molto spesso nella prima rispetto alla seconda si procedeva per salti con riassunti del tutto arbitrari di quanto saltato; e poi l’introduzione firmata dall’ ignoto J.J. McC. (ho supposto nel mio articolo su Il Caso dei Fratelli Siamesi sul Blog Mondadori :
che si trattasse di riferimento alla casa editrice McClure, uno dei due soggetti alla base dell’avventura dei due cugini Queen nel mondo del Giallo, con The Roman Hat Mystery) che, nella prima traduzione,era stata del tutto ignorata.
Il romanzo è uno dei più sanguinari di tutta la produzione, con tre omicidi efferati : le decapitazioni di tre fratelli.
Comincia tutto con “la crocefissione di un maestro di scuola”, Andrew Van, privo però di testa, a simboleggiare una mostruosa Tau egizia, su un palo indicatore ad un crocevia stradale della città di Arroyo: è la mattina di Natale.
Prosegue con la “crocefissione di un milionario”: Thomas Brad, proprietario di Bradwood, “famoso importatore di tappeti”, decapitato, legato ad un totem, dalla figura tristemente ricordante una Tau egizia.
E si conclude con la morte di Stephen Megara , all’albero maestro del suo battello, ancora senza testa.
Una storia in cui il sangue scorre a fiumi: non solo il sangue dei tre corpi oltraggiati, ma quello di vendette lontane. Infatti sembrerebbe ad un certo punto che l’omicidio efferato dei tre uomini, tre fratelli, rifugiati in America per scomparire dalla faccia della terra, non si riducesse ad altro se non ad una vendetta tribale, una faida tra due clan, quello dei Krosac e quello dei Tvar, nel Montenegro: in realtà, lo si scoprirà alla fine, è molto più di ciò. E in un certo senso, l’orrore della situazione drammatica, è superiore a quello derivante dal compimento di una vendetta lontana geograficamente e temporalmente. Tre uomini che per fuggire e cambiare la propria identità avevano scelto di attribuirsi una nazionalità fittizia originaria: Andrew Van l’Armeno, Thomas Brad il Rumeno, Stephen Megara il Greco, cambiando il proprio originario nome in quello di tre rispettive e diverse città: Van in Armenia, Brad in Romania, Megara in Grecia. Erano tre fratelli disperati che volevano lasciarsi alle spalle un triste passato e cercare nell’America delle speranze immutabili, nuovi stimoli di vita: troveranno un triste destino, perseguitati da un assassino che viene da lontano. Ma, poi, è tutto davvero così?
E quella T mostruosa, formata dalle braccia distese legate o crocefisse, di un corpo umano mancante di testa, suggerirà nel corso del romanzo più interpretazioni: innanzitutto la Tau egizia, cui si ricollegheranno altre suggestive teorie. Va detto che lo stesso motivo egiziano è una caratteristica molto precisa che collega tra loro parecchi scrittori aventi in S.S. Van Dine il loro vate. Infatti da The Scarab Murder Case di Van Dine (1930), altri romanzi derivano la loro trama, rifacendosi in vario modo alla civiltà egizia: il romanzo in questione di Ellery Queen (1932), Arrogant Alibi (1938) di Charles Daly King, persino The Man from Tibet (1938) di Clyde B. Clason che ambienta in Tibet una storia che pari pari deriva dal romanzo di Van Dine. Non dimentichiamoci che proprio agli inizi del secolo scorso si ascrivono importantissime scoperte archeologiche in Egitto (per es. la scoperta della Tomba di Tut-Ank-Amon), di immediata diffusione mediatica sia in Europa che in America; e che proprio archeologi sia europei che americani erano impegnati in quegli anni sia in Egitto che in Medio-Oriente. E non scordiamoci neanche, che prima che ambientasse Van Dine una delle avventure di Philo Vance in un museo di egittologia, ci aveva pensato già Richard Austin Freeman a concepire un romanzo in cui a vario titolo si parlasse di Egitto: The Eye of Osiris (1911). E del resto il modo come Ellery tratta la materia, fa sì che la sua cultura enciclopedica si rifaccia direttamente al suo archetipo, ossia il Philo Vance di S.S. Van Dine.
Ma poi si arriverà all’epilogo e allora verrà rivelato l’arcano, dopo un terrificante avvicendarsi di colpi di scena che partendo da faide e vendette consumate sui monti del Montenegro, attraverso un susseguirsi di indizi incongruenti, da un Tarzan senza perizoma, a pezzi di dama, a pipe, a crux ansate, a foglietti nascosti in posti inaccessibili, rivelerà il piano perfetto di una mente malata, un omicida implacabile, che non sarebbe stato mai acciuffato se non avesse commesso un insignificante errore: perché mai per disinfettare una ferita, avrebbe dovuto prendere una boccetta di tintura di jodio priva dell’etichetta, quando ce n’era un’altra disponibile e con tanto di indicazioni?
Alla base di questo indizio sta il come Ellery prova che l’assassino sia davvero quello da lui indicato. Un particolare che solo la sua mente analitica riesce a inquadrare in tutta la sua luce, inserendola perfettamente nel puzzle in modo che dia un senso al resto.
E’ da dire che comunque nel periodo in cui viene creato questo notevole romanzo, non è la prima volta che si parli di Montenegro nei Gialli: anche Rex Stout, anche lui seguace di Van Dine nei primissimi suoi romanzi, crea il suo personaggio principale e più fortunato, Nero Wolfe, attribuendogli, dopo una natalità a Trenton del New Jersey, delle origini montenegrine.
La purezza della razza aveva sempre attirato più di uno scrittore: e che si trattasse di montenegrini, come nel caso in questione, o di corsi, come in Colomba di Prosper Merimée, quello che attirava era anche la pulsione del sentimento, non mediata da alcun elemento civilizzato, odio e amore forti, elementi interessanti per degli scrittori che vivevano esperienze di vita in stati già allora multirazziali, come la Francia di fine secolo o l’America di inzio novecento, patria di tutti coloro che volevano lì rifarsi una vita.
Del resto l’aver scelto un soggetto come questo, e aver sguazzato il romanzo nel sangue, è solo il riferimento lontano a tutto quello sparso nelle guerre della penisola balcanica, che evidentemente ad una coscienza civilizzata doveva sembrare un tributo troppo alto e troppo irragionevole per non amplificarlo anche e solo in un giallo.
Se parliamo di tecnica, tuttavia qualche neo questo romanzo ce l'ha: nel finale (dopo aver letto Nevins, e quindi aver posto ancor più acume in certe situazioni), non si capisce come Kling non sia morto di inedia, tanto più che era solo, e gli era impossibile procurarsi il cibo; e per di più , e non si può proprio non esser d'accordo con Nevins, il soggetto pur essendo morto di stenti, non li presenta sul corpo. Questa è sicuramente una falla, un passo non sufficientemente limato. Inoltre presenta una caratteristica, che poi verrà esplicitata in modo ancor più netto in "Cinese", ossia la presenza di elementi caratteristici nel corpo centrale del romanzo, che molto poco hanno a che fare con il finale: è come se fossero stati messi per allungare il brodo, oppure come alcuni suggeriscono, Dannay avesse pensato di fare una metafora sulla guerra con questo romanzo, metafora poi abbandonata.

Pietro De Palma

P.S.
Il romanzo è di nuovo disponibile in libreria nella traduzione di Gianni Montanari.
 

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